mercoledì 15 giugno 2011

Sotto la guida dello Spirito 3. - La potenza della fede.




LA POTENZA DELLA FEDE

I lettori di questo libro saranno in maggioranza credenti, il che significa, nella nostra terminologia, persone aderenti alla fede cristiana. Le parole fede e credente sono due termini che ci sem­brano chiari e a proposito dei quali non ci poniamo questioni, proprio come per numerose altre parole del vocabolario religio­so corrente. Ne consegue il rischio che, dopo un certo periodo di tempo, alcune sfumature fondamentali risultino logore o che delle accezioni secondarie finiscano per svolgere un ruolo molto più importante che all'inizio. Ecco perché a volte è bene sotto­porre il nostro vocabolario abituale a un esame critico.

Come parlare della fede?
Per quanto riguarda il termine fede, una prima difficoltà pro­viene dall'uso di due aggettivi derivati: credente e non credente. Normalmente li utilizziamo per indicare due gruppi sociali ben definiti: ovunque incontriamo credenti e non credenti; la mag­gior parte della gente è in grado di dire senza esitare a quale gruppo appartiene. E un po' come una professione, o una na­zionalità, o uno stato civile; potremmo quasi indicarlo sulla car­ta d'identità, o sulla denuncia dei redditi, come del resto già av­viene in alcuni paesi. Citiamo qualche altra espressione derivata dal termine fede che potrebbe sviarci: credibile e credulo. Noi diciamo che qual­cosa è credibile quando sembra ragionevole. Senza volerlo, insinuiamo così che la fede ha qualcosa a che vedere con un'ogget­tiva verosimiglianza; una cosa non credibile è allora inverosimi­le. Questa stessa ambiguità inficia l'uso di credulo e incredulo. Un "Tommaso incredulo" è qualcuno che, a nostro giudizio, at­tribuisce troppa importanza alle regole della verosimiglianza, una persona alla quale non la si può far credere. Mentre, al contra­rio, credulo è chi non bada eccessivamente alla verosimiglianza e rasenta l'ingenuità. L'identica radice credere è così usata in con­testi che hanno poco a che fare con la fede di cui parla l'evangelo. Quando parliamo della fede, pensiamo spontaneamente alle verità della fede. Una simile associazione orienta il concetto della fede in una direzione intellettualista e in parte già lo blocca. Chi parla di verità della fede pensa immediatamente a un manuale di teologia o di catechesi, in cui la Parola di Dio è esposta in maniera didattica. Una simile espressione didattica della fede ha ovviamente molta importanza, ed è bene che sia oggetto di estrema cura; ma è altrettanto importante che l'accento venga posto sulla differenza fondamentale tra la fede e un manuale, pur realizzato in modo esemplare. Posso benissimo sapere molto a proposito della fede, e anche condividere molto questa cono­scenza con altri, senza mai compiere il passo decisivo della fe­de, che implica sempre un abbandono esistenziale a Gesù. La difficoltà può derivare in parte dal fatto che, secondo l'u­so attualmente in vigore nella nostra chiesa, la maggior parte di noi è stata battezzata nell'infanzia e quindi abbiamo ricevu­to la fede fin da piccoli. Noi proclamiamo che nel battesimo ab­biamo ricevuto il dono della fede, di conseguenza siamo portati a credere che, a partire dal nostro battesimo, apparteniamo una volta per tutte alla categoria dei credenti. Questo è vero, ma solo in una certa misura. Senza voler mettere in discussione la prassi attuale della chiesa, dobbiamo tuttavia sottolineare che la fede ricevuta nel battesimo costituisce solo un inizio e non può, in nessun modo, dispensarci da un incontro personale con Gesù. Quando, ancora bambini, fummo battezzati, questo av­venne grazie alla fede della chiesa, rappresentata concretamen­te al nostro battesimo dai nostri genitori e da padrino e madri­na. Costoro si impegnarono a sostenere la fede che veniva donata, ma che era ancora inconscia nel bambino, e ad accompa­gnarne lo sviluppo fino a un autentico incontro di fede con Ge­sù. Senza questo impegno dei genitori, del padrino e della ma­drina, la chiesa non permetterebbe mai di amministrare il bat­tesimo a dei bambini piccoli. Questo perché, senza catechesi, la fede del piccolo battezzato continuerebbe a sonnecchiare nel cuore a tempo indefinito e finirebbe per soffocare. Ci potremmo naturalmente chiedere se una simile fede incon­scia non continui a sonnecchiare a lungo anche in molti cristia­ni adulti, a causa del fatto che nessuno ha aiutato lo sviluppo della grazia ricevuta o che l'aiuto prestato era così estraneo alla grazia che i suoi frutti sono appena visibili. In molti casi, non si fa altro che aggiungere a questa fede inconscia un sistema di verità puramente intellettuale, mentre sul piano dell'agire con­creto ci si limita a trasmettere alcuni principi di buona educa­zione, chiamati morale. Ma solo raramente si è insegnato come confrontarsi concretamente a questa fede ricevuta, come essere attenti alla vita della grazia in sé e come vivere e amare in sinto­nia con questa vita. Allora, quando verrà anche per noi il mo­mento di trasmettere questa fede ai più giovani, ne saremo as­solutamente incapaci. Chi non ha mai scoperto il cammino del­la grazia in sé, non potrà neanche mai insegnarlo ai propri figli. A sua volta si accontenterà di trasmettere un insieme più o me­no corretto di verità sulla fede, e nel contempo si sforzerà di dare l'esempio di una vita leale e irreprensibile, ma in cui la gra­zia ha pochissimo a che fare.

