giovedì 16 giugno 2011

Sotto la guida dello Spirito 5. - Tra debolezza e grazia.

 


TRA DEBOLEZZA E GRAZIA

Il titolo originale di questo capitolo era: Virtù e Grazia. Solo dopo un certo tempo mi sono reso conto fino a che punto un simile titolo poteva generare confusione. Dire qualcosa sulla virtù e sull'opera della grazia in noi, senza sembrare di favorire il vi­zio, resta impresa ardua. Esistono diverse maniere di dedicarsi alla virtù che possono escludersi a vicenda. A grandi linee, possiamo dire che esiste una virtù che non può corrispondere alla grazia e un'altra che può sgorgare solo dalla grazia. E’ importante operare la distin­zione tra le due, altrimenti l'uso del termine virtù" senza sfu­mature provoca seri inconvenienti. Il titolo del capitolo è diven­tato alla fine: Tra debolezza e grazia perché, come vedremo, la virtù autenticamente evangelica ha a che fare tanto con la no­stra debolezza quanto con la grazia.




Una virtù evangelica?

L'equivalente greco del termine "virtù" (areté) non appare mai sulle labbra di Gesù e molto raramente nel Nuovo Testamento (Fil 4,8; 2Pt 1,5). Il discepolo di Gesù non è chiamato alla virtù ma alla santità, e a una santità che non è sua se non in Gesù. Questo non esclude che molte cose siano state dette a proposito della virtù e della perfezione da parte di tutti quelli che hanno parlato dell'esperienza cristiana. Agli occhi di un profano, i cri­stiani a volte passano addirittura per le persone virtuose per d'amore, di un eccellenza. È difficile che sia altrimenti: chi vuole descrivere l'e­sperienza della fede e della grazia è forzatamente segnato dagli schemi di pensiero e dal vocabolario del suo tempo riguardo alla perfezione, ma dovrebbe evitare di esserne vittima. E’ sempre difficile parlare di un'esperienza spirituale con ter­mini umani, tuttavia, anche se le parole restano inadeguate, i credenti hanno il dovere di parlare, cosa che del resto hanno fatto da molti secoli. Quando gli autori spirituali parlano della vita della grazia nell'uomo, usano frequentemente espressioni come "avanzare", "progredire", "salire più in alto": restano così tri­butari di schemi filosofici o umanistici riguardanti la perfezio­ne, schemi che sono quelli della loro cultura. I più grandi pensa­tori non hanno avuto problemi nel raffigurarsi la perfezione del­l'essere umano come un progresso continuo, come un'ascensione più o meno pericolosa, interamente frutto dello sforzo umano. Se ogni perfezione suppone una certa ascesi, la tecnica di que­sta ascesi sarà inventata dall'uomo stesso e resterà alla portata della sua generosità. Una volta raggiunta la vetta, lo sforzo si trasformerà da solo in una meravigliosa libertà, una libertà per la quale l'uomo avrà pagato un prezzo altissimo. Vale la pena di sottolineare come un simile schema di perfe­zione è in contraddizione con quanto propone l'evangelo. Gesù ha espresso questa contraddizione, in modo laconico ma pun­gente, in una breve frase che torna più volte e in contesti diver­si: "Chi si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalza­to" (Mt 23,12; Lc 14,11; 18,14). Gesù ha voluto concretizzare questi due schemi o modelli dello sforzo spirituale nelle figure del fariseo e del pubblicano. Il fariseo rappresenta il percorso di una perfezione umanistica e secolarizzata, mentre il pubbli­cano rappresenta la via tipicamente cristiana, quella del penti­mento e della conversione, via che l'uomo non può scoprire da solo ma verso la quale Dio lo conduce per mano: frutto di un e­lezione gratuita e meraviglia della grazia. Tra queste due vie esiste sempre il pericolo della contamina­zione. Per descriversi, l'esperienza cristiana ha bisogno del lin­guaggio della perfezione umanistica, l'unico a disposizione. An­che se gli