lunedì 20 giugno 2011

La Vita in Cristo



Click the image to open in full size.




















Nicola Cabasilas (ca. 1322-ca. 1397), testimone
Le chiese ortodosse ricordano oggi 20 giugno Nicola Cabasilas, teologo laico autore di alcuni fra i più importanti trattati spirituali del cristianesimo bizantino.
Nicola era nato a Tessalonica attorno al 1322, in una importante famiglia della borghesia tessalonicese. Educato alla preghiera del cuore presso un discepolo di Gregorio Palamas, egli ricevette un'alta formazione giuridica e letteraria nella scuola di filosofia di Costantinopoli, tanto da essere stimato uno dei massimi umanisti bizantini.
Trovatosi a vivere in un periodo di gravi tensioni politiche ed ecclesiali, Nicola ebbe spesso una parte importante nei tentativi di ricomposizione delle beghe di corte e poi delle controversie sorte attorno agli insegnamenti degli esicasti athoniti.
Autore di importanti trattati sulla giustizia sociale e contro l'usura, con l'elezione di Callisto I a patriarca di Costantinopoli, che sembrò favorire tempi migliori nel mondo bizantino, Cabasilas decise di ritirarsi dall'impegno pubblico, e mise al servizio dei suoi contemporanei la propria profonda maturità umana e spirituale. Nella quiete e nel silenzio, egli scrisse "L'interpretazione della santa liturgia" e "La vita in Cristo", veri e propri manuali di spiritualità accessibili al cristiano comune, chiamato a santificarsi nella vita di ogni giorno grazie ai sacramenti e alla preghiera, mediante i quali, secondo Cabasilas, ogni credente può accogliere Cristo nel proprio cuore.
Nicola si spense tra il 1391 e il 1397 senza lasciare alcuna testimonianza riguardo agli ultimi anni della sua vita.
La sua canonizzazione da parte del patriarcato di Costantinopoli risale solo al 1983.

TRACCE DI LETTURA
La grazia infonde la carità vera nell'anima degli iniziati ai misteri: quale sia poi la sua operazione in loro e quale esperienza doni, lo sanno coloro che l'hanno conosciuta.
In linea di massima si può dire che la grazia infonde nell'anima la percezione dei beni divini: dando a gustare grandi cose, ne fa sperare di ancora più grandi e, fondandosi sui beni già ora presenti, ispira ferma fede in quelli ancora invisibili.
La nostra parte invece è di custodire la carità. Non basta semplicemente incominciare ad amare e accogliere in sé questa passione: bisogna conservarla e alimentarne il fuoco perché duri. Ora restare nell'amore, nel quale è ogni beatitudine, significa appunto restare in Dio e possederlo dimorante in noi: «Chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui»; ma questo si realizza, e l'amore è ben radicato nella nostra volontà, quando vi giungiamo mediante l'osservanza dei comandi e delle leggi dell'Amato ...
Perciò il Salvatore dice: «Se osserverete i miei comandi, rimarrete nel mio amore». La vita beata è frutto di questo amore. L'amore infatti concentra la volontà dispersa da ogni dove, la distacca da tutte le altre cose e dallo stesso io volente, per farla aderire al Cristo solo
(Nicola Cabasilas, La vita in Cristo 7,6).

* * *
Di seguito riporto due preziosi testi di Cabasilas, il primo sulla Assunzione della Beata Vergine Maria (la "Dormitio") ed il secondo sul potere santificante della Liturgia, per i vivi e per i defunti... Buona lettura.

Sermone di Nicola Cabasilas
sulla augustissima e gloriosissima Dormizione della tuttasanta nostra Signora e incontaminatissima Madre di Dio
Prologo
            1. Nessuno ignora, io credo, che non v’è nulla di più grande della gara attuale, se uno almeno si sforza di salvare il dovuto. Da parte mia sono così lontano dal cimentarmi in un sermone adeguato, per il fatto che ritengo tutti gli uomini debitori alla Vergine di queste competizioni, ma penso che poter elevare i discorsi fino alla grandezza di tali realtà per gli uomini non sia possibile neppure sperarlo[1]. E così nessuno ci potrà accusare di temerarietà. Ma di quale temerarietà? Intraprendere discorsi al di là del possibile e non accettare di essere vinti, non è cosa ragionevole: infatti, nelle cose che nessuno mai è riuscito a conseguire, nessuno di quanti sono venuti meno può essere incolpato. Perché allora discolparsi di ciò che nessuno può imputare?
            Ora proporzionando la voce alle forze, verrò agli inni, aggiungendo soltanto che non mi sono presentato per istruire gli uditori se qualcosa è loro sfuggita delle grazie ricevute dall’Inneggiata – non c’è nessuno infatti che ignori il bene comune [che è la Vergine] – ma perché, dopo aver ricordato secondo le mie capacità la mia stessa salvezza, col ricordo renda migliore la mia anima: per questo scopo mi sembra che tutti celebrino la Tuttasanta[2], e non vi sia alcuno che non si sia accinto alla gara, riuscendo o poco o di più nel proposito. Perché ella[3] è la molto Inneggiata[4], non solo da quando nacque, ma ancor prima di essere donata agli uomini[5].
 
In vista di Maria le predizioni e le figure sacre; in vista di lei tutto il creato
            2. Infatti, i profeti e i discorsi ispirati dei profeti cantavano la beata Vergine; e qualunque cosa fosse degna di venerazione: la tenda e l’arca e i rinomati padiglioni di Mosè[6], e tutte le altre cose di cui si gloriavano gli Ebrei, presignificavano il portento della Vergine. Queste cose infatti erano venerande ed esistettero fin dal principio soltanto per descriverla e premostrarla agli uomini. E che dico? Tutte le lodi, quanti fra gli uomini le udirono, e chiunque abbia elogiato il genere umano, tutte e ciascuna sono da mettere in conto alla Vergine. Non vi è infatti, non vi è bene, né piccolo né grande, per cui sia possibile aver buona fama, che la nuova Madre e il nuovo parto non abbia introdotto, non solo dopo che avvenne, ma ancor prima di avverarsi e per il futuro.
            Se infatti facciamo tutto per arricchirci di Dio, e questo è il fine di tutti i nostri beni, e ciò non era possibile agli uomini senza le grazie della Vergine: come non si riferiscono a lei tutte le cose, così che ella sia causa delle lodi, qualunque cosa vi sia di lodevole tra gli uomini? Di tutti i beni poi che sono in noi è causa l’unione con Dio; ma di essa è causa la Vergine. E perciò la molto Inneggiata è causa al genere umano di ogni ornamento e decoro e inni, e a lei sola si riferisce ogni elogio[7]; non solo, ma anche il sopravvivere degli uomini e semplicemente l’essere uomini è giusto imputarlo alla Beata[8]. Oltre a ciò, anche il cielo e la terra e il sole e questo universo pervennero a una condizione migliore [= il “bene essere”] e semplicemente all’esistenza [= “l’essere”] a motivo della beata Vergine, così come l’albero a motivo del frutto. Se infatti a motivo del frutto benediciamo l’albero, e chi gode dell’albero loda il suo frutto (cf. Mt 12, 33)[9], chi non sa che ogni decoro e grazia e ornamento delle cose esistenti – se c’è virtù, direbbe Paolo, se c’è lode (cf. Fil 4, 8) – convengono solo a questa Vergine? È dunque legittimo affermare che la sentenza che Dio pronunziò sulle creature, dicendole buone, e assai buone (cf. Gn 1, 31), è un’esaltazione della Vergine.
 
