mercoledì 15 giugno 2011

Sotto la guida dello Spirito 2. - I nostri idoli e Dio








I NOSTRI IDOLI E DIO

Essere in stato di conversione è la condizione indispensabile per raggiungere il Dio unico e vero, il Dio di Gesù Cristo; di­versamente, appartenendo ancora ai nostri idoli, non saprem­mo parlare di Dio. E quanto l'apostolo Giovanni si premura an­cora di sottolineare nel momento in cui dà gli ultimi ritocchi al­la sua prima lettera. Il suo messaggio tende innanzitutto a insegnare come "amare Dio e colui che ha inviato, Gesù Cri­sto" (Gv 17,3), poi Giovanni conclude così la sua lettera: "Sap­piamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l'intelli­genza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna. Piccoli figli, guardatevi dagli idoli!" (lGv 5,20-21).

La sposa infedele
Già Paolo, nella sua prima lettera ai Tessalonicesi, si era con­gratulato con i credenti perché era stato loro concesso di abban­donare gli idoli per convertirsi al Dio vivo e vero (cf. 1Ts 1,9-10): in questo brano Paolo considera la prima tappa della conversio­ne, che ha inizio con il battesimo. Giovanni, da parte sua, si rivolge a dei cristiani che avevano ricevuto il battesimo da mol­to tempo, ed esorta anche loro a guardarsi dagli idoli, cosa im­possibile a farsi senza conoscere il Dio vero in Gesù Cristo. Guar­darsi dagli idoli e confessare l'autentico Dio sono aspetti costi­tutivi dell'esistenza del credente: questi si trova incessantemente nello sconvolgimento della conversione, nell'abbandono degli idoli per convertirsi al Dio unico e vero. L'esistenza di un solo Dio è diventata chiara per Israele a po­co a poco: nei testi più antichi della Bibbia è dato per scontato che ogni popolo possieda il proprio dio e quindi Israele ha dirit­to al suo Dio così come gli altri popoli dispongono del loro. Con il tempo emerge che questi altri dèi non sono altro che idoli, privi di significato, mentre il Dio di Israele è il Dio unico e uni­versale, un Dio per tutti, il Dio vero e sempre fedele, al di fuori del quale non c'è Dio: "Ascolta, Israele: JHWH è il nostro Dio, il solo Dio, JHWH solo. Tu amerai Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (Dt 6,4-5). Un Dio talmente più grande rispetto ai nostri piccoli dèi privati che non ce ne si può fare un'immagine, non può essere colto né fissato in for­me legate allo spazio. Ma esiste per Israele, in virtù del suo amore e della sua forza: "Io sono colui che sono" (Es 3,14), il suo No­me non può essere nominato invano (cf. Es 20,7) e, a un certo momento, non sarà più nemmeno pronunciato (al punto che og­gi ne ignoriamo l'esatta pronuncia: quella solitamente usata è una semplice ipotesi, non dimostrata dal punto di vista storico­esegetico). Egli è l'Inesprimibile e l'Ineffabile di cui si potrà avere esperienza solo all'interno dell'alleanza conclusa con il suo po­polo. Un'alleanza eterna, che attraverserà i secoli, e in cui la fe­deltà e la pazienza di Dio prevarranno sempre sull'infedeltà de­gli uomini. Israele tuttavia sarà fortemente tentato di allontanarsi da un Dio lontano e invisibile per volgersi alle forme di culto ben più concrete, proprie delle popolazioni circostanti. Per secoli la con­versione di Israele si giocherà a questo livello, perché questa ri­marrà sempre la sua maggiore tentazione. Israele resterà fedele alla parola data a JHWH oppure - per usare il linguaggio rude dei profeti - tornerà a prostituirsi e a correre dietro agli idoli? Israele avrà costantemente bisogno dei profeti per mettere il di­to su questa piaga e per attirare la sua attenzione sui suoi ripe­tuti cedimenti, spesso inconsci, alla tentazione. L'andirivieni tra JHWH e gli idoli è infatti molto più facile della dimora stabile accanto a un Dio apparentemente così irreale, le cui grandi ope­re di salvezza rischiano di cadere nell'oblio; non solo, ma i riti delle religioni naturali sono molto più attraenti della fede spo­glia nell'Inaccessibile. L'idolatria resta sempre una sorta di vena sotterranea nel po­polo credente; idolatria da cui Israele deve incessantemente es­sere liberato perché il pericolo che si allontani dal vero Dio e venga sollecitato dagli idoli è enorme. Di tanto in tanto un pro­feta interviene energicamente per ergersi tra i due: come Elia, che lancia una sfida a JHWH e a Baal sul monte Carmelo. Era infatti ora che Dio dicesse chiaramente, di fronte a tutto il po­polo, se era o meno il Dio vivo e vero, oppure se era