autori cristiani si sforzano di purificare ciò che le pa­role vi esprimono e, per così dire, le orientano in un'altra dire­zione, ciò non toglie che essi appaiono spesso aver adottato uno schema umanistico. Gli autori spirituali sono obbligati a utiliz­zare termini e immagini come progresso, ascensione o salita; si ritengono obbligati a parlare di gradi e di una vetta. Eppure il loro vocabolario corre il rischio di essere frainteso, al punto che il contrasto tra il fariseo e il pubblicano ritorna concretamente in tutta la spiritualità cristiana e monastica. Questo non deve stupire e mette in luce una tensione fondamentale, non solo di vocabolario, che riflette un'inclinazione naturale del cuore uma­no, forse la tentazione più sottile per colui che cerca veramente Dio, tentazione che può essere vinta solo con una continua con­versione del cuore. I primi autori cristiani usano già alcune immagini, mutuate del resto dalla Scrittura: si ascende al Sinai, fino alla nube in cui dimora il Signore, così pure al Carmelo, dove il profeta Elia po­té contemplare qualcosa di Dio, e al monte Sion, dove il Signo­re fece costruire il Tempio; soprattutto si ascende al Tabor, do­ve Gesù glorificato si rivelò ai discepoli. L'idea dell'ascensione fu ripresa con l'immagine della scala: la scala, apparsa in sogno a Giacobbe e che collegava la terra con il cielo, fu utilizzata da­gli autori antichi per descrivere il progresso nella vita spiritua­le. Questa scala ha diversi gradini, sui quali ci si può coraggio­samente esercitare a salire. Così nel VI secolo un certo Giovan­ni - soprannominato Climaco, che significa appunto "della scala" - ha presentato tutta la vita monastica come l'ascensione di una scala che aveva addirittura trentatré gradini. Benedetto, di cui riparleremo presto, presenta nella sua regola una scala dell'umiltà, limitata però a dodici gradini. Queste immagini esprimono bene i nostri sentimenti: posso­no dare l'impressione che si tratti innanzitutto di fare progres­si, salendo sempre più in alto, excelsior. E tuttavia importante scegliere bene la nostra scala, perché ne esistono di assolutamente inadatte, come quella fatta di virtù solo umane, per esempio. C'è una sola scala buona, quella dell'umiltà. Benedetto sembra esser stato cosciente dell'ambiguità che si nasconde dietro il ter­mine "gradino", quando lo usa per indicare i progressi in umil­tà. Infatti aggiunge subito che questa scala si sale scendendo e si scende non appena si cerca di raggiungerne la vetta. Bisogna salirla abbassandosi e scenderla innalzandosi: "Exaltatione descendere et humilitate ascendere". La vetta di questa scala coinci­de con la vetta dell'umiltà e l'esaltazione che può procurare nel futuro è raggiunta solo attraverso l'umiltà della vita presente. D'altronde nessuno può mettersi all'opera se non vi è chiamato da Dio: solo la vocatio divina può fissare i gradini della scala e permettere, suo tramite, di raggiungere la vetta. Non esiste al­tra via né altra virtù per il cristiano al di fuori di questo abbas­samento nella piccolezza e nella povertà. Tuttavia la tentazione di una perfezione legalista riappare co­stantemente. Soprattutto in periodi di rilassamento spirituale, diventa reale per le forme di fede impegnata - come il monache­simo, la vita religiosa, la fede militante - il pericolo di lasciarsi contaminare da questa idea di perfezione, proprio quando ba­sterebbe semplicemente rinnovarne l'ispirazione evangelica. L'ob­bedienza, l'ascesi, la preghiera stessa possono essere distolte dal Dio vivente per essere messe al servizio di un ideale di perfezio­ne che, in fondo, non si differenzia da un'etica profana. Si trat­ta allora solo di un'opera umana, paragonabile a un bastione die­tro al quale ci si protegge contro