Lo stupore di Gesù
Le fede non è cosa facile, non può diventare pretesto a scap­patoie; non è nemmeno una via rapida: anche qui sono necessa­ri tempo e pazienza. "Signore, credo, vieni in aiuto alla mia po­ca fede!" (Mc 9,24). Per meglio capire la fede è opportuno tor­nare all'evangelo e, più in particolare, alla pericope in cui Gesù loda la fede di qualcuno come non ha mai fatto altrove. Si trat­ta della fede di un centurione romano, capace di stupire a tal punto Gesù da fargli dichiarare di non aver mai trovato una fe­de così grande, nemmeno in Israele (cf. Mt 8,10). Nei sinottici ci sono solo due circostanze in cui Gesù manifesta un certo stu­pore: è sorpreso dalla fede del centurione e dalla mancanza di fede dei suoi concittadini di Nazaret. Marco lo dice esplicita­mente: "E si stupiva della loro mancanza di fede" (Mc 6,6), e aggiunge che là non poté operare nessun miracolo. Fermiamoci un attimo su questo pubblico che non crede in Gesù. La loro mancanza di fede è effettivamente sorprendente: si tratta in fondo di concittadini, di persone di Nazaret, forse addirittura dei vicini di Gesù, quindi di gente che conoscono Gesù da anni. Sono vicinissimi a Gesù: posizione eccezionale, forse pensiamo noi, per conoscerlo e sondarlo. Forse a volte sia­mo tentati di pensare che la fede sarebbe stata molto più facile se anche noi avessimo potuto essere contemporanei e concitta­dini di Gesù. L'evangelo lascia trasparire esattamente il contra­rio, e Gesù lo sottolinea ancora, come una cosa scontata: "Un profeta non è disprezzato che nella sua patria" (Mc 6,4). Più si è vicini a Gesù, umanamente parlando, più è difficile credere in lui. Questo può apparire ancor più sorprendente dato che gli abi­tanti di Nazaret incontrati da Gesù in sinagoga nel giorno di sabato sono tra gli ebrei più credenti del loro tempo. Non solo conoscono la legge, ma frequentano la sinagoga, dimostrando di essere fedeli ferventi. Nonostante credano nella Parola di Dio, non arrivano a credere in Gesù, al contrario si scandalizzano delle sue parole, il che conferma la loro appartenenza alla categoria dei cosiddetti "devoti". Chi non fosse stato pronto a sacrificare ogni cosa per la religione non si sarebbe scandalizzato alle paro­le di Gesù. Forse avrebbe sorriso, oppure alzato le spalle, ma non si sarebbe certamente scandalizzato e tanto meno sarebbe intervenuto. Indubbiamente abbiamo a che fare con persone fer­venti e profondamente religiose, eppure non hanno riconosciu­to Gesù, non hanno avuto fiducia nelle sue parole, non credono ai suoi miracoli. Qualcosa in loro rimane bloccato e sono inca­paci di aprire il chiavistello. Sembra addirittura che più sono vicini a Gesù, più professano lealmente la loro religione e ne os­servano con generosità le prescrizioni, e più diventa difficile per loro abbandonarsi alle parole e alla persona di Gesù, con quella fede che Gesù richiede loro. In realtà, lungo tutto l'evangelo sono le persone meno raccomandabili - pubblicani, peccatrici o stranieri - che, in questo ambito, precedono di gran lunga i pii e credenti ebrei. Il centurione di cui Gesù tanto ammira la fede è proprio una di queste figure: non solo è un non credente, ma è addirittura uno straniero. E non è neanche uno straniero "neutro", bensì un ufficiale dell'esercito d'occupazione romano, quindi un