solo un Dio sonnolento, assente o forse addirittura morto. Nella maggior parte dei casi, molto prima che il problema di­venti troppo grave, Dio interviene personalmente, delineando lui stesso la cornice dell'intervento che farà nella nostra vita. In un modo o nell'altro corrisponde alla dinamica di ogni con­versione, come l'ha descritta con efficacia Osea: "Oracolo di JHWH: ecco, le sbarrerò la strada di spine e ne cingerò il recin­to di barriere e non ritroverà i suoi sentieri. Inseguirà i suoi aman­ti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli. Allora dirà: “Ritornerò al mio marito di prima, perché ero più felice di ora” (Os 2,8-9) Ritornerò traduce la nozione veterotestamentaria che esprime la conversione e che il greco dei Settanta rende con me­tanoein. Il racconto simbolico della sposa infedele che ritorna sui suoi passi per ritrovare il primo marito esprime nel modo più esatto ciò che la Bibbia intende per "conversione": "E av­verrà in quel giorno - oracolo di JHWH - mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: Mio Baal. Le toglierò dalla bocca i nomi dei Baal, che non saranno più nemmeno pronunciati. (...) Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai JHWH" (Os 2,18-19.21-22). Dopo i numerosi profeti dell'Antico Testamento, anche Ge­sù, il più grande tra loro, deve intervenire per liberare il suo po­polo dal ritualismo. Per Gesù la difficoltà era maggiore: innan­zitutto veniva a portare la Buona Novella definitiva, alla quale l'ebreo medio non era preparato. In questo la sua rivelazione avveniva in un momento della storia in cui almeno una parte del popolo di Dio non attendeva più questo intervento da parte sua. Gesù doveva rivelare il mistero più profondo di Dio: l'a­more tra il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Voleva anche rive­lare la liberazione definitiva e finale del popolo di Dio e com­pierla attraverso la propria vita e la propria morte; tutto ciò in presenza dell'ostilità della classe dirigente del popolo che, nella sua sufficienza, restava chiusa a Dio e sembrava aver perso ogni speranza nel compimento delle promesse. Si vantavano dei loro titoli storici: "Siamo figli di Abramo" (Gv 8,39) o della loro par­ticolare conoscenza della Torah: "Questa gentaglia che non co­nosce la legge..." (Gv 7,49). Atteggiamenti che già Giovanni Bat­tista aveva stigmatizzato: "Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre" (Lc 3,8), indicando così che ciò che conta non sono i diritti o i titoli che si crede di possedere sull'amore di Dio, bensì l'amore stesso di Dio, la grazia sola. In realtà il messaggio di Gesù era molto semplice: non era che il prolunga­mento di quanto i profeti avevano annunciato prima di lui. Ma Gesù doveva morire a causa di questo messaggio perché lo JHWH degli ebrei del suo tempo, onorato con un culto quasi fanatico, era stato da loro trasformato a tal punto in un falso dio che non erano più in grado di riconoscerlo in Gesù e nel Padre suo. Anche la giovane chiesa di Gesù dovrà lottare contro questa tentazione: il cristianesimo aveva appena messo radici nei cuori e l'evangelo cominciava appena a portare frutti, che già si affac­ciava la tentazione di deviare verso le più svariate forme di ido­latria. Soprattutto Paolo si troverà a lottare contro di esse: do­vrà incessantemente mettere in guardia i fedeli da un'interpre­tazione troppo legalista della Torah e spiegare perché non la legge ma solo la fede, l'abbandono in Gesù ha il potere di portare sal­vezza. Le ragioni che adduce esprimono la sua profonda con­vinzione, oltre che la sua esperienza personale "perché la grazia sia grazia" (Rm 4,16; 11,6). Anche tra i neofiti, convertiti dal paganesimo, appare il pericolo di un ritorno al culto religioso che hanno appena abbandonato per amore di Gesù. Si sono con­vertiti a Gesù, ma il vecchio culto resta sempre un miraggio se­ducente nel loro subconscio religioso. Paolo ne sembra irritato, ed è con un tono venato di commozione che cerca di spiegare loro come, così facendo, finiscano per rinnegare il vero Dio che hanno appena imparato a conoscere: "Un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono; ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire? Voi infatti osservate giorni, mesi, stagioni e anni! Te­mo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo" (Gal 4,8-11). "Correvate così bene; chi ha ostacolato il vostro slancio di sottomissione alla verità?" (Gal 5,7).