Maria, frutto cosmico che toglie la vecchiezza, apre il futuro beato, dona luce anche agli angeli
            3. Così era inneggiata da molto lontano. E che la Beata sia il frutto delle creature, e abbia questo rapporto con l’universo, si desume da ciò: essendo infatti esattamente questo il frutto, ricondurre cioè al generante la natura che piegava verso il “non-essere” e manifestarla nuova come il principio, chi mai ha riplasmato gli uomini? Da dove la nuova creazione (cf. 2 Cor 5, 17)? Chi ha mutato quest’universo? È certo, coloro che il cielo ha accolto come nuovi cittadini riplasmati (cf. Fil 3, 20), costoro dalla terra li ha trasportati la Vergine[10]. E d’altra parte la terra ebbe come inquilino l’uomo nuovo (cf. Ef 4, 24), lo stesso Signore del cielo, perché non produsse più l’antico frutto del peccato – spine e triboli (cf. Gn 3, 18) – ma il nuovo fiore di giustizia (cf. Is 61, 11), la Vergine. E non solo in ciò ella tolse di mezzo[11] la vecchiezza, e concesse a tutti quasi di rivivere, ma perché anche il cielo stesso per suo mezzo riceverà un corpo migliore, immune da ogni corruzione[12], e così la luna e la terra e gli astri (cf. Rm 8, 19-22; 2 Pt 3, 13). Non è infatti possibile che la creazione risorga dalla corruzione, se i figli di Dio non avranno conseguito la liberazione: e di questa liberazione la Vergine ha offerto il prezzo, il Primogenito dei morti[13] (cf. Col 1, 18; Ap 1, 5).
            E libererà la terra dalla corruzione e appagherà il suo intimo anelito, donandole l’incorruttibilità, che essa aspetta con gemiti (cf. Rm 8, 22) – è parola di Paolo –, così che anche ciò che il profeta dice a Dio: «dal frutto delle tue opere sarà saziata la terra» (Sal 103, 13) si riferisce a questo frutto: e questo frutto significa la Vergine, e la Vergine misticamente significa il desiderio della terra: «anch’essa infatti si sazierà – com’è detto – all’apparire della gloria del Signore» (cf. Sal 16, 15)[14]. Che se la Scrittura chiama “terra” gli uomini (cf. 1 Cor 15, 47), anche ad essi fu dato per mezzo di lei di ottenere l’appagamento dei voti e di giungere a quel giorno, che i profeti hanno desiderato (cf. Mt 13, 17). Infatti lei sola di quella felicità, che desideravamo dopo averla perduta da quando nascemmo e nessuno tra noi, sia uomini che angeli, era in grado di ricuperare[15] – giacché giacevano in uno stato peggiore di quanto per mezzo di costoro avessimo potuto ottenere il ritorno, e questo solo bramavamo gemendo –, di questa felicità la Beata ci concesse nuovamente[16] di godere, e colmò la brama, congiungendo intimamente agli uomini l’unico Desiderato – ottenuto il quale non c’è null’altro da cercare più oltre –, in modo tale che non avesse soltanto in comune con noi il vitto e il domicilio, ma anche la natura[17].
            E non fece del bene soltanto agli uomini e a questo mondo, quasi ponendo a confine delle sue grazie il cielo; ma oltrepassò anche questo (cf. Eb 4, 14) e con la sua virtù lo coprì (cf. Ab 3, 3). Fu infatti di vantaggio anche agli angeli e alle stesse Virtù e Potestà e fece sorgere una luce[18] (cf. Mt 4, 16) e accordò loro di diventare più sapienti e più pure di quanto non fossero e di conoscere la sapienza di Dio meglio di prima. Infatti, la multiforme sapienza di Dio per mezzo di lei si è manifestata ai Principati e alle Potestà (cf. Ef 3, 10)[19], e tutti contemplarono – quasi attraverso gli occhi o la luce della Beata – la profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio (cf. Rm 11, 33)[20]. Ella sola infatti divenne guida per ogni anima e ogni mente alla verità su Dio.
 
Maria, terra “nuova” e cielo “nuovo” che porta il Signore…
            4. Così la Vergine fece un cielo nuovo e una terra nuova (cf. Is 65, 17; Ap 21, 1)[21]; o piuttosto, lei stessa è una nuova terra e un nuovo cielo: terra, perché di quaggiù (cf. 1 Cor 15, 47); nuova però, perché non fu in nessun modo congiunta ai progenitori né ereditò l’antico fermento, ma ella medesima, secondo la parola di Paolo, divenne nuova pasta (cf. 1 Cor 5, 7) e diede inizio a una nuova stirpe. Che poi, oltre a questo, ella sia anche un cielo, chi lo ignora? E nuovo, perché si tenne lungi di ogni vetustà, in quanto fu egregiamente superiore ad ogni corruzione, e perché in passato e di recente, nell’ultimo di questi giorni (cf. Eb 1, 2)[22], fu data agli uomini, secondo la divina promessa, che Isaia annunziò: «Vi darò un cielo nuovo e una terra nuova» (Is 65, 17). Ma se vuoi, la Vergine è anche una singolare e straordinaria terra ed un cielo, perché venne su dalla terra ma trascese il cielo in purezza e grandezza: in grandezza perché colui che il cielo non valse a contenere[23] lo ebbe in sé dimorante; in purezza[24] poi, perché di quelle cose di cui non era possibile che gli uomini diventassero testimoni oculari (cf. Lc 1, 2)[25], se non si fossero squarciati o aperti i cieli (cf. Lc 3, 21), di queste nulla impedisce che per mezzo suo essi ora fruiscano: che anzi, mentre ella si fa guida[26] a quanti si innalzano a Dio (cf. Sal 24, 1), esso [il cielo] li ferma. Bisogna toglierlo di mezzo. Ma se lei non fosse stata mediatrice fra Dio e gli uomini[27], non era possibile che le creature di quaggiù diventassero compartecipi di quelle oltremondane.
            Ora sta scritto che il cielo non sopporta il raggio divino, ma mentre esso lo attraversa si squarcia[28]: mentre infatti lo Spirito[29] scendeva su Colui che gli è pari nell’onore, il grande Giovanni vide i cieli squarciati (cf. Mc 1, 10). Ma la Beata, quando sopra di lei discese lo Spirito (cf. Lc 1, 35), godette di maggiore pace, quella pace che Paolo disse sorpassare ogni intelligenza (cf. Fil 4, 7), e divenne sede sublime dell’ipostasi dello stesso Salvatore, che non ha confini. E lo portava con tanta naturalezza, da esserne gravida e partorirlo senza dolori[30]. Cosiché quello che il profeta chiamò “cielo del cielo” e disse appropriato al solo Dio – «il cielo del cielo infatti è per il Signore» (Sal 113, 16) – è la beata Vergine. «Neppure il cielo – disse – è puro davanti a te» (Gb 15, 15). Ma la Vergine amica di Dio (cf. Ct 1, 9), non è solo pura di mali, ma è anche bella; e non semplicemente, ma assolutamente bella. Dice[31] infatti: «tutta bella tu sei» (Ct 4, 7). E il giudizio non è umano; Dio stesso proclama la Beata, non solo, ma con ammirazione: «Quanto sei bella, o amica mia!» (Ct 1, 15; 4, 1). Eppure la Scrittura afferma che tutta la giustizia umana davanti a Dio è più esecranda di ogni crimine e la chiama malvagità (cf. Is 64, 6). Così, a quanto pare, la giustizia della Vergine non cadeva entro i limiti umani; né li superò di poco o di molto, da averne un’immagine di confronto; ma di tanto sorpassò la comune natura, che non è possibile misurarne la distanza.
 
…dopo aver controbilanciata con la sua bellezza la malvagità umana
            5. Per questo ricoprì[32] tutta la malvagità umana e rese gli uomini degni della convivenza di Dio e la terra degna della dimora del Salvatore[33]. «Tutti hanno traviato, si sono resi inutili» (Sal 13, 4; 52, 3)[34]. Non v’era alcuno che potesse venire in aiuto al genere umano in pericolo, né che arginasse come un torrente il peccato. E i sacerdoti, e i giudici, e la corona dei profeti e quanti altri stavano presso Dio, da cui era giusto attendersi qualcosa di meglio per il genere umano, nessuno di loro aveva potuto nulla per la comune salvezza, anzi non si mostravano neppure loro immuni da imputazioni e pena, e andandosene da qui li accoglieva l’inferno[35]. Ormai era impossibile per noi ritornare alla vita di prima, non potendo gli uomini provvedere a se stessi; e gli angeli buoni implorando con noi le cose migliori e tentando di lottare con noi, erano vinti dalla grandezza dei mali; e colui che solo avrebbe potuto sanare la piaga, era avverso agli uomini a motivo del peccato. Infatti, «guardava sulla terra e non c’era un saggio, non uno che cercasse Dio» (cf. Sal 13, 2; 52, 3), ma come in un corpo affatto corrotto, per chi voleva curarlo non si trovava neppure un lembo sano donde si potesse far ritornare la salute. Dio voleva la nostra salvezza, perché amante dell’uomo, ma non aveva da chi cominciare giustamente i suoi doni. Questa infatti è legge di giustizia divina: elargire talvolta anche ai nolenti i benefici che rendono migliore la nostra natura; ma quelli che raddrizzano la volontà e la libera elezione, e fanno abitare Dio in noi (cf. 1 Cor 3, 16)[36] e ne conciliano la pace – e sono grandi e superano ogni umana speranza –, provvederli non a tutti, ma a quanti sia stato prima possibile offrire il congenito contributo[37]. Per questo, prima della discesa del Salvatore e dei misteri che lo riguardano, i quali nuovamente rialzarono la nostra volontà decaduta dall’amore divino, era necessaria una certa giustizia umana, che non solo facesse da contrappeso a tanto grave malizia, ma con un ammirabile sovrappiù, per cui fosse possibile richiamare dalla sozzura la natura umana, allontanare la vergogna derivante dal peccato, fiaccare la tracotanza del comune nemico e porgere una mano a Dio riconciliato con gli uomini.
 