ne­mico. Sembra però nutrire qualche simpatia per gli ebrei; sotto l'uniforme ha probabilmente conservato un cuore d'oro - uno degli evangelisti ci informa che ha fatto costruire addirittura una sinagoga (cf. Lc 7,5) - ma non è un ebreo credente. Tuttavia appare in grado di dare il proprio cuore e la propria fiducia a Gesù: lui ha ricevuto questa fede rara che Gesù si augura così ardentemente. Analizzando più da vicino questa pericope ci verrà svelato qualche aspetto di questa fede del centurione. Il primo aspetto che colpisce in quest'uomo è la consapevo­lezza della propria piccolezza. E vero che il centurione si trova nella situazione di chi grida il proprio dolore e ha bisogno di essere aiutato e quindi tende la mano verso Gesù: un servo che gli è molto caro è gravemente malato. Tuttavia avrebbe anche potuto agire in modo diverso. Ufficiale dell'esercito d'occupa­zione avrebbe potuto rivendicare ben altrimenti l'aiuto di quel taumaturgo: perché non convocarlo d'autorità ed esigere un in­tervento? Ecco invece che si mette lui stesso in cammino - un in­tera giornata di viaggio - per andare incontro a Gesù. Non solo, ma percepisce di non avere il minimo diritto su Gesù, di non poter neppure esigere una sua visita: è un semplice pagano! Quan­do Gesù gli annuncia, come cosa scontata, che ha intenzione di spostarsi per guarire il suo servo, la sua reazione sgorga sponta­nea: "Signore, non sono degno". E un incir conciso, un non cre­dente e, nonostante abbia fatto costruire una sinagoga, non ap­partiene al popolo eletto. Resta all'ultimo posto, al limite della soglia, e confessa la sua piccolezza davanti a Gesù: "Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto". Il secondo elemento che colpisce nell'atteggiamento del cen­turione è la sua fiducia illimitata in Gesù. Molti ebrei nutriva­no dei dubbi nei confronti di Gesù, lui invece credeva ferma­mente che Gesù potesse guarire e che di fatto avrebbe guarito. Una convinzione così solida è possibile solo perché il centurio­ne avverte che esiste già un legame personale tra lui e Gesù: ha capito che Gesù stava per compiere qualcosa per lui. E già mol­to di più che il credere nella potenza di guarigione di Gesù o nel messaggio che annuncia: credere che Gesù farà qualcosa per­ché è ben disposto verso di lui dimostra che il cuore del centu­rione si è aperto a Gesù. Si tratta forse già di un inizio di amici­zia: una fiducia simile colpisce Gesù molto profondamente. Gli è sempre più difficile rifiutarsi di intervenire dal momento che gli viene rivolto un appello personale. Il centurione in definitiva è cosciente della potenza che risie­de nella parola di Gesù: "Di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito". Pensa che sia inutile che Gesù venga di persona: basta che dia un ordine. Questa reazione è d'altronde tipica in un ufficiale che sa per esperienza cosa significano gli ordini e l'obbedienza. Basta una parola: "Vieni, ed egli viene; va' ed egli va". Il centurione, con la sensibilità tipica del soldato romano, si avvicina già moltissimo all'abbandono e all'obbedienza di fe­de che ogni ebreo cerca di vivere nei confronti della Parola di Dio e della potenza che vi si cela: la fede di Israele è costituita da un abbandono totale alla parola di Qualcuno in cui pone la massima fiducia, da un si alla Parola di Dio.