E i falsi idoli di oggi?
Paolo non scherza, parla seriamente! Dobbiamo chiederci se questa esortazione non si applica a noi, ancora oggi. Pensiamo forse che, almeno nei nostri paesi, venti secoli ininterrotti di cri­stianesimo abbiano definitivamente allontanato il pericolo del­l'idolatria? Ma ci sono numerosi tipi di idoli, e i più pericolosi non sono quelli che plasmiamo con le nostre mani bensì quelli che portiamo inconsciamente nel cuore. Non esiste forse ancor oggi una religiosità che ha poco a che vedere con l'azione dello Spirito in noi? Una religiosità più o meno naturale e innata ma che, proprio per questo, non facilita il riconoscimento del vero Dio in Gesù. Anche noi potremmo deviare, a volte impercetti­bilmente, verso pratiche che non hanno nulla a che vedere con l'evangelo di Gesù, e sulle quali la grazia ha pochissima presa; atteggiamenti che al contrario rischiano di paralizzare la grazia nei nostri cuori. Questa tendenza all'idolatria, così ostinata ne­gli ebrei dell'Antico Testamento, appare anche in noi: è come una malattia di cui portiamo il germe sempre attivo, anche se invisibile e poco noto, e che, nel momento in cui meno l'aspet­tiamo, può prendere il sopravvento sulla Parola di Dio in noi. Ciascuno di noi porta in sé dei germi di culti naturali, di os­servanze legaliste, di ritualismi. La maggior parte degli uomini prova un sentimento vago e universale di Dio: esiste un Dio pan­teista, così come ne esiste uno romantico; c'è anche un Dio per i farisei - quel Dio al quale Gesù si oppose così strenuamente - grazie al quale possiamo porre tutta la nostra sicurezza e fidu­cia in noi stessi e nelle nostre opere. Un Dio simile ci sbarra la strada e ci impedisce di vedere il vero Dio e di riposarci in lui solo. Anche ciò che vi è di meglio può essere deformato, tutto può venir messo al servizio dei no­stri idoli domestici. Anche la grazia può essere stornata in mo­do estremamente sottile per essere offerta - nel momento stesso in cui è ridotta a nulla - in onore del nostro idolo. Anche la Pa­rola di Dio può essere mutilata, al punto che Paolo arriva a scri­vere che a volte è falsificata (2Cor 4,2). La Parola può addirit­tura diventare una scappatoia, un pretesto per astenerci da un impegno nei confronti di Dio: possiamo maneggiare e manipo­lare la Parola di Dio con tale facilità da trasformarla in un ba­luardo fortificato attraverso il quale la grazia non può più aprir­si una breccia. Prendere coscienza del rischio che corriamo giova sempre per­ché le illusioni in questo campo sono frequenti. La virtù, la ge­nerosità, i desideri di perfezione o di santità, la liturgia, le tec­niche di preghiera, addirittura quella che consideriamo come la nostra preghiera più intima, gli stessi sacrosanti principi della morale possono diventare un modo di fuggire Dio, uno sforzo disperato per evitare di ascoltarne la voce, per nasconderci lon­tano dal suo volto e da ciò che vuole dirci. Addirittura anche quello che facciamo per gli altri e per la chiesa di Cristo può essere solo un espediente, estraneo al nostro io più profondo, molto lontano anche da Dio e dalla sua voce nel nostro cuore. Lo stesso esercizio teologico, sia di stampo moderno che classi­co, può essere una fuga, un alibi che ci trascina in un mondo irreale di idee e di concetti da cui non nasce alcuna vita autenti­ca. "Sei un teologo? - chiese un monaco del Monte Athos a un monaco occidentale che così gli si era presentato, e aggiunse -Oh! Un santo è un fiore vero. Ma il teologo, paragonato al san­to, è solo un fiore artificiale: ne imita il colore, ma non effonde alcun profumo e neppure darà mai alcun frutto". Ammettiamo onestamente di correre tutti questo rischio e an­che di aver a volte ceduto all'illusione, bruciando ogni tanto qual­che grano d'incenso davanti al nostro idolo. Eppure, anche questo è ancora una grazia e, per molti di noi, la prima