Nel Santo dei Santi, la Vergine si offre vittima impetratoria della grande Vittima
            6. Così avvenne. E questa mirabile giustizia a favore di tutto il mondo (cf. 1 Gv 2, 2) l’esibì la Vergine, e fu per noi in luogo di purificazione e di espiazioni, e purificò tutto il genere umano. E come un’emanazione di luce o un fuoco comunicano a quanti vi s’appressano il proprio fulgore; e come la luce che contempliamo è ornamento alle cose visibili, ma non risiede in tutte, anzi ha avuto in sorte soltanto il disco del sole; allo stesso modo anche la bellezza degli uomini e tutta la nobiltà e grazia della natura, della quale splendeva prima di perdere Dio, e quella che ancora avrebbe avuto, se avesse osservato la sua legge; e la giustizia che aveva e che era giusto avesse ma non ebbe, si concentrarono nella sola Beata, «e giustificò tutti» (cf. Rm 5, 19), come disse Paolo a riguardo del Salvatore[38]. Ed era una certa essenza o tesoro o fonte, o non so cos’altro dire della santità degli uomini.
            Per questo lei sola, fra gli uomini di ogni tempo, abitò l’altare, quale vittima preparatoria e purificativa prima della grande Vittima[39] offerta per tutto il genere umano (cf. Ef 5, 2; Eb 10, 12): cosicché, se «Gesù entrò come precursore nel Santo dei Santi» (cf. Eb 6, 20)[40], la Beata prima del Salvatore entrò fin nell’interno del velo (cf. Eb 6, 19) per offrire se stessa al Padre. Ed Egli invero, morendo sulla croce, riconciliò perfettamente il Padre con gli uomini; la Beata invece, offrendosi a Dio, tanto poté per la riconciliazione, da donare agli uomini il Mediatore e rendere l’Intercessore fratello di coloro per i quali si sarebbe presentato a Dio, così da rivendicarli ormai come omogenei e familiari: «Doveva infatti farsi simile in tutto ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio» (Eb 2. 17). Ed Egli certo, essendo secondo l’unica ipostasi l’uno e l’altro – ossia ciò che noi siamo e Dio – sta come termine comune dell’una e dell’altra natura: perciò è anche unione di Dio e degli uomini, e riconciliazione, e pace e amore, e se v’è qualcos’altro che a questo conduca. Invece la Beata, da una parte essendo “uomo”, perché da noi trasse l’origine, dall’altra, cioè con la sua sublime giustizia, essendo congiunta a Dio solo, con l’essere “uomo” nobilita gli uomini e muove Dio all’amore[41] per gli uomini, attraendo con la sua bellezza (cf. Ct 4, 9)[42]. Dal canto suo, il Salvatore pagò la pena delle nostre obbligazioni: egli infatti non era conscio di cosa alcuna, di cui fosse colpevole, perché «non commise peccato (1 Pt 2, 22), ma si era caricato nei nostri. E offrì dolori per noi. E bastò la percossa di un solo incolpevole, assunta come soddisfazione (cf. Is 53, 4-5), a sciogliere le imputazioni di tutti gli uomini che avevano peccato[43] all’estremo.
            Ma la Beata, unica e sola fra tutti gli uomini, avendo presentato l’anima degna di Dio, poté soccorrere anche gli altri. Per questo, mentre molti portarono spesso dal cielo lieti annunzi, a lei sola Dio disse di godere (cf. Lc 1, 28)[44]. Non c’èra infatti alcuno che, pur sciolto da accuse, potesse essere immune anche dalla pena: Dio infatti aveva condannato tutti a soffrire e patire (cf. Gn 3, 17-19). E questa pena gli uomini la scontarono, per aver trasgredito la legge della vera gioia e della pace. Ma nel caso della Beata, per il fatto che Dio la ritenne degna di gioire e la chiamò “piena di grazia” e “benedetta” (cf. Lc 1, 28)[45], mostrò che non aveva nulla da incriminarla di quelle cose di cui era rea la natura degli uomini.
 
Vittima più santa dei Cherubini, per donare il proprio sangue a Dio
            7. Era infatti necessario che la vittima sacrificale, per noi che di molti sacrifici espiatori abbiamo bisogno (cf. Eb 10, 11), fosse immacolata e santa[46]. Se infatti l’altare, che era semplice abbozzo e figura delle grazie [della Vergine], fu chiamato “Santo dei Santi” (cf. Es 40, 10; Eb 9, 3), quale giudizio si deve enunciare della stessa verità? Giacché non solo l’altare era di tanto inferiore alla Vergine, di quanto disti l’ombra e la figura (cf. Eb 8, 5) dalla realtà, ma molto di più e quasi infinita era la distanza tra i due. Infatti, l’immagine dei Cherubini adombrava l’altare, ci dice Paolo (cf. Eb 9, 5); invece la Multilodata non gli stessi Cherubini, né qualcosa di superiore a loro, ma l’adombrò Colui stesso cui i Cherubini servono, la Potenza dell’Altissimo, come dichiarò il divinissimo Gabriele (cf. Lc 1, 35)[47]. D’altronde la vittima è più sacra del propiziatorio, in quanto questo riceve da essa la sacralità: infatti, l’unzione del sangue le conferiva la santità. Ma la beata Vergine è tanto più sacra di ogni vittima, quanto non è possibile esprimere. Infatti, il sangue di questa nuova[48] vittima non l’accolse l’altare né lo consumò il fuoco (cf. Nm 18, 17; 2 Re 18, 38)[49], ma lo assunse lo stesso Dio e se ne vestì come di una veste di salvezza e di una tunica di letizia (cf. Is 61, 10), che rimuove dagli uomini il male di ogni sofferenza. E non si vergognò dell’indumento, ma anzi lo chiamò sua gloria e suo regno. Difatti, quando, avvolto da questo vestimento, prese a convivere con gli uomini, disse che il regno dei cieli era elle porte (cf. Mc 13, 29). Su questo regale abbigliamento gli angeli interrogavano il Salvatore: «Perché sono rosse le tue vesti?» (Is 63, 2)[50]. Secondo questo regno regnò il Signore (cf. Sal 95, 10), come affermano i sacri detti. E rivestì questa potenza e questa gloria (cf. Sal 92, 2); e con tale vestimento e con tale cintura superò il forte (cf. Mc 3, 27), e lo legò e strappò dalle sue mani i prigionieri e li salvò (cf. Lc 11, 21-22). E secondo Paolo, la carne del Salvatore divenne per noi salvati potenza di Dio (1 Cor 1, 18).
            O straordinari misteri! O mirabile giustizia! O quell’anima, che di tale purezza rese puro il suo corpo! O corpo, che ignorando la natura fu innalzato con l’anima! O quella mente di luce! Che dirò e cosa esprimerò? (cf. Dn 10, 17), dice incerto il profeta. Quel Dio, che nessuno spazio racchiuse, che la creazione non contiene – crescesse anche all’infinito – costui la Vergine l’ha vestito del proprio sangue, e per di più, dopo avergli confezionata una tunica adatta alla dignità del Re. Veramente, Dio non si unì alla carne così come il corpo alla veste, né la natura umana partecipò dello splendore di quella divina come la veste partecipa della magnificenza del re. Però l’esempio della veste si confà al mistero del Salvatore solo in questo, in quanto le due nature non si sono confuse tra loro, ma ciascuna rimane senza mescolanza delle proprietà dell’altra[51]; o altrimenti detto: tanto quell’unione supera quest’immagine, quanto l’essere perfettamente uniti dista dall’essere interamente separati. Quest’unione infatti non è possibile che diventi modello ad altri, né la si può addurre a modello, ma è del tutto unica, la prima e la sola che esista. Infatti, il sangue della Beata è sangue di Dio. Che dovrei dire? Esso ha comunicato con lui così perfettamente delle stesse proprietà, da diventare ormai uguale in onore, trono e divinità come la natura divina[52]. A tale vertice di santità pervenne la Vergine! A tal punto quanto le appartiene trascende ogni intelletto!
 
Vittima più sacra dell’altare e del tempio, dei sacerdoti e dei giusti
            8. Era “uomo”[53]; nacque da uomini; partecipò di tutte le qualità del genere umano[54], ma non ereditò un animo uguale, né si lasciò attrarre da tanta consuetudine di mali, ma si erse contro il peccato e si oppose alla nostra corruzione e pose fine alla malvagità.
            E divenne lei stessa primizia santa (cf. Rm 11, 16) e guida agli uomini sulla strada che porta a Dio[55]. Infatti, come fosse venuta lei sola alla vita né esistessero altri uomini, né altra qualunque creatura fosse stata prodotta, ma stesse lei sola davanti al solo Dio[56], così mantenne la mente: non guardò a nessuna delle creature né si rivolse ad alcuna fra tutte le cose, ma appena apparve tra gli uomini, si ritirò da loro con la sua parte migliore (cf. Lc 10, 42)[57] e, oltrepassando tutta la creazione, e terra e cielo e sole e stelle e, lo stesso cerchio che è attorno a Dio[58], non si fermò fino a che non si congiunse pura col Puro. E divenne più sacra delle vittime, più degna di Dio degli altari, di tanto più santa dei profeti e dei giusti e dei sacerdoti, di quanto il santificante supera in santità i santificati (cf. Eb 2, 11). Nessuno infatti fu santo, prima che esistesse la Beata; ma prima e sola, separata interamente dal peccato, si manifestò santa, e santa dei santi[59], e se v’è qualcosa di più che si possa dire; e agli altri aprì la porta della santità, nobilmente ordinata ad accogliere il Salvatore (cf. Ez 44, 3): dal quale fu dato di essere santi a tutti, e profeti e sacerdoti, e chiunque altro sia stato ritenuto degno dei divini misteri.
            Infatti il frutto della Vergine, primo e solo, introdusse la santità nel mondo; ed è ciò che il beato Paolo afferma, che Gesù entrò come precursore per noi nel santuario (cf. Eb 6, 20). Che se ancor prima che il Salvatore venisse da noi, si può udire che molti abbiano avuto in sorte questa denominazione, ciò fu soprattutto perché parteciparono in figura ai misteri. Così anche Mosè – disse Paolo – prima che Cristo subisse gli oltraggi, «preferì ai tesori dell’Egitto l’obbrobrio di Cristo» (Eb 11, 26). Invero, battezzare e comunicare al pane spirituale e all’acqua accadde agli Ebrei (cf. 1 Cor 10, 1-4), prima che venisse il pane dal cielo (cf. Gv 6, 31) e prima che ci fosse lo Spirito Santo, poiché erano «Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7, 39); e inoltre, poiché erano ben preparati alla santità e in certo modo pronti ad accogliere il raggio che stava per sorgere[60], la salvezza. A ciò si riferisce anche il detto del Salvatore: «Per loro io santifico me stesso, perché anch’essi siano santificati nella verità» (Gv 17, 19), quasi che quegli antichi, non essendo ancora apparso il Salvatore, avessero ricevuto la santità in una certa figura e ombra. Non conseguirono infatti la promessa, benché avessero ricevuto buona testimonianza mediante la fede, perché non giungessero a perfezione senza di noi, come dice Paolo (cf. Eb 11, 40).
 