Consenso e abbandono
In ebraico, il termine "fede" (emunah) deriva dal radicale emeth, fedele, che è uno degli attributi maggiori di Dio. Dio è misericordioso e fedele (cf. Gen 24,27); potremmo anche tradurre: tenerezza e saldezza. Emeth infatti suggerisce l'idea del­la roccia sulla quale ci si può appoggiare e si può edificare. Dio non viene meno: potremo sempre contare su di lui. Credere si­gnifica appoggiarsi su questa saldezza di Dio. Anche Amen de­riva dalla stessa radice: dire Amen significa credere al massimo grado, acconsentire alla saldezza di Dio come questa si impone a noi nella sua Parola o nella persona di Gesù. Anche di Gesù infatti è detto che è nel contempo Amen e Pistos, fedele (Ap 3,14). Lo è in un duplice senso: Gesù può innanzitutto appoggiarsi smi­suratamente e addirittura quasi temerariamente su suo Padre, perché può contare ciecamente sulla sua potenza e la sua saldez­za. Diventa così per noi il vigore e la potenza per eccellenza, sulle quali possiamo a nostra volta appoggiarci senza limiti né esitazioni. La fede del centurione sgorgava dalla necessità in cui si di­batteva ma, prima di ogni altra cosa, era fiducia in Gesù e ab­bandono nella sua Parola, fino all'obbedienza totale. La fede quin­di non è solamente, o per lo meno innanzitutto, consenso ad al­cune verità di fede riguardanti Gesù, bensì accettazione di Gesù stesso, con tutta la potenza che ha ricevuto dal Padre, il che in­clude una rinuncia totale alla nostra persona a suo favore. Per­ciò l'importante non è solo che crediamo qualcosa riguardo a Dio - per esempio, che esiste -, oppure che crediamo a Dio quando ci parla, bensì che noi crediamo in Dio, o meglio verso Dio nel senso dell'accusativo greco, e latino, di movimento, come è ri­masto nel Credo (pisteuein eis ton theon; credere in Deum). La nostra fede è un movimento verso Dio, una fede che ci scuote e ci trascina, una fede che è esodo da se stessi e immissione in Dio: tale era la fede del centurione. Così ogni giorno posso ag­grapparmi alle parole di Gesù che salva e chiedergli: "Di' sol­tanto una parola e io sarò guarito". Una fede simile costituisce uno sconvolgimento radicale: l'uo­mo è invitato a uscire da se stesso, impara a dimenticarsi e ad abbandonarsi per lasciarsi raggiungere dalla Parola viva e onni­potente di Dio, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Una di queste è che, in virtù della fede, riceviamo la potenza stessa di Dio. La fede infatti non è solo il cammino per il quale possia­mo aderire a Dio e raggiungerlo, è anche la via che Dio apre alla sua potenza e alla sua forza per operare meraviglie in tutto il mondo.

La fede che opera meraviglie
Nella pericope dell'evangelo citata poc'anzi, ci viene ricorda­to che Gesù non poté operare miracoli nella sua patria a causa della mancanza di fede degli abitanti di Nazaret. Gesù in quel luogo non era spogliato della sua potenza, ma questa era infiac­chita, avversata dalla mancanza di fede. Gesù non può interve­nire nella nostra vita finché non ci consegniamo totalmente a lui, a partire dalla nostra debolezza, e purtuttavia con piena e totale fiducia. Gesù si pone davanti a ogni uomo con tutta la pienezza del suo amore e della sua potenza, ma la maggior parte di noi non è innestata in lui: ecco perché non può intervenire. Gesù va in cerca della nostra estrema povertà, accompagnata dal nostro cieco abbandono. E questo il terreno dove oggi, con la sua potenza e attraverso la nostra fede, si accinge a compiere meraviglie. Nell'evangelo Gesù si mostra sempre felicemente sor­preso di fronte alla fede che scopre nell'uno o nell'altro: "Va' - dice al centurione - e ti avvenga secondo la tua fede" (Mt 8,13). Non è l'unico caso in cui Gesù attribuisce la sua azione di tau­maturgo alla fede dei suoi ascoltatori. I miracoli non sembrano essere opera unicamente sua, ma appaiono essere anche alla por­tata di quanti chiedono miracoli. Quante volte Gesù attribui­sce la guarigione da lui operata alla fede del malato: "La tua fe­de ti ha guarito" (Mt 9,22; Lc 8,48; 17,19; 18,42 epassim). Ge­sù dà addirittura l'impressione di cedere e di capitolare di fronte alla fede profonda di una cananea: "Donna, davvero grande è la tua fede! Ti avvenga secondo il tuo desiderio!" (Mt 15,28). Gesù cede al punto di obbedire alla fede di colei che lo suppli­ca: come la mancanza di fede lo paralizza, così la fede libera la potenza di Gesù. Questo è il meraviglioso dialogo della fede tra Dio e l'uomo: Dio è il primo a parlare e si aspetta da noi che ci abbandoniamo alla sua Parola, quando questa ci avrà afferrati. Non appena que­sto accade, Dio diventa, per così dire, l'umile servitore di chi ha tutto abbandonato per lui. Da quel momento, Dio non