grazia che ci tocca in sorte inevitabilmente: poco alla volta ci rendiamo con­to che, durante lunghi periodi della nostra vita, siamo rimasti in quest'illusione, tagliati fuori dalla grazia e quindi anche da Dio, mentre continuavamo a immolare sacrifici al nostro idolo domestico. D'altronde tutto questo non ha nulla di tragico, innanzitutto perché capita frequentemente, addirittura così frequentemente da poter dire che, per la maggior parte di noi, questa illusione costituisce una tappa normale; secondariamente perché Dio co­sì permette: Dio lo consente in modo provvisorio, e questo prov­visorio può durare anche a lungo. D'altronde non chiamerem­mo idolo qualcosa che non avesse nulla a che fare con Dio, che non ne fosse un riflesso o una traccia nella nostra vita, e questo può condurci su una cattiva strada, ma magari anche su quella buona. Da secoli Dio si preoccupa instancabilmente di mostrar­ci il cammino verso di lui all'interno della sua creazione. Lo fa­ceva già nel passato con i pagani, continua a farlo con i pagani di oggi e quindi anche con il pagano che si nasconde in ciascuno di noi, sotto la maschera della fede.

Maledire Dio
Dio ci sorprende con la sua pazienza disarmante: a volte la­scia che questo stato di illusione duri per anni, per poi interve­nire all'improvviso nella nostra vita, per farvi irruzione e detro­nizzare in un istante tutti questi idoli mandandoli in frantumi. E’ quanto di meglio ci può capitare, ma è anche un'esperienza terribile, che inizia in modo brutale, con una tentazione dolo­rosa e sconcertante. Meno eravamo coscienti di sacrificare al nostro idolo e più velocemente affiora in questo momento la peg­gior bestemmia mai sgorgata nel nostro cuore: Dio non esiste, Dio è morto! Dio era l'illusione. Effettivamente il Dio davanti al quale per anni ho bruciato incenso, quel Dio non esiste, non è mai esistito al di fuori della mia immaginazione: quel Dio è morto. E fin quando non lo fosse, dovrei preoccuparmi di farlo morire per essere in grado di stabilire il contatto con l'unico ve­ro Dio e di prestargli attenzione. Io stesso avevo plasmato e fat­to crescere quest'idolo, che non era altro che “opera delle mie mani”, come dice la Bibbia (cf. per es. Is 40,19-20), un pezzo d'oro, una pietra, un insieme di riti. Tutto ciò manifesta indub­biamente molte buone intenzioni, ma non è sufficiente quando si tratta di disporsi alla grazia per scoprire il Dio vivo e vero. Anche una vita di fede impegnata in diversi modi per il re­gno di Gesù può inconsciamente accompagnarsi all'idolatria ed essere, a nostra insaputa, nient'altro che opera delle nostre ma­ni. Misuriamo questa vita sul metro dell'ideale che ci siamo fis­sati o che imponiamo a noi stessi e agli altri e per il quale siamo pronti a dedicarci, progettando incessantemente di realizzarlo meglio. Un esame attento delle preghiere universali nelle litur­gie contemporanee, soprattutto quando sono spontanee, sareb­be estremamente istruttivo su questa forma sottile di idolatria, in cui il culto di se stessi non è certo assente... A volte abbiamo l'impressione che questo ideale sia troppo elevato per noi, che alla fine ci sfugga. Grazie a Dio! Ci sfuggirà e deve sfuggirci. Non è in nostro potere imporci al vero Dio: Dio non è alla no­stra portata. Che la virtù ci sfugga, e Dio con lei, è un segno pieno di speranza che ci lascia intuire l'esistenza di qualcos'al­tro al di là di questo idolo che inseguivamo ciecamente. La con­seguente delusione e l'impressione costante di scacco che ci af­fligge costituiscono la piccola fessura, appena visibile, attraver­so la quale la grazia cerca di infilarsi in noi. Guai a noi se cerchiamo di otturare questa fessura, per dimostrare a noi stes­si e a Dio, per l'ennesima volta, che ci resta ancora una possibi­lità di riuscire, a condizione - naturalmente - di fare ancor me­glio, del nostro meglio... Fino a