gli altri e a volte contro Dio stesso. Se un tale sistema di giustificazione mediante le opere concede ancora uno spazio alla contrizione, quest'ultima è solo un esercizio tra gli altri, ma cessa di essere questa meraviglia della grazia che trasforma l'essere da cima a fondo, la soglia che dobbiamo necessariamente varcare per rinascere a una vita nuova ed essere totalmente liberi di fronte alla potenza attraente dello Spirito santo. Di questo tipo fu senza dubbio la vita monastica che Lutero si sforzò, con molta fatica e molta generosità, di realizzare e di cui tentò, a torto, di generalizzare l'immagine dal momento in cui sperimentò sulla sua pelle uno scacco totale. "L'umile atto di seguire Cristo era divenuto, nel monachesimo, opera merito­ria dei santi. La rinuncia al proprio io di chi seguiva Cristo si svelò qui come estrema affermazione spirituale di se stessi da parte degli uomini pii. Con questo il mondo aveva fatto irruzio­ne nel monachesimo stesso e agiva di nuovo nella maniera più pericolosa. L'evasione del monachesimo dal mondo si era svela­ta come il più raffinato modo di amare il mondo. In questo nau­fragio dell'ultima possibilità di condurre una vita devota Lute­ro afferrò la grazia. Nel crollo del mondo monastico egli rico­nobbe la mano salvatrice di Dio tesa in Cristo. Egli l'afferrò convinto nella sua fede che 'tutte le nostre opere sono inutili, anche nella migliore delle vite"' (D.Bonhoeffer, Sequela, Bre­scia 1971, p. 26). Queste parole di Bonhoeffer rappresentano un'autentica sfi­da per tutte le forme di fede impegnata; in particolare stigma­tizzano un monachesimo degenerato in un'opera e un'impresa unicamente umane, erette contro Dio e la sua grazia. L'incubo di una vita monastica simile non è solo una caricatura dovuta alla penna di Lutero: resta uno scoglio sempre possibile, forse addirittura la tentazione più astuta della nostra epoca. Potreb­be avvenire diversamente per un monachesimo che cercasse di secolarizzarsi fin nel suo essere profondo? Solo l'autentica con­trizione potrà liberare il monachesimo da questa chimera e di­ventarne la salvezza. Infatti solo attraverso un'intensa esperienza della contrizione il monaco potrà scoprire come ogni ascesi e qual­siasi amore di Dio sono al di fuori della portata dell'uomo e non possono mai essere il risultato dei propri sforzi. Sono unicamente opus Dei, opera di Dio in un cuore totalmente abbandonatosi alla propria miseria e alla sovrabbondante misericordia di Dio. Se vogliamo ritrovare nell'evangelo le tracce di questa am­biguità, dobbiamo tornare alla parabola del fariseo e del pub­blicano.



Fariseo o pubblicano?

Questa parabola tratta della scala giusta e della sbagliata, del­l'autentica virtù e di quella fittizia, della vera e della falsa azio­ne di grazie. Il fariseo si pone nelle prime file del tempio e là esprime una solenne azione di grazie, assolutamente conforme alle azioni di grazie ufficiali della liturgia di quel tempo: "Mio Dio, ti rendo grazie...". Ma ringrazia Dio per la propria virtù, pensa di essere migliore degli altri: né ladro, né ingiusto, né adul­tero e certamente non come "quel pubblicano là!". Il fariseo si colloca evidentemente sulla vetta della scala e si complimenta con Dio di quanto in se stesso crede appartenere all'autentica virtù. Possiamo anche trovarci sulla scala sbagliata, magari uno o due gradini più in basso, ma sempre sulla scala sbagliata. Come quando, per esempio, la presa di coscienza della nostra povertà spirituale o della nostra viltà ci rimanda a noi stessi e genera ogni sorta di sentimenti negativi: insoddisfazione, scoraggiamen­to, gelosia, forse addirittura disperazione. Arriviamo a invidiare gli altri o ciò che riteniamo virtù e siamo inconsolabili a mo­tivo della nostra