Santificò gli uomini, illuminò gli ordini degli angeli
            9. E che dico dei profeti, i quali non avrebbero potuto neppure esser sciolti dai ceppi dell’inferno, se non avessero ottenuto le grazie della Vergine? Degli stessi angeli, degli arcangeli, dei Cherubini e dei Serafini la beata Vergine è più santa. Se infatti la santità Dio la dona come premio egualmente a tutti, ma maggiore lo ottiene chi ha migliore preparazione, come non è assolutamente necessario indurre dai premi il giudizio divino circa la santità della Vergine? Non si deve omettere che anche la santità si misura dalla vicinanza con Dio. Ora, è detto che i Cherubini stanno intorno a Dio e da lui ricevono l’illuminazione, ma non osano affatto fissare lo sguardo (cf. Is 6, 2). Invece la Vergine, in un modo nuovo e ineffabile, contenne in sé colui che nessun luogo racchiude[61]; e non ne accolse un qualunque splendore e gloria, ma la stessa ipostasi di Dio. Pertanto, quanto più chiaramente Dio era presente alla Vergine che ai Cherubini – e molto di più, quanto è impossibile dire – tanto più è indispensabile che di loro sia più santa e più sacra.
            E davvero vince in purezza e santità gli esseri celesti, per mezzo dei quali la divina sapienza maggiormente si palesa: come più puri degli altri corpi sono quelli più vicini alla luce. Ora, poiché Dio è parimenti presente a tutti, la diversità della sua manifestazione è da imputare alle creature; e se così è, chi non sa che la Vergine è più sacrosanta di tutti gli uomini e degli angeli? Infatti, per mezzo degli angeli vennero agli uomini l’ordine di Dio e la legge antica «che fu proclamata per mezzo di angeli» (Eb 2, 2), dice Paolo, e tanti altri segni di giustizia e di potenza; la Vergine però non rivelò Dio soltanto fino a questo punto, ma mostrò agli uomini la sapienza sussistente di Dio, non con segni e figure, ma direttamente Dio stesso, il Salvatore: né soltanto agli uomini, ma anche ai Principati e alle Potestà, «perché fosse conosciuta – dice Paolo – ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio» (Ef 3, 10). E Paolo non disse: «Perché fosse meglio conosciuta», quasi che prima, sia pure imperfettamente, fosse conosciuta; ma in modo assoluto: «perché fosse conosciuta», facendo con ciò intendere – io penso – che la conoscenza che c’era prima della beata Vergine era così oscura, da non avere proporzione alcuna con la seconda, quella che lei fece sorgere[62]. E, com’era opportuno, fece sorgere il sole della giustizia (cf. Ml 4, 2) non soltanto per gli uomini giusti e ingiusti, cattivi e buoni, ma anche per le stesse potenze soprammondane.
            Ora, nessuna delle cose esistenti è all’altezza dell’economia del Salvatore a nostro favore; in egual misura le creature sono inferiori dalla Beata. Invero, se rese gli angeli tanto migliori di se stessi, sì che l’Apostolo non ritenne degna di essere paragonata la seconda felicità con la prima, consideriamo la sovrecedenza[63], quanto sia grande: Se «l’inferiore è benedetto dal superiore» (Eb 7, 7), quale proporzione ci potrebbe essere tra il beneficare e l’essere beneficato? Per questo il profeta contemplava la Vergine come trono di Dio, e trono alto ed elevato (cf. Is 6, 1), e i cherubini intorno al trono[64]; e non soltanto attorno al trono, ma con venerazione e timore, non osando rivolgere lo sguardo. Eppure di loro è scritto che vegliano sempre e non conoscono nessun limite dei loro inni a Dio (cf. Ap 7-8). Alla Beata però, tanto maggiormente dobbiamo aggiudicare tutte queste cose, quanto meglio ella percepiva anche il raggio divino. E non dico dopo la sua dipartita da quaggiù, ma quand’era ancora in questa vita: poiché ciò che rende insonni e ardenti per le cose di Dio le potenze che stanno intorno a Dio, è che a preferenza delle altre esse godono al massimo tutti i carismi divini. Ora, quello che agli altri santi accade dopo lo scioglimento dal corpo, cioè possedere irremovibili la virtù e il bene, questo avvenne alla Vergine, prima ancora che deponesse il suo corpo.
 
Viveva stabile sulla terra, anche col suo corpo “spirituale”, la vita nascosta in Cristo
            10. Ed era del tutto conseguente. Senza dubbio infatti il corpo, che avrebbe potuto starsene in disparte, superò la sua denominazione: non era infatti un corpo «animale», o qualcos’altro, ma – come dice Paolo – «corpo spirituale» (cf. 1 Cor 15, 44), perché lo Spirito era disceso su di esso e aveva trasformato[65] tutti i limiti della natura. Oltre a questo, ciò che, presente nei santi, non permette loro di distogliere la mente da Dio[66], questo in maniera esimia era nella beata Vergine. Ad essi infatti – saziati in ogni brama per essere vicini al sommo Desiderabile e per la contemplazione con tutta la loro forza intellettiva del vero Ente – non è possibile volgere ad altro né distogliere, come sguardo, la mente, quand’anche fosse loro proposto tutto il visibile. Ora, che queste cose siano accadute alla Vergine oltre ogni pensiero e parola, e che lei sola al di là di ogni possibile confronto[67] abbia accolto Dio, chi lo ignora?
            Onde è evidente che, anche prima di mutare[68] la vita[69], possedeva inamovibile quell’ammirabile virtù e il sommo Bene: ed era presente ai beni futuri e fin da quaggiù regnava nel regno riposto ai giusti (cf. Col 1, 5; 2 Tm 4, 8), e viveva – stabile nel suo fluire – la vita nascosta in Cristo (cf. Col 3, 3) che le era stata mostrata. Era infatti necessario che toccasse un genere nuovo di vita[70] alla Beata, alla quale avevano ceduto anche le leggi di natura. Questo lei stessa rivelò, quando celebrando in un inno i divini benefici che aveva ottenuto, disse: «Grandi cose ha fatto in me il Potente» (Lc 1, 49).
 
Unita indissolubilmente al Figlio nell’umiliazione, nella passione, nella gloria
            11. O poemi straordinari! O lotte corrispondenti! Eppure, anche dopo il premio e le corone – parlo del Sole di Giustizia (cf. Ml 4, 2) che Ella accolse e a cui fu unita – ebbe a sperimentare per noi fatiche e sofferenze in luogo della gioia che le era stata offerta (cf. Eb 12, 2)[71]. E compartecipava all’ignoranza e agli obbrobri del Figlio (cf. Sal 68, 8), e alla condizione che mettevano in luce la sua povertà, per le quali egli era povero ed esercitava il mestiere di colui che era ritenuto suo genitore, ed ella sopportava tutto con pazienza, combattendo col Figlio per la mia salvezza. Ed era presente quando metteva mano ai prodigi e migliorava la natura (cf. Gv 2, 1-11)[72]; e soffriva insieme con lui, rifiutato e odiato da quanti aveva beneficiato, e condivideva l’odio: poiché per prima aveva mosso il Figlio ad elargire tali benefici, anche avanti l’ora, per eccesso d’amore per l’uomo: infatti, «non è ancor giunta – dice – la mia ora» (Gv 2, 4). Con queste parole egli dimostrava quanta libertà d’azione[73] avesse comunicato alla Madre, sì da poter spostare[74] anche i termini dei tempi, che egli stesso aveva fissato.
            E poi, quando il Salvatore dovette[75] patire per noi atroci supplizi e morire, da quali gravi strazi fu penetrata la Vergine! Quali trafitture sperimentò! Se infatti il Figlio fosse stato soltanto un uomo, e null’altro, non si poteva aggiungere nulla di più penoso alla Madre; ora invece egli è Figlio e di lei sola e unico e in modo stupendo, e non aveva mai fatto soffrire né lei né alcun altro[76] fra tutti, ma a tutti aveva donato tali benefici (cf. At 10, 38), da superare ogni speranza. Quale animo dunque è pensabile avesse allora la Beata, vedendo il Figlio in tali pene crudeli, lui, il comune benefattore della natura, il mite e umile di cuore (cf. Mt 11, 29), lui che non contendeva né alzava la voce (cf. Is 42, 2), al quale nessuno poteva imputare nulla contro nessuno (cf. Gv 8, 46), trascinato da quelle belve feroci, denudato, flagellato, condannato – fuori di ogni legge e di ogni giustizia, come in una tirannia – con verdetto infame a morire di una morte infame insieme con gli uomini più scellerati (cf. Gv 18-19)? Penso che agli uomini non sia mai accaduto un simile dolore (cf. Lam 1, 12). Infatti, se è inevitabile piangere su quanti patiscono ingiustizia, nulla fa più lontano dalla giustizia della morte inflitta al Salvatore. Invero, nessuno certamente subì una tale ingiustizia, anche se uno non ha coscienza delle colpe (cf. 1 Cor 4, 4), per le quali ha pagato la pena: ha però certamente commesso cose, delle quali giustamente potrebbe essere incolpato. Ma del Salvatore dice il profeta: «Non commise peccato» (Is 53, 4). E se non è possibile dolersi delle disgrazie dei propri congiunti, nessuno mai fu ad altri così congiunto come la Vergine al Salvatore. Perciò un tormento sommo ed inaudito colse la Vergine, quale nessun uomo mai: era infatti d’animo nobile e madre e capace di misurare l’ingiustizia.
 