che la barca farà nuovamente acqua e un'altra fessura darà, ancora una volta, una possibilità a Dio e alla sua grazia. Il passaggio dall'idolo al vero Dio crea sempre un momento di sconforto, in cui siamo esposti alla dolorosissima tentazione di credere che Dio forse è veramente morto, oppure che, se esi­ste, non è Dio ma un terribile tiranno. Eccoci spinti al sacrile­gio e alla bestemmia! E, meraviglia delle meraviglie, al cuore stes­so della Bibbia: in certi libri della Bibbia la bestemmia è presen­te. Come infatti la Bibbia conosce l'idolatria, così conosce la tentazione della rivolta contro il vero Dio: la bestemmia e il sa­crilegio. Il libro di Giobbe ne è l'esempio più lampante: vibra e scoppia di bestemmie. Ne possiamo concludere che le bestem­mie non sono estranee a Dio: se appaiono nella nostra vita, han­no - in un modo o in un altro - qualcosa a che fare con lo Spirito santo che ha ispirato la Bibbia. Forse la bestemmia è un primo modo, molto imperfetto o, piuttosto, a rovescio, di dire qualco­sa che si avvicini un poco alla verità su Dio. Giobbe non è capace di riconoscere Dio al cuore della tenta­zione che lo assale perché tra lui e Dio c'è un muro, il muro del­la buona teologia del suo tempo. Giobbe pensava che, essendo giusto, tutte le prove dovessero essergli risparmiate. Tale era l'im­magine che ci si faceva di Dio a quell'epoca: Dio punisce solo i peccatori, mentre i giusti vengono ricompensati con la prospe­rità. In verità, era una visione molto ristretta di Dio, che aveva più a vedere con l'idolatria che non con il Dio di Israele, il qua­le un giorno avrebbe sottomesso alla prova il proprio Figlio. Ec­co perché Giobbe è completamente disorientato dal fatto di es­servi sottomesso a sua volta: protesta contro Dio e cerca di di­mostrargli la propria innocenza. Né la moglie né gli amici lo potranno aiutare perché sono an­ch'essi prigionieri dei manuali di teologia del loro tempo: si danno un gran daffare per dimostrargli che Dio è giusto, secondo la giustizia molto convenzionale dell'epoca. "Dio ti punisce, - di­cono a Giobbe - si occupa di te, e se gli piace trattarti così, si­gnifica che ne avevi bisogno. Dio vuole convertirti e corregger­ti: basta che tu riconosca di aver peccato e i tuoi beni ti saranno restituiti". Il Dio di cui parlano è un Dio molto accettabile, senza paradossi: è il Dio di un sistema, a misura umana, facile da consolare e calmare, ma altrettanto facile da lusingare e da in­gannare. E il Dio che possiamo attirare dalla nostra parte, ren­derci favorevole; è anche il Dio grazie al quale Giobbe potrà rimettere al loro posto i suoi amici, come loro fanno con lui, e assegnarsi il primo premio. E il Dio di cui abbiamo bisogno per essere degni di ammirazione, il Dio sui cui applausi possiamo sempre contare. Naturalmente a condizione di fare sempre al meglio ciò che è in nostro potere fare... Le bestemmie di Giobbe sono in stretta parentela con il cli­ma da Dio è morto così presente nella letteratura e anche nella teologia di vent'anni orsono. Jean-Paul Sartre, per esempio, era in costante rivolta contro Dio, proprio come Giobbe. Esprime­va a volte un punto di vista amaro e non sempre sbagliato su alcune deformazioni della figura cristiana di Dio. Del resto è sempre più facile depistare l'idolo che non il vero Dio. Nella sua autobiografia Sartre ha una frase feroce per stigmatizzare l'atteggiamento religioso di suo nonno: "Mio nonno era un at­tore troppo bravo per non aver bisogno di un Grande Spettato­re che chiamava Dio". L'idolo di Giobbe è della stessa razza: Giobbe ha bisogno di un Dio che lo approvi e si congratuli con lui, che lo applauda per il bene che ha fatto. E se Dio non lo fa, Giobbe lo accusa e minaccia di intentargli un processo pub­blico: "Se ho agito con falsità e il mio piede si è affrettato verso la frode, mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio ricono­scerà la mia integrità (...). Ho detto la mia ultima parola: l'On­nipotente mi risponda! Il documento scritto dal mio avversario vorrei certo portarlo sulle mie spalle e cingerlo come mio diade­ma. Il numero dei miei passi gli manifesterei e mi presenterei a lui come un principe" (Gb 31,5-6.35-37). La risposta di Dio a Giobbe è piena di ironia acida e pungen­te: "Cingiti i fianchi come un prode: io ti interrogherò e tu mi istruirai. Oseresti proprio cancellare il mio giudizio e farmi tor­to per avere ragione tu? Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua? Ornati pure di maestà e di sublimità, rivestiti di splendore e di gloria (...): io stesso sarò il primo a lodarti perché hai saputo trionfare con la destra" (Gb 40,7-10.14). Queste parole di Dio sono verissime: Giobbe infatti vorreb­be tutto sommato essere il salvatore di se stesso. Giobbe ha an­cora bisogno di Dio se la propria destra può salvarlo? Inconscia­mente Giobbe vuole essere il redentore di se stesso e quindi Dio a se stesso, con al proprio servizio un semplice idolo domestico: Dio dovrebbe già accontentarsi di contare ancora qualcosa! Ma quando il Dio vivo e vero si rivela, deve fare i conti con questo atteggiamento inconscio di Giobbe e con l'idolo che solo lui può infrangere. Giobbe stesso afferma che Dio interviene in modo sconcertante, che lo assale. Urla il proprio lamento: "Me ne sta­vo tranquillo ed egli mi ha rovinato, mi ha afferrato per il collo e mi ha stritolato; ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri mi circondano; mi trafigge i fianchi senza pietà, versa a terra il mio fiele, mi apre ferita su ferita, mi si avventa contro come un guerriero. (...) Sappiate che Dio mi ha piegato e mi ha avvi­luppato nella sua rete. (...) Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre. (...) Mi ha disfat­to da ogni parte e io. sparisco, ha sradicato, come un albero, la mia speranza. (...) Insieme sono accorse le sue schiere (...) e hanno posto l'assedio intorno alla mia tenda" (Gb 16,12-14; 19,6.8.10.12).

Le opportunità di Dio
Come reagisce Giobbe e come reagiamo noi a questa sfida di Dio? Facciamo così fatica ad abbandonare il nostro idolo per convertirci al vero Dio che ci sono solo due sbocchi possibili: negare Dio oppure negare noi stessi, cioè la bestemmia o il sui­cidio. O "Dio è morto", oppure "Magari non fossi nato!". Quan­do il nostro idolo va in frantumi, è tale il nostro smarrimento ed è talmente grande la nostra vulnerabilità di fronte al vero Dio che ci sembra più facile negare lui, oppure noi stessi - se Dio esiste, allora è meglio che noi scompariamo! - piuttosto che arrischiarci a un autentico incontro con lui. "Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: 'Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E stato concepito un ma­schio! Quel giorno sia tenebra, non lo ricerchi Dio dall'alto, né brilli mai sudi esso la luce"' (Gb 3,1-4). Giobbe anela alla mor­te e lo ammette, la cerca come altri cercano una sorgente di ac­qua viva. Che Dio lo riduca a nulla, lo stermini: "Volesse Dio schiacciarmi, stendere la mano e sopprimermi! Ciò sarebbe per me un qualche conforto e gioirei, pur nell'angoscia. Che non mi risparmi!" (Gb 6,9-10). Questo miscuglio di sofferenza e di gioia in Giobbe si può facilmente capire: se Dio attentasse alla vita di Giobbe, diventerebbe il colpevole e fornirebbe la prova del suo torto. Con la sua morte innocente, di cui Dio solo avrebbe responsabilità, Giobbe si vendicherebbe di Dio e resterebbe così il più grande e il migliore. Poco fa parlavamo della letteratura moderna. Le bestemmie di Giobbe fanno pensare ancora una volta a Jean-Paul Sartre, anche se questi non era un credente come Giobbe. Sartre era non credente e voleva giustificarlo, ma tutti i suoi sforzi lo co­strinsero, senza che se ne rendesse conto, al dilemma nel quale si trova impigliato Giobbe. Il Dio