mediocrità. Sentimenti come essere contenti o scontenti di sé, giudicare o invidiare gli altri sono sintomi del fatto che siamo sulla scala sbagliata, quella del fariseo, e che la stiamo salendo a rovescio. Il fariseo infatti aveva occhi solo per la propria virtù: aveva rapidamente osservato il pubblicano e lo aveva giudicato in un batter d'occhio. Il pubblicano invece non sembra aver notato il fariseo, né aver sentito la sua preghiera. Il suo sguardo è ri­volto solo a Dio, e a se stesso solo nella misura in cui si vede alla luce di Dio: è peccatore. Ma non è minimamente schiaccia­to dal proprio peccato, infatti se ne ricorda solo per rivelarlo alla misericordia di Dio: "O Dio, abbi pietà di me, il peccato­re!". Ad avanzare, progredire, salire più in alto il pubblicano non pensa nemmeno, anzi, alla luce di Dio, è contento della pro­pria piccolezza: è la sua verità profonda, che gli permette di pre­sentarsi a Dio senza maschera. E’ una verità che vorrebbe scava­re e approfondire ancor di più, ma sempre sotto lo sguardo del­la meravigliosa potenza della misericordia. Questo gli basta e lo rende felice. Viene qui spontaneo pensare alle espressioni di alcuni mistici fiamminghi del XIV e XV secolo: annientarsi, esser nulla e rima­nere in questo nulla, aggrapparsi alla propria debolezza e al proprio peccato affinché Dio sia Dio per me. Il mistico può così essere totalmente se stesso: nulla e peccato; e anche Dio può essere totalmente se stesso per lui: misericordia e amore sovrab­bondante. Il pubblicano si trova sulla scala giusta e procede nel­la giusta direzione: humiliando ascendit, umiliandosi, s'innalza. Il fariseo e il pubblicano che Luca ci presenta faccia a faccia nel capitolo 18 del suo evangelo rappresentano due atteggiamenti spirituali di cui Gesù parla continuamente. Da un lato farisei, sadducei e dottori della legge: la virtù ufficiale; d'altro lato pub­blicani, samaritani, prostitute: in una parola, i peccatori; due tipi di persone tra le quali c'è tensione e contraddizione. Gesù da parte sua non fa nulla per avvicinarle, anzi, si ha l'impressio­ne che alimenti con piena consapevolezza questa tensione. Ne consegue che i farisei sono gelosi della sua preferenza per i pec­catori e i pubblicani: è un'accusa che ritorna costantemente nelle loro discussioni con Gesù. Gesù d'altronde è piuttosto duro e severo nei loro confronti, mentre è incredibilmente buono e in­dulgente verso gli altri. Nei riguardi dei farisei Gesù sembra esau­rire il repertorio delle sue invettive: a suo giudizio sono ipocriti (Mt 23,l3ss.), vipere e razza di vipere (Mt 12,34), sepolcri im­biancati, a fianco dei quali si cammina senza saperlo, belli a ve­dersi all'esterno ma pieni di putridume all'interno (Mt 23,27), ciechi, guide di altri ciechi (Mt 15,14), che appaiono giusti agli occhi degli uomini ma che dentro sono pieni di ipocrisia e di iniquità (Mt 23,28). Il principale motivo di accusa di Gesù nei loro confronti è che "presumono di essere giusti" (Lc 18,9): non si considerano peccatori e pensano che Dio abbia riguardo solo per il gruppo di uomini nel quale si collocano. Qui sta il malin­teso, davvero crudele: Gesù non è venuto per i giusti ma per i peccatori (Mt 9,13), e chi non avverte fino a che punto è pec­catore non può incontrare Gesù. I peccatori e le prostitute ci precedono nel regno di Dio (Mt 21,31). Se Gesù si oppone con tale vigore ai farisei è perché in loro ha incontrato l'autentico peccato. Questo non sempre si trova là dove lo cercheremmo volentieri: è quanto emerge da un'altra discussione tra Gesù e i farisei, riportata da Giovanni al capito­lo 9 del suo evangelo, in seguito alla guarigione del cieco nato. Non è il cieco nato il vero cieco - dice Gesù - perché questi sta per riacquistare la vista; ma chi