Doveva diventare in tutto conforme al Figlio, nella morte e nella gloria, sulla terra e in cielo
            12. Era infatti necessario[77] che fosse partecipe col Figlio in tutto ciò che riguardava il disegno di Dio a nostro favore. E come gli aveva comunicato carne e sangue e ne aveva ricevuto in cambio la comunione alle sue grazie, allo stesso modo ebbe parte a tutte le sue sofferenze e al dolore. Egli invero, inchiodato sulla croce, ricevette il colpo di lancia al costato (cf. Gv 19, 34), ella fu trapassata al cuore dalla spada – come aveva predetto il divinissimo Simeone (cf. Lc 2, 35). Ed altre cose ancora, comuni al Figlio e alla Madre, aggiunsero quei cani, ricordando le sue antecedenti parole come di un impostore e chiamandolo seduttore e tentando di comprovarne la seduzione (cf. Mt 27, 63).
            Così per prima divenne in tutto conforme per somiglianza alla morte del Salvatore (cf. Rm 6, 5; Fil 3, 10), e perciò prima di tutti fu partecipe anche della Risurrezione. Infatti, dopo che il Figlio ebbe dissolto la tirrania dell’inferno e risorse, godette della sua visione e della sua conversazione, e, mentre saliva al cielo[78], finché poté, l’accompagnò e, dopo che Egli se ne fu andato, tenne il suo posto presso gli apostoli e gli altri amici del Salvatore (cf. At 1, 14)[79], aggiungendo ancor questo ai benefici di cui aveva arrichito la nostra natura, e colmando più perfettamente di qualunque altro la mancanza del Cristo (cf. Col 1, 24). A chi altri, infatti, poteva ciò convenire meglio che alla Madre?
            Bisognava[80] infine che quella santissima anima fosse sciolta da quel sacratissimo corpo. E si sciolse[81], e si congiunse con l’anima del Figlio: luce seconda alla prima Luce. Ma anche il corpo, rimasto per un poco sulla terra, migrò anch’esso dal mondo. Bisognava infatti che passasse attraverso tutte le vie per le quali era passato il Salvatore e risplendesse ai vivi e ai morti[82] e in tutto santificasse la natuta e infine ricevesse il luogo che gli conveniva. Lo ebbe dunque per poco[83] la tomba, ma poi il cielo accolse questa nuova terra, il corpo spirituale (cf. 1 Cor 15, 44), il tesoro dalla nostra vita, più venerabile degli angeli, più santo degli anrcangeli. E fu restituito il trono al re, il paradiso al legno della vita (cf. Gn 2, 9), il disco alla luce, al frutto l’albero, la Madre al Figlio, essendo ella in tutto corrispondente alla Prole.
 
Epilogo
            13. Quale discorso, o Beata, basterebbe a celebrare la tua giustizia, le grazie del Salvatore verso di te e le tue grazie verso la comune stirpe umana? Neanche se uno parlasse le lingue degli angeli e degli uomini (cf. 1 Cor 13, 1), direbbe Paolo. Io credo che anche questo sia parte dell’eterna felicità riservata ai giusti (cf. 2 Tm 4, 8): conoscere e dire in modo degno e come conviene le tue grandezze. Queste infatti «né occhio vide, né orecchio udì» (cf. 1 Cor 2, 9), né il mondo intero potrebbe portare (cf. Gv 21, 25), secondo il sommo Giovanni. Le tue meraviglie convengono solo a quel teatro, in cui vi è un cielo nuovo e una terra nuova (cf. 2 Pt 3, 13), il sole della giustizia (cf. Ml 4, 2), cui non precede né segue tenebra. Precone delle tue grandezze, lo stesso Salvatore; gli angeli plaudenti. Là solo infatti potresti trovare una voce degna di te. Ma non è dato agli uomini esporre dali cose; noi possiamo applicarci alle tue lodi solo quel tanto che può santificare la lingua e l’anima. Infatti, una sola parola che ci porti qualcosa delle tue meraviglie, e il tuo ricordo innalza l’anima e rende migliore la mente, e da carnali ci fa del tutto spirituali, da profani santi.
            Ma, o compendio dei beni, che in questa vita conosciamo e che conosceremo dopo la dipartita da quaggù! O tu, che hai iniziato la beatitudine e la santità e ti sei fatta guida agli altri! O salvezza degli uomini e luce del mondo (cf. Mt 5, 14), via al Salvatore, e porta e vita (cf. Gv 10, 9; 14, 6), e degna di essere chiamata con gli altri nomi, che il Salvatore ha udito di sé per la mia salvezza[84]! Egli infatti è causa, e tu concausa, della mia santità, e di tutti i doni che dal Salvatore per mezzo tuo e dei tuoi che da te sola ho goduto: è sangue tuo, quello che asterge i peccati del mondo (cf. Eb 9, 11-14); membro tuo è quel corpo, nel quale sono stato santificato (cf. 1 Pt 2, 24), nel quale sta la nuova alleanza (cf. Lc 22, 19; 1 Cor 11, 23ss)[85], nel quale è risposta ogni speranza di salvezza. Le tue viscere sono il regno di Dio.
            Ma tu che superi ogni lode e ogni nome che si possa nominare (cf. Ef 1, 21), ricevi l’inno[86] e non disdegnare la buona volontà; e concedi che circa le tue grandezze possiamo pensare e proclamare[87] qualcosa di meglio, già ora in questa vita, e dopo di essa, in quella eterna. Amen.
(M. Jugie, in PO 19, 495-510; tr. di E.M. Toniolo)
Testo tratto da: Testi mariani del secondo millennio. 1. Autori orientali, a cura di Georges Gharib ed Ermanno M. Toniolo, Città Nuova Editrice, Roma 2008, pp. 470-482.
Bibliografia delle note: La madre di Dio. Tre omelie mariane, Edizioni scritti monastici Abbazia di Praglia 1997.


 