rifiutato da Sartre è anch'egli un idolo, un dio che dovrebbe applaudire chi fa il bene e punire il male commesso. Un dio che avrebbe dimostrato di non esiste­re se Sartre avesse potuto provare che il fatto di essere buoni o cattivi non ha alcuna importanza dato che il bene e il male, secondo Sartre, sarebbero nozioni contraddittorie. Sartre ha cercato di dimostrarlo nell'opera Le diable et le bon Dieu. In essa rappresenta un cavaliere medievale chiamato Goetz. Questi non è credente e, per dimostrarlo a se stesso, decide di compiere solo il male. Con sua grande sorpresa, non vi riesce: più cerca di fare il male e più i risultati sono buoni. Decide allo­ra di inoltrarsi ancor di più sul cammino della rivolta contro Dio: prende la decisione di fare solo il bene e di diventare santo. Ma anche questa volta l'effetto è opposto: tutto il bene che compie ha dei risultati cattivi. In questo modo Goetz crede di aver di­mostrato che il bene e il male non esistono e che dunque non c'è Dio. E quanto finirà per urlare a un prete: "Il cielo ignora perfino il mio nome. Mi chiedevo a ogni istante cosa potessi essere agli occhi di Dio. Ora so la risposta: nulla. Dio non mi ve­de, Dio non mi sente, Dio non mi conosce. Vedi questo vuoto sopra le nostre teste, è Dio. Vedi questo buco nella terra, è an­cora Dio. Il silenzio, è Dio; l'assenza, è Dio. Dio è la solitudine degli uomini. Esisto solo io. Da solo ho deciso il male. Da solo ho inventato il bene. Io ho imbrogliato, io ho fatto miracoli. Sono io che oggi mi accuso, io solo posso assolvermi, io, l'uo­mo. Se Dio esiste, l'uomo e nulla. Se l'uomo esiste...". Sartre si ferma qui. "Dio è nulla" non è uscito dalla sua penna, e con ragione. Chi leggerà questa pagina come legge le bestemmie di Giobbe nella Bibbia, vi intravvederà forse la confessione di Dio più commovente mai prodotta dalla letteratura del nostro seco­lo. Dietro l'espressione di questa teologia così negativa si cela un'evidente esperienza di Dio. Una sola volta, come ammette nella sua autobiografia, Sartre avrebbe incontrato Dio, ma ritenne che questo fugace incontro fosse sufficiente per scartare definitivamente Dio. Fu in occa­sione di un incidente avvenuto quando era ancora un bambino. Sartre giocava con i fiammiferi nel bagno di casa; per disgrazia il fuoco si propagò a un tappeto e, in un attimo, gli sembrò che la camera intera si incendiasse. Nell'angoscia che si impadronì di lui, ebbe la sensazione che Dio lo guardasse: "All'improvviso Dio mi vide. Sentii il suo sguardo dentro la testa e le mani. Mi aggiravo, orribilmente visibile, come un bersaglio vivente". Sartre ritenne di aver detto no a Dio in quel momento, e Dio non mi guardo mai più Allora lo sguardo stesso di Dio diventa insopportabile, come accadde a Giobbe che, ben prima di Sartre, muoveva dei rim­proveri a Dio: "Che è l'uomo che tu ne fai tanto conto e a lui rivolgi la tua attenzione e lo scruti ogni mattina e a ogni istante lo metti alla prova? Fino a quando da me non toglierai lo sguar­do e non mi lascerai inghiottire la saliva? Se ho peccato, che co­sa ti ho fatto, o custode dell'uomo? Perché m'hai preso a bersa­glio e ti son diventato di peso? (...) Ben presto giacerò nella pol­vere, mi cercherai, ma più non sarò!" (Gb 7,17-21). Come Sartre credeva di essere il bersaglio vivente di Dio, così Giobbe accusa Dio di fare di lui il bersaglio della sua azione sconcertante: ai suoi occhi Dio è un mostro, un custode disumano. Quest'ulti­mo termine è forse la bestemmia più orribile che Giobbe abbia potuto inventare. Stravolge le parole stesse di Dio, per poi sca­gliargliele contro. Nella Bibbia infatti, Dio è chiamato sovente il Nosher Israel, il custode d'Israele, colui che con sguardo at­tento e paterno osserva il suo popolo. Per il momento, Giobbe non può sopportare questo sguardo d'amore: è uno sguardo che, senza motivo spiegabile, lo ferisce a morte.