è più il solo a essere Onnipotente: chi crede e si affida a questa Onni­potenza lo è altrettanto. Maria è stata la prima ad abbandonarsi così alla Parola di Dio che gli fu rivolta dall'angelo Gabriele: "Avvenga di me secondo la tua parola" (Lc 1,38). Ma al cuore del dialogo di fede, Dio ribalta questa frase e ce la rimanda: "Vi avvenga secondo la vostra fede" (Mt 9,29); "Ti avvenga secon­do il tuo desiderio!" (Mt 15,28). In questo modo la nostra fede è simile a un grembo reso fecondo dalla potenza della Parola di Dio, che a sua volta partecipa della potenza di Dio non appena questa Parola è accolta in un abbandono totale. Allora più nulla è impossibile, al contrario: "Tutto è possibile per chi crede", dice Gesù (Mc 9,23). E la fede è ampiamente sufficiente. Il centurione aveva detto a Gesù: "Di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito" (Lc 7,7), ma questa stessa richiesta è ribaltata da Gesù: "Non temere, solo abbi fede..." (Lc 8,50), una fede piccola come un granello di senape (Mt 17,20), e il miracolo avverrà. Appare ora evidente come l'oggetto della nostra fede non è innanzitutto un insieme di verità da esprimere e da confessare: questo avverrà nella tappa successiva che procede dalla nostra stessa esperien­za di fede. L'oggetto della fede è innanzitutto la meravigliosa potenza di Dio presente, per noi e per tutti, nella Parola di Dio, nei segni della salvezza che avvengono nella chiesa, ma soprat­tutto nel Signore risorto, Gesù Cristo. Dobbiamo credere nella potenza sprigionata una volta per tutte dalla resurrezione di Gesù, potenza che, attraverso la nostra fede, ricade su ciascuno di noi e sul mondo intero. Attraverso la nostra fede, la potenza della resurrezione di Gesù è messa a disposizione di tutti: "Supplico il Dio del Signore no­stro Gesù Cristo, il Padre della gloria, perché vi dia uno spirito di sapienza e di chiarezza nella conoscenza di lui. Possa egli dav­vero illuminare gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere (...) qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza che egli manife­stò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli" (Ef 1,17-20) La fede ci apre alla potenza di Dio: siamo liberati nel nostro intimo e il nostro cuore è salvato. E come se Dio aprisse un chia­vistello nel nostro io profondo e spalancasse una porta attraver­so la quale può farsi breccia per inondarci come un torrente e trascinarci nell'amore e nell'Onnipotenza che ci fa rivivere, si­milmente a quanto è accaduto il mattino di Pasqua, quando Gesù è risuscitato dai morti in virtù dell'onnipotenza della gloria del Padre. La fede è questo evento sorprendente che si impadroni­sce non solo della nostra intelligenza, ma di tutto il nostro esse­re. Ne usciamo rimpiccioliti e, per così dire, come sperduti: pic­coli nei confronti di noi stessi, degli altri e di Dio, eppure mai schiacciati, anzi, liberati ad opera di questa illimitata fiducia in lui "che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare" (Ef 3,20), e sempre disponibili per i mi­racoli che il Signore Gesù continuerà a compiere attraverso la nostra fede. Non c'è dubbio che Dio è incessantemente all'opera nella chie­sa e nel mondo, ancora oggi. Ma solo la nostra fede può scopri­re questi miracoli continui e arrivare a vivere come circondata di miracoli: all'infuori della fede, non esistono altri mezzi per percepire l'opera di Dio. I cristiani sono chiamati a rendere vi­sibili i miracoli di Dio nella chiesa di oggi. Ogni cristiano deve permettere alla potenza e alla fedeltà di Dio di realizzarsi nella propria vita. D'altronde, la sua stessa fede costituisce la primis­sima meraviglia di Dio, come il centurione era lui stesso un mi­racolo di Dio, ben prima che il suo servo fosse guarito. La no­stra fede rimanda dunque a Dio, a colui che la Bibbia definisce come il testimone fedele per eccellenza (cf. Ap 1,5), colui che resta indefettibile e incrollabile nei nostri confronti, la roccia alla quale ci possiamo appoggiare e il fondamento sul quale pos­siamo costruire. Ogni volta che Dio ci fa comprendere, nel nostro intimo, che dei miracoli stanno per avvenire in noi e attorno a noi, è il segno che cominciamo lentamente a credere. Dio infatti non compie miracoli soltanto affinché si creda, ma perché alcuni uomini cre­dono e si sono aperti con fiducia alla sua onnipotenza. I miraco­li scaturiscono dalla loro fede, gli sfuggono dalle mani a loro in­saputa, prima ancora che costoro possano sospettarlo. La fede non è altro che questa esperienza, sempre a tentoni, dell'amore onnipotente di Dio: un'esperienza cosciente di essere lei stessa un miracolo di questa potenza e, nei limiti voluti da Dio, un segno luminoso per tutti gli uomini.