[1] Anche nella Om. I [Nicolas Cabasilas, Omelia sulla gloriosissima nascita della nostra Santissima Signora Madre di Dio] abbiamo incontrato un simile proemio, tradizionale nei discorsi encomiastici; lo si trova in Basilio Magno, in Gregorio Nazianzeno e altri. Lo ritroviamo in Gregorio Palamas, particolarmente sottolineato, come in Cabasilas, in questo caso del mistero supremo della Madre di Dio, la sua dormizione e glorificazione: «… se c’è qualcosa che io devo e desidero fare, è proprio narrare e lodare dinanzi alla Chiesa le meraviglie della sempre Vergine Madre di Dio… la parola invece non può penetrare in quelle realtà che sono al di là della parola, come l’occhio non può guardare fissamente il sole… tuttavia, se non si può dire ciò che è al di là della parola, è invece possibile innalzare inni all’amore per gli uomini di coloro a cui inneggiamo»: (Om. XXXVII, 460d-461a).
[2] Παναγία [Tuttasanta, Santissima], il nome più popolare che i greci danno alla Vergine.
[3] Anche qui il soggetto è stato aggiunto, mancava per il solito motivo che si è più volte rilevato, il giganteggiare della figura e il suo esserci così familiare, che comunque riempie il discorso, al di là delle ripetizioni sintattiche.
[4] […] oggetto di molteplici lodi, per avvicinarsi con una certa approssimazione al termine greco: πολυύμνητος, usato dallo Pseudo-Dionigi e da Basilio Magno per la Trinità, alludendo, da parte del primo, all’inno Trisagio [v. G.W.H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961-1968].
[5] Νέλλας osserva (p. 166, nota 3 [in: Η Θεομήτωρ. Τρείς Θεομητορικαί ομιλίαι, a cura di Π. Νέλλας, Αθήναι 1968]), che questo proemio di Cabasilas ricalca in gran parte quello di Giovanni Damasceno, nel III Discorso scritto per la medesima occasione.
[6] V. i riferimenti al tabernacolo, all’arca, a Mosè, all’omelia I. Si potrebbero aggiungere altri testi della Vergine concepita come arca santa: «Danziamo oggi, o fedeli, con salmi e cantici, cantando al Signore e venerando la sua dimora santificata, l’arca vivente (Es 25, 10ss.; Sal 131, 8), che ha accolto il Verbo che nulla può contenere…» (dalla festa della Presentazione).
[7] Il tema del Cristo vincitore che ci trascina ad applaudire, a inneggiare, contemplando l’opera della salvezza, a “fare”, in un certo senso, “il tifo” per l’eroe trionfantore, ritorna più volte in Cabasilas: La Vita in Cristo [in: Nicolas Cabasilas, Vita in Cristo, PG 150, 493-725. Ed. it. La Vita in Cristo, a cura di U. Neri (= Fonti Cristiane per il terzo millennio 11), Roma 19942. La prima ed.: Torino 1971] I, 5, pp. 93-95 (516d-517c) e par.
[8] V. Om. I, 4 [“… Ne conseguiva perciò che la natura no poteva introdurre niente nella nascita della Tuttapura e che Dio stesso, invocato nella preghiera, operasse tutto e respinta la natura creasse direttamente, per così dire, la Beata, come se fosse il primo uomo: per eccellenza infatti e in assoluto la Vergine è il primo uomo, lei che prima e sola ha manifestato la natura umana: è davvero così”]. Ritorna il tema del primo uomo. In modo del tutto consentaneo a questo Palamas scriveva: «Essa è causa di coloro che furono prima di lei, protettrice di quelli che sono venuti dopo, patrona dei secoli» (Om. XXXVII, 473a).
[9] L’immagine del frutto riferita alla Vergine nel senso del frutto della legge, del nuovo rispetto all’antico: v. Om I, 3 [“Ma poiché di certo la grazia è il compimento della legge, e sappiamo che le cose nuove sono frutto delle antiche: ma nessun frutto si avrebbe da quelle non ancora perfette; è cosa certamente perfetta che da voi sia stata coltivata la pianta della legge, altrimenti non avreste dato il tesoro della grazia, il frutto della legge, la Vergine”].
[10] In forte consonanza con questa riga, il famoso Inno Akathisto [in: Inno Akathistos alla Madre di Dio, testo greco e traduzione italiana, ed. di Monteveglio pro manuscripto, Felina (RE) 1986], notissimo in Oriente alla pietà popolare e non solo ad essa, matrice e frutto di tanti testi liturgici mariani, dove il nostro testo dice: τούτοις εκ της γης μετήνεγκεν, diceva così: … χαίρε γέφυρα μετάγουσα τους εκ γης προς ουρανόν: «Gioisci, ponte che fai passare dalla terra al cielo» (Stanza II). Questo passaggio dalla terra al cielo, questa terra che diventa cielo, è cantato in tanti testi bizantini: si veda ancora, ad es., Palamas nell’omelia sulla nascita della Madre di Dio: «… colei che ha reso divina la razza umana e ha fatto cielo la terra, che ha fatto Dio figlio dell’uomo e gli uomini figli di Dio, poiché in se stessa ha mirabilmente concepito senza seme e reso ineffabilmente rivestito di carne Colui che dal nulla ha tratto le cose, che le trasferisce all’esser bene e non le lascia cadere nel nulla» (Om. XLII, 4, Οικονόμος [in: Gregorio Palamas, Homiliae: PG 151, 9-550. Γρηγορίου του Παλαμά ομιλίαι, a cura di Σ. Οικoνόμος, Αθήναι 1861], p. 9). A parte tutti i richiami biblici ben chiari nel testo di Palamas, anche soltanto nell’immagine vista sopra del trasferimento dalla terra, emerge, a monte, l’allusione a testi biblici, dal trasferimento di Enoch, di Elia ecc.: Eccli 44, 16; 49, 14 e par. Per il Nuovo Testamento si veda particolarmente Col 1, 13: Ci ha strappato dal potere della tenebra e ci ha trasferito nel Regno del Figlio del suo amore.
[11] Cf. Col 2, 14 e par. L’autore ha espresso questo togliere di mezzo con una forma verbale, il perfetto, che indica con forza il perdurare delle conseguenze.
[12] Se guardiamo appena qualche riga sopra, vediamo che le immagini si sposano ancora con quelle dell’Akathisto, che chiama la Vergine fiore dell’incorruzione (Stanza XIII). Il patriarca di Gerusalemme Modesto nell’Encomio [in: Modesto di Gerusalemme, Encomium in dormitionem ss.mae dominate nostrae deiparae sempreque Virginis Mariae: PG 86, 3277-3312] scritto per la medesima occasione che stiamo qui celebrando, diceva: «Da questa stessa Semprevergine il Cristo Dio, rivestita dallo Spirito Santo, una carne animata e dotata da intelletto, strettala a sé, la rivestì di incorruzione concorporea e la glorificò supergloriosamente (Es 15, 1), perché divenisse erede (Tt 3, 7 e par.), in quanto santissima madre sua; secondo ciò che anche il salmista canta: Sta la regina alla tua destra avvolta in abito dorato, variamente adornata (Sal 44, 10)»: 3289c; v. anche 3293a. Più avanti, l’autore riprende anche il v. 11 dello stesso salmo, tanto usato in queste occasioni (3293a), così come questo o quel versetto del Sal 44 sarà ripreso da tanti autori dopo di lui fino ai nostri giorni. […]
[13] Cf. Col 1, 15-20, pericope sottesa a tutto questo brano di Cabasilas con tutti i suoi concetti fondamentali: terra, cielo, creazione, corpo, redenzione, Chiesa.
[14] Sarò saziato quando sarà mostrata la tua gloria; notare i passivi.
[15] Nel trattato La Vita in Cristo, Cabasilas scrive: «Consideriamo quella prigionia, la schiavitù, le catene, il frutto di colui che ci aveva ridotto schiavi; riflettiamo come non c’era alcun termine ai nostri mali, ma avremmo dovuto sperimentare sempre più la cattiveria e la crudeltà del tiranno, la nostra assoluta impotenza e la mancanza di chi potesse darci una mano»: VI, 8, p. 300 (673ab). A questo brano un po’ truce corrisponde nel nostro testo un andamento più sereno, caratterizzato subito, nel primo capoverso, dalla presenza di Lei, che apre la frase del testo greco con un μόνη (sola) molto significativo, che dà l’impronta a tutto l’andamento del periodo.
[16] In questa unicità e in questo desiderio espresso in vari termini, riecheggia il Cantico dei Cantici: 2, 3; 5, 16 ecc. E ancora Cabasilas scriveva. «… anche quando possiede tutti i beni dell’esistenza, l’uomo non è sazio, niente placa il suo desiderio… il desiderio dell’anima va unicamente al Cristo. Qui è il luogo del suo riposo, poiché lui solo è il bene, la verità, e tutto ciò che ispira amore»: La Vita in Cristo II, 9, pp. 152-153 (560d-561a).
[17] Quello della comunione con Dio è il grande tema del nostro autore, in cui si sofferma tante volte a considerare il vertice dell’unione con Dio nella comunione eucaristica: «O sublimità dei misteri! quanto è grande che la mente di Cristo si mescoli alla nostra mente, la volontà alla volontà, il corpo al corpo, e il sangue si fonda col sangue! Che diventa la nostra mente sotto l’imperio della mente divina? e la nostra volontà vinta da quella volontà beata? e il nostro fango sopraffatto da quel fuoco?»: La Vita in Cristo IV, 1, p. 187 (585a). E più avanti: «… quel che è di Cristo è più nostro di quel che è da noi. È propriamente nostro perché siamo stati costituiti membra e figli ed abbiamo in comune con lui la carne, il sangue e lo Spirito; e ci è più prossimo non solo di quello che è frutto in noi dell’ascesi, ma anche di quel che procede dalla natura, poiché egli si è rivelato più strettamente congiunto a noi dei nostri genitori»: IV, 6, p. 222s, (613c).
[18] Cf. Mt 4, 16 (Is 9, 1). Nel testo biblico, chiaramente cristologico – infatti il passo di Isaia dall’evangelista è applicato senz’altro al Cristo – il verbo è intransitivo, è la Luce stessa che sorge. Cabasilas invece ha voluto precisare chi ha fatto sorgere la Luce.
[19] Con grande abilità l’autore cita il testo sostituendo Lei al termine Chiesa e sottolinea così di fatto la realtà ecclesiale di Maria, primizia della Chiesa, sua icona e sua madre.