pretende di vedere, come i fari­sei, questi è cieco e si condanna a restare cieco. Erano stati gli stessi farisei ad accostare cecità e peccato: "Rab­bì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse cieco?" (Gv 9,2). E’ impressionante vedere come, in questo episodio, i farisei attribuiscono il peccato a tutti: il cieco è colpevole per­ché è nato cieco, Gesù è peccatore perché guarisce in giorno di sabato, gli stessi ascoltatori sono sospettati perché non conoscono la legge (Gv 7,49). E’ quindi evidente che questi bravi farisei si considerano tra i giusti e disprezzano gli altri. Loro conosco­no la legge, mentre il popolo, che va dietro a quel rabbi, non la conosce; sanno che quell'uomo, Gesù, non può venire da Dio, perché Dio non ascolta il peccatore che trasgredisce il sabato. E perché mai dovrebbero accettare una lezione da uno che è ap­pena stato guarito dalla sua cecità? "'Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?'. E lo cacciarono fuori" (Gv 9,34). I farisei non possono essere toccati da Gesù: egli non può nem­meno raggiungerli né fare qualcosa per loro. Vivono rinchiusi nella torre d'avorio della loro sufficienza e della loro giustizia personale. Gesù infatti non è alla ricerca di quelli che vedono: cerca i ciechi, i peccatori, quelli che hanno tutte le possibilità di entrare nel regno senza imbrogliare. Potremmo dire che Ge­sù ha bisogno di peccatori per essere in grado di compiere la pro­pria missione di salvatore e di redentore. Ecco il giudizio che annuncia e per il quale è venuto: chi conosce il proprio peccato e lo confessa può essere guarito e rialzato, ma chi maschera il proprio peccato dimentica che non sfuggirà al giudizio. Gesù lo dice con altre parole, che chiudono la guarigione del cieco nato: "Io sono venuto in questo mondo per una sentenza, perché co­loro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino cie­chi" (Gv 9,39). Non poteva esprimersi in modo più paradossa­le, e i farisei hanno capito perfettamente che la punta di questo paradosso si rivolgeva a loro: "Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: 'Siamo forse ciechi an­che noi?'. Gesù rispose loro: 'Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane " (Gv 9,40-41). Una cosa è chiara: il vero peccatore è chi pre­tende di non essere cieco; non è il fatto di essere cieco che è grave - un cieco può essere guarito -, bensì la pretesa di vedere: ecco l'unico peccato.



La Buona Novella

Ecco invece, innanzitutto, la buona novella di Gesù: siamo peccatori, ma il nostro peccato è perdonato. A volte ci si è im­maginato che la buona novella consistesse piuttosto in questo: teniamo conto del peccato e facciamo del nostro meglio per non caderci; attenzione quindi a sapere bene dove inizia e dove fini­sce il peccato, cosa è permesso e cosa è vietato. Ma il sapere se questo è peccato e quello non lo è non costituisce assolutamen­te l'oggetto primario della buona novella: sarebbe una buona no­tizia per i farisei, non quella di Gesù. Al contrario, la buona no­vella di Gesù consiste in questo: il nostro peccato, qualunque esso sia, è perdonato. La nostra unica e immensa gioia è di esse­re peccatori perdonati: l'unica certezza che ci resta qui sulla terra davanti a Dio è fonte di riconoscenza infinita. La grazia che Gesù vuole accordarci, e che noi cominciamo appena a sospettare, è di saperci peccatori: saperlo è il segno che i nostri occhi final­mente si aprono e che stiamo per essere guariti dalla nostra ce­cità, è il segno certo della grazia, dell'unica grazia sulla terra, che è anche l'unica gioia del cielo: "C'è più gioia in cielo per un peccatore convertito che per novantanove giusti che non han­no bisogno di conversione" (Lc 15,7). Mediante questa via del pentimento noi osiamo