Il Dio conosciuto per sentito dire
Ma questo sguardo è lo stesso che può anche curare Giobbe e infine guarirlo: dopo interminabili bestemmie, il libro di Giobbe termina con un epilogo liberatore. Attraverso lo smarrimento e la disperazione, Giobbe ha pur imparato qualcosa, ha potuto intuire il volto del vero Dio: "Allora Giobbe rispose al Signore e disse: (...)Ho esposto senza discernimento cose troppo supe­riori a me, che io non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io ti interrogherò e tu istruiscimi. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto"' (Gb 42,1.3b-5). Il libro di Giobbe non si dilunga oltre sul modo in cui Giobbe è arrivato a questa comprensione, ma queste poche parole sono sufficienti per intuirlo. Giobbe non conosceva il vero Dio: si aspettava in­fatti un semplice idolo domestico, modellato da lui stesso, a sua misura e secondo i suoi gusti, l'opera delle proprie mani. Cono­sceva solo il Dio severo, oppure il Dio indulgente, e all'improv­viso, al cuore della prova cui il suo idolo non può fornire solu­zione, si imbatte nel vero Dio, che è fuoco divorante. Questo scontro dura settimane, mesi, e richiede interminabili discussioni con gli amici prima che Giobbe sia capace di riconoscere Dio e di sopportare finalmente il suo sguardo d'amore. Lo sguardo di Dio infatti è così diverso da come se lo aspettava... E uno sguardo che non approva né condanna, ma che lascia a Giobbe tutta la sua libertà: è uno sguardo unicamente amore infinito. Dio rimane sempre accanto a Giobbe, nella buona come nella cattiva sorte, nella malattia come nella morte. Dio non è a misura umana, non risponde puntualmente ai desideri di Giobbe, né ai suoi timori: 'Dio ascolta Giobbe e lo prende così com'è. Non ascolta solo le sue buone intenzioni e i suoi progetti, ascolta anche le sue bestemmie, le sue invettive sacrile­ghe, la sua disperazione: ascolta con attenzione e amore. Dio avrà ragione di questa disperazione, in modo molto più facile che dell'originaria sicurezza di Giobbe: ora gli occhi di Giobbe si possono aprire. Solo la disperazione poteva insegnare a Giob­be qualcosa su Dio. Anche noi conosciamo Dio solo per sentito dire, a volte addi­rittura per molti anni. Anche noi, nella prova, reagiamo subito come Giobbe: il vero Dio viene a infrangere qualcosa in noi e noi cerchiamo di difenderci. Dio viene a spezzare i nostri idoli. C'è in noi una tale sicurezza, alla quale siamo pronti ad aggrap­parci fino alla disperazione e contro la quale Dio non trova an­tidoto. Il suo scopo è quello di toglierci questa sicurezza, ma questo ci fa talmente soffrire e noi siamo talmente delusi da Dio che preferiamo maledirlo e bestemmiarlo e che a volte arrivia­mo fino a dubitare della sua esistenza, vorremmo vendicarci di Dio. Tutto questo non è grave perché anche nelle nostre bestem­mie più amare continuiamo a gridare la nostra fede. Dietro ogni bestemmia si nasconde il vero volto di Dio, anche se viene pre­sentato a rovescio. Dio stesso ci prende per mano per sposses­sarci di ciò che meglio conosciamo e a cui siamo attaccati corpo e anima: il piccolo idolo domestico che ci trasciniamo dietro da anni e al quale offriamo un culto come al vero Dio. Eccoci spalle al muro: come Sartre, come Giobbe, eccoci di­ventati il bersaglio vivente che Dio vuole mandare in frantumi per costruire qualcos'altro. Egli è infatti colui che "ferisce e me­dica la piaga" (Gb 5,18): dovremo accettarlo con una calma fi­duciosa e un umile abbandono. Dovremo aspettare, con una gioia segreta ma profonda: a poco a poco Dio ci apre gli occhi, il suo sguardo libera il nostro. Finora l'avevamo conosciuto solo per sentito dire; presto, molto presto, lo vedremo con i nostri occhi.