[20] Si noti come le due citazioni siano abilmente intrecciate e come si può arricchire la lettura mariologica di Cabasilas anche andandole a vedere nei loro contesti.
[21] Sul binomio cielo-terra cf. nota 10.
[22] Cf. Mi 4, 1 e par.; At 2, 17 e par.
[23] Sappiamo ormai che, secondo l’innografia, l’agiografia e l’iconografia orientali, la Vergine è più ampia dei cieli; si veda l’icona Πλατυτέρα […]. Πλατυτέρα, più ampia dei cieli, come già Dio aveva detto di sé al profeta: Forse che io non riempio il cielo e la terra? (Ger 23, 24) [cf. nota 34 (la preghiera di Salomone, 3 Re 8, 27)]. E ancora, oltre alla prima parte del salmo 18, in cui il sole e lo sposo sono figura del Cristo, ci sono i magnifici versetti 19 e 22 del salmo 103, in cui il verbo greco, che ha senz’altro valore di passato, ci costringe a leggere il testo anche come profezia della passione e risurrezione del Cristo: Il sole ha conosciuto il suo tramonto, e: È sorto il sole e si raduneranno: il Cristo è disceso nel sepolcro ed è risorto radunando intorno a sé le genti.
[24] Cf. Gb 15, 15: Nemmeno il cielo è puro davanti a Lui. Scrivendo queste frasi, certamente al Cabasilas risuonava alla mente questo lapidario versetto biblico.
[25] È significativo che Cabasilas abbia usato qui l’espressione lucana tratta dal contesto di una certa solennità del Prologo del suo Vangelo.
[26] La Madre di Dio οδηγήτρια, cioè guida che conduce sul cammino, è un altro dei tanti titoli con cui si onora Maria. [...] Nella nota 80, p. 102 il Νέλλας diceva: «È il pensiero centrale del paragrafo 5, il quale, come abbiamo detto, costituisce la pietra angolare dell’omelia. Dopo la salda costruzione che ne è seguita (§§ 6-14) ora il Cabasilas arriva ad aggiungere, con la frase che segue immediatamente, il coronamento di tutta la sua dottrina antropologica e cristologica» [Om. I, 15: ‘... Dio mise in noi la forza di dominare il peccato con la sobrietà e la sollecitudine, e da vincitori ci avrebbe adornato di una totale stabilità nel bene, l’una cosa e l’altra sono state date alla natura dalla sola Vergine: l’una, per quanto lei stessa ha compiuto rettamente, l’altra per il fatto di essere divenuta madre’]. All’inizio del §5, nella nota 23, p. 56, egli aveva detto: «Questo paragrafo, come quelli che seguono immediatamente, è una mirabile condensazione e insieme un passo decisivo nella formulazione della dottrina ortodossa sull’uomo. I Padri precedenti avevano come temi immediati di trattazione sopratutto la dottrina trinitaria e la cristologia; e l’espressione “Madre di Dio” era per loro sostanzialmente un argomento cristologico. Certo anche l’antropologia faceva parte in maniera fisiologica della cristologia in tutte le età dei Padri classici. Parlando di Cristo parlavano dell’uomo in pienezza. Ma nel secolo XIV, quando questa visione si perse e il Rinascimento cercava esclusivamente e soltanto l’uomo, arriva il Cabasilas e con pura e santa intenzione apostolica rivela il significato antropologico della Vergine. Così conduce per immagine l’uomo al Cristo, mediante la “Guida”». Qui si tratta di uno dei nomi di Maria più caro all’Oriente: Οδηγήτρια, cioè Colei che conduce per la via.
[27] Questo passivo può stupire, ma è proprio così: il Signore l’ha messa in mezzo e ce l’ha lasciata, a intercedere continuamente per noi, prima sotto la croce e poi alla sua destra. Lo mostra bene la figura della Δέησις, la supplica […]. E Palamas usa un’immagine molto forte: insonni intercessioni: «… ti prendi cura della tua eredità, rendendo il Figlio propizio verso tutti con intercessioni insonni verso di lui» (Om. XXXVII, 469b).
[28] Ancora nella stessa omelia Palamas dice: «… la Vergine apparirà come cielo, tanto più luminosa… di coloro che sono stati divinamente arricchiti dalla grazia sia sotto il cielo che sopra di esso, quanto il cielo è più grande del sole e quanto il sole è più luminoso del cielo» (XXXVII, 468d).
[29] Cf. Lc 1, 35; At 1, 8. Nell’ottica dell’unità dei misteri, è pressoché fisiologico per l’autore a questo punto riaccostarsi al momento supremo dell’incarnazione, l’annuncio dell’angelo a Maria e il concepimento del Verbo fatto uomo. Anche Germano di Costantinopoli, autore bizantino del VII-VIII secolo, certo notissimo a Cabasilas, in una omelia sulla dormizione passava del tutto naturalmente a celebrare l’anninciazione così: «Infatti, come la dissoluzione del corpo avrebbe potuto dissolvere in polvere e cenere te, che mediante l’incarnazione del tuo Figlio hai liberato l’uomo dalla rovina della morte? Tu partisti quindi dalle cose terrene affinché si mostrasse realmente rafforzato il mistero della tremenda Incarnazione, affinché si credesse che – poiché tu avevi sopportato l’allontanamento dalle cose soggette al tempo – così il Dio nato da te era stato anche uomo completo, figlio di una vera madre…»: Om. Mar. IV, p. 110 (345b) [in: Germano di Costantinopoli, Homiliae: PG 98, 291-372. Ed. it.: Omelie mariologiche, a cura di V. Fazzo (= Collana di testi patristici 49), Roma 1985]. Anche Gregorio Palamas, nell’Omelia XXXVII sulla dormizione, parlando dello splendore della Tuttasanta, passa con grande naturalezza al mistero dell’incarnazione. Dio ha bramato la sua belezza «e, abbassando i cieli, è disceso, e la potenza enipostatica dell’Altissimo l’ha adombrata con la sua ombra; o, piuttosto, l’ha inabitata. Poiché la venuta del Signore si è manifestata non per mezzo della caligine e del fuoco, come al tempo del profeta Mosè, né per mezzo della tempesta e della nube – come al tempo del profeta Elia –, ma la potenza dell’Altissimo ha adombrato il seno purissimo e verginale senza intemdediari e senza velo alcuno, non essendovi nulla che si interponesse: né aria, né etere, né alcuna altra realtà sensibile o sovrasensibile, così che non fu un adombramento, ma una vera e propria unione. Ma poiché lo Spirito, quando adombra, sempre fa in modo da imprimere la sua forma e la propria impronta in colui che adombra, nel seno della Vergine è avvenuta non soltanto una unione, ma anche una conformazione, così che quello che ha preso forma da entrambi – cioè dalla potenza dell’Altissimo e da quel grembo tutto santo e verginale – era il Verbo del Dio incarnato. In tal modo il Verbo di Dio ha ineffabilmente posto in lei la sua dimora…» (461d-464a).
[30] Non poteva infatti pesare su di lei il castigo di Eva: Gen 3, 16.
[31] Nella omelia omonima il Palamas, procedendo con una andamento simile, celebra la bellezza di Maria rifacendosi al salmo 44, passim: «Ha infatti bramato la mistica bellezza della sempre Vergine il Re dell’universo – come ha predetto Davide – e, abbassando i cieli, è disceso (…). E ora essa ha per degna dimora il cielo come reggia che le conviene; e al cielo oggi è passata dalla terra e sta alla destra del Re eccelso, avvolta in un avito dorato, variamente adornata, come dice di lei il profeta nel salmo. L’abito dorato, poi, significa il suo corpo risplendente di luce divina; gli ornamenti vari, invece, l’insieme di tutte le virtù» (Om. XXXVII, 461d – 465d). Questo stesso testo è stato citato poco sopra, a proposito dell’intrecciarsi della celebrazione dei misteri e del ritorno a quello fondante e supremo dell’incarnazione.
[32] Anche questa volta manca l’esplicitazione del soggetto, quanto mai presente.
[33] A questo punto il Νέλλας richiamava una sua precedente nota in cui aveva citato un versetto di Giovanni Damasceno: «O figlia degna di Dio, bellezza della natura umana…» (Om. II, 2, nota 10, p. 124).
[34] Più sotto Cabasilas ha citato il versetto precedente del medesimo salmo [Sal 52, 3]. Appare così ribadita in modo forte dalle parole bibliche stesse l’assoluta impossibilità dell’uomo a uscire dalla sua situazione senza Maria. È significativo anche il fatto che questo salmo sia quasi un doppione del salmo 13. Come per la costruzione dei luoghi e degli arredi sacri la Scrittura cesella e ripete tanti particolari, indicando la loro importanza anche attraverso la tecnica della ripetizione, in questi due salmi è sottolineata e ripetuta la condizione letale dell’uomo.
[35] Si notino tutte le negazioni presenti in questo periodo, per sottolineare lo stato di estrema impossibilità. Quanto alla menzione dell’Ade [“inferno”], si veda l’icona della discesa agli inferi, con le figure di patriarchi, re e profeti.
[36] Il tema biblico dell’abitazione di Dio con gli uomini trova uno dei suoi vertici nella preghiera di Salomone. Cf. 3 Re 8, 27ss. e par. La preghiera di Salomone dopo la costruzione del tempio è a questo riguardo molto significativa: Ma davvero abiterà Dio con gli uomini sulla terra? Se il cielo e il cielo del cielo non possono bastare a te, quanto meno questa casa che io ho costruito al tuo nome! Questo testo ha impegnato la tradizione orientale, facendo chiamare la Madonna πλατυτέρα, cioè più ampia dei cieli, perché lei ha potuto contenere il Signore, e così viene raffigurata tante volte nell’iconografia. […] A cavallo fra il X e l’XI secolo un autore lirico, compositore di tante preghiere inniche, nativo di Armenia, Gregorio di Narek, autore di una famosa preghiera alla Madre di Dio, intitolata: Dal fondo del cuore, colloquio con la Madre di Dio, in un panegirico a lei dedicato scriveva: «… o ministra di questo grande mistero, o beata Genitrice dell’eterno Vivente! Tu accogliesti in te colui che da tutti e dovunque fu esaltato con cantici spirituali, e l’accogliesti in te non in modo parziale ma nella sua integrità, non per un istante, ma per sempre, non diviso, ma unito, non per mutazione di natura divina, ma per assunzione di quella umana, non circoscritto in un luogo, ma presente nel talamo sconfinato della tua anima. Tu infatti portasti nel grembo colui che nella palma della sua mano regge il cielo e la terra…» (Testi mariani [in: Gregorio di Narek, Il libro delle preghiere, in Testi mariani del primo millennio, IV, Roma 1991, 576-589], IV, p. 584).