essere la gioia di Dio, perché Dio ha voluto rivelare il suo amore attraverso una pedagogia del peccato e della grazia. In due passaggi Paolo si esprime a questo proposito in modo vigoroso: "Dio ha rin­chiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia!" (Rm 11,32); "La Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il pecca­to perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo" (Gal 3,22). Rinchiusi sotto il peccato per diventare prigionieri nella rete della misericordia. E’ l'unica via che conduce a Dio, o meglio, quella su cui Dio ogni giorno ci viene incontro: la via della felix culpa, della beata colpa, quella colpa che è la nostra migliore opportunità, perché essa sola ci svela la grazia di Dio. Per questo il peccatore non è certamente un estraneo agli oc­chi di Dio; al contrario, Dio vuole conoscere solo il peccatore e, viceversa, quest'ultimo è il solo a sapere qualcosa su Dio. Il romanziere inglese Graham Greene, di cui è stato detto che l'u­nico tema dei suoi romanzi è la contemplazione dei peccatori, ha messo un giorno come motto di uno dei suoi romanzi questa frase di Péguy: "Il peccatore è al cuore stesso della cristianità. Nessuno è così competente in materia di cristianità come il pec­catore. Nessuno, se non il santo". Così, a un certo momento, non c'è più differenza tra il peccatore e il santo: il santo, infat­ti, non è altro che un peccatore convertito, ed è questo prima di qualunque altra cosa. E ogni peccatore è un santo in potenza. Esaminare questa via del peccato e della misericordia, sotto diverse angolature, è l'intenzione di questo libro. Questa via è il luogo privilegiato per entrare nell'intimità di Dio e innestarsi sulla sua grazia meravigliosa. La breve preghiera del pubblica­no, nota in una certa tradizione con il nome di "preghiera di Gesù", la esprime perfettamente: "Signore Gesù, abbi pietà di me, peccatore!". Gesù arriva ad affermare che essa ottiene im­mediatamente il perdono e la giustificazione, cioè la santità: "(Il pubblicano) tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato" (Lc 18,13-14). Il monaco che si trova sul gradino superiore della scala dell'u­miltà descritta da Benedetto riprende la preghiera del pubblica­no, diventata per lui l'unica preghiera: è la liturgia ininterrotta del suo cuore, liturgia che celebra ovunque vada o si trovi, se­duto o in piedi, senza osare alzare gli occhi verso il cielo e ripe­tendo incessantemente nel cuore la stessa preghiera: "Signore, abbi pietà di me, peccatore!" In questa breve preghiera l'oriente e l'occidente si incontrano: è infatti conosciuta e praticata sia dai monaci bizantini che da quelli occidentali. Si può forse arrivare a dire che questa pre­ghiera è il fondamento e il cuore della chiesa. Mi ricordo di una mia visita a un eremo nel nord della Moldavia, vicino alla fron­tiera romeno-sovietica: era un eremo dipendente dalla skita di Sikla, a sua volta legata al monastero di Sihastria, abitato ancor oggi da un centinaio di monaci. L'intera regione, del resto, è una zona monastica da secoli, una specie di Athos romeno. La skita è nascosta nel bosco a mille metri d'altitudine; un po' più distante, sotto una parete rocciosa alta e scoscesa, si trovava l'e­remo. Sulla porta, una mano malferma aveva scritto la preghie­ra del pubblicano: "Signore Gesù, abbi pietà di me, povero pec­catore!". Era chiaramente diventata il motto di questo eremita, il suo grido al cuore della chiesa. Il grido stesso della chiesa, sposa di Gesù, sintesi e riassunto di ogni preghiera. In realtà non esi­ste altro che questo grido e, al di là, l'amore, l'abbraccio tra il Padre e il figlio prodigo, tra Gesù e il pubblicano, l'unione a lungo attesa tra l'abisso del nostro peccato e l'abisso della mise­ricordia di Dio.