[37] Il Cabasilas si dilunga maggiormente su questo tema: «… non bisogna meravigliarsi se tutti vivranno immortali, non tutti però beati. Tutti infatti godono egualmente della semplice provvidenza di Dio relativa alla natura, ma di quei doni che onorano la volontà godono solo gli uomini pii verso Dio. Ecco la ragione: Dio vuol dare tutti i beni a tutti, distribuisce a tutti egualmente le sue grazie, quante beneficano la volontà e quante restaurano la natura. Noi tutti, anche nolenti, poiché non possiamo fuggire, riceviamo i doni che Dio fa alla natura. Ci benefica anche se non lo vogliamo, ci costringe con amore e, quand’anche volessimo scuoterci di dosso la sua liberalità, non potremmo. Tale è il dono della risurrezione. Invece la suprema beatitudine premia quel che dipende dalla volontà umana: la scelta del bene, la remissione dei peccati, la rettitudine dei costumi, la purezza dell’anima, l’amore di Dio. Questi beni sono a nostra portata: possiamo accettarli o fuggirli e perciò chi vuole può, ma chi non vuole come potrebbe goderne?»: La Vita in Cristo II, 5, p. 128 s. (544a-b).
[38] In realtà Paolo esprime questo concetto in maniera ampliata, ma il riferimento biblico più diretto di Cabasilas a questa espressione è Is 53, 11, uno dei cantici del Servo sofferente: E giustificherà il giusto mio servo molti e delle loro iniquità si caricherà. Cabasilas citava evidentemente a memoria, ma questa volta, in modo singolare, non dai LXX ma dall’ebraico, oppure da altra versione greca di cui potesse disporre in quel momento.
[39] Questa stessa espressione è già stata usata quasi nelle prime battute del discorso: v. Om. I, 4, p. 66: «Prima della grande vittima c’era anche presso gli antichi un sangue purificatore dei peccati ma in realtà la differenza fra le due vittime era tale quanto avevano in comune le figure e i nomi (…). Ma lei sola fu veramente opera della preghiera sacra». In quella stessa pagina è stato notato come la tradizione ami dare al Cristo l’attributo di grande; si può riprendere o anche un po’ ampliare il breve elenco: da grande medico a grande pastore, da grande vittima a grande misericordia, da altri appellativi a grande Gesù, così chiamato con grande, origeniana tenerezza. Qui si tratta in realtà di Giosuè, ma è così chiamato in prospettiva profetica sulla scorta, appunto, di Origene (v. Om. In Gios., passim).
[40] Il brano de La Vita in Cristo che abbiamo poco sopra riportato prosegue con la stessa citazione: «… il Signore soltanto ha liberato la natura dalla corruzione e la volontà dal peccato: l’una essendo divenuto primogenito dei morti, l’altra essendo entrato precursore per noi nel Santo dei Santi. In quanto ha ucciso il peccato, ci ha riconciliati con Dio, ha abbattuto il muro di divisione e si è santificato per noi, affinché anche noi fossimo santificati nella verità. È giusto, evidentemente, che siano liberati dalla corruzione e dal peccato soltanto quelli che partecipano della sua volontà e della sua natura: della sua natura come uomini, della sua volontà per avere amato la sua epifania e la sua passione, e per avere obbedito ai suoi comandi e aver voluto ciò che lui vuole»: II, 5, p. 129 (544bc).
[41] Il nostro autore ama usare il termine έρως per indicare la violenza dell’amore di Dio per l’uomo e l’intensità dell’amore che suscita da parte dell’uomo, quando è corrisposto. Anche ne La Vita in Cristo questo έρως costituisce uno dei punti forti delle argomentazioni dell’autore: «Come l’amore umano quando trabocca e diviene più forte di coloro che lo ricevono trae gli amanti fuori di sé, così l’amore che Dio ha per gli uomini lo ha svuotano (εκένωσεν: cf. Fil 2, 7) (…). Non doveva restare nascosto quanto immensamente Dio ci amasse: quindi, per darci l’esperienza del suo grande amore e mostrare che ci ama di un amore senza limiti, Dio inventa il suo annientamento, lo realizza e fa in modo di divenire capace di soffrire e di patire cose terribili. Così, con tutto quello che sopporta, Dio convince gli uomini del suo straordinario amore per loro e li attira nuovamente a sé, essi che fuggivano il Signore buono credendo di essere odiati. (…) Chi mai ha concepito un amore così folle…?»: VI, 2, pp. 263-266 (645a-648a).
[42] Cf. Sal 44, 12 e Ct 1, 4: in questo versetto del Cantico dei Cantici si trovano l’annientamento e l’attirare del brano di Cabasilas appena precedentemente. Altra volta Cabasilas dice: «adoriamo il trofeo del Cristo e per lui valoroso mostriamo veemente e ineffabile amore. Facciamo nostre quelle ferite, quelle piaghe, quella morte e le attiriamo a noi per mezzo dei divini Misteri»: La Vita in Cristo I, 5, p. 93s. (561d). E ancora dalla forza trascinante dei sacramenti – «è la potenza della sacra mensa che attira a noi la vita vera»: ibidem IV, 3, p. 203 (596d) – si passa all’incontenibile impeto di quella corsa irresistibile nell’ultimo giorno, quando lui stesso attirerà e rapirà: ibidem IV, 8, p. 236 (624c).
[43] Come per il peccato di Davide denunciato da Natan (2 Re 12, 13), il peccato di tutti viene espresso con una forma verbale (perfetto), che sottolinea il perdurare delle conseguenze, in questo caso il permanere del peso della colpa.
[44] Ancora una volta, qui e nelle righe che seguono, è posta in campo la pagina fondante e suprema dell’incarnazione: v. nota 29 e passim.
[45] Qui sono congiunte la lode dell’angelo e quella di Elisabetta. Ma Cabasilas dice che Dio la chiamò così, è lui il soggetto che mette in bocca ai suoi ministri le parole ispirate.
[46] Binomio nettamente paolino: cf. Col 1, 22 e par.
[47] Ancora il mistero dell’annunciazione.
[48] Cf. Mc 14, 24 e par.; l’allusione eucaristica di questa frase di Cabasilas è molto forte.
[49] Cf. Es 28, 16 e par.; 29, 18 ecc. Anche qui Nicolas mostra la sua grande conoscenza della Scrittura e il saperla seguire a memoria quasi passo passo.
[50] A Costantinopoli la veste di porpora richiamava a tutti l’imperatore, il figlio destinato alla successione al trono era porfirogenito, cioè generato nella porpora. Quanto alla citazione biblica a questo punto di Is 63, 2: […] “Perché sono rosse le tue vesti?” (Is 63, 2) «Proprio con questa veste Dio ha vinto il demonio e gli ha strappato dalle mani i prigionieri. Dio, che nessun luogo mai poté e potrà contenere (cf. 3 Re 8, 27), la Vergine lo avvolge del suo sangue… il sangue della Vergine beata è divenuto sangue di Dio. Come esprimerlo?». In queste righe si riconosce benissimo la mente di Cabasilas. Nella sua opera La Vita in Cristo – IV, 3, p. 198 (593ab) – egli scrive: «Poiché non era possibile che noi salissimo alla partecipazione dei suoi beni, è lui che, discendendo fino a noi, condivide la nostra condizione e si fonde così perfettamente alla natura assunta, che proprio rendendoci quella carne e quel sangue che ha preso da noi, ci comunica se stesso. Sicché, mentre comunichiamo ad una carne e ad un sangue umano, riceviamo nell’anima Dio: corpo di Dio non meno che d’uomo, sangue e anima di Dio, mente e volontà di Dio non meno che d’uomo». E ancora: «… le nostre membra sono membra di Cristo, sono sacre e contengono, quasi fiale, il suo sangue, anzi meglio sono ricoperte del Salvatore tutt’intero, non come ci si riveste di un mantello e nemmeno della nostra pelle, ma in un modo ancora più perfetto, perché questa veste aderisce a coloro che la indossano molto più della pelle alle ossa. Ossa e pelle infatti, anche nostro malgrado, ce le possono strappare, ma il Cristo nessuno ce lo può portare via, né gli uomini né i demoni, non le cose presenti né le cose future, dice Paolo, né l’altezza, né la profondità né qualunque altra creatura».
[51] Non confuse e non mescolate sono termini della teologia apofatica che prende le mosse dal Concilio di Calcedonia. Non significano certamente estraneità o incomunicabilità delle due nature tra loro, anzi. Nel trattato La Vita in Cristo Cabasilas scrive fra l’altro: «Dio è morto. È sangue di Dio quello che è stato versato sulla croce». Partendo da questa frase il Neri commenta: «Cabasilas fa un uso coraggioso da quella che tecnicamente si chiama communicatio idiomatum: l’attribuzione cioè alla persona del Cristo – che è la stessa persona divina del Verbo – degli attributi della sua natura umana e di ciò che si è compiuto mediante essa; cf. Cirillo Alessandrino, Epistola ad Nestorium, 44: “tutti i termini che ricorrono nel Vangelo devono riferirsi ad un solo oggetto (ενί… προσώπω), cioè all’unica persona incarnata del Verbo”. Per questo la madre di Gesù può essere detta “madre di Dio” (θεοτόκος: ib. 46, Anatematismo I, ib. 47s.), e si può affermare che “il Verbo di Dio ha patito nella carme, è stato crocifisso nella carne, e ha gustato la morte nella carne” (Anatematismo 12, ib. 50); o, più semplicemente ancora, si può parlare di “Dio che ha sofferto” (πάσχων θεός: Massimo Confessore, Ambigua [in: Massimo il Confessore, Ambiguorum liber: PG 91, 1031-1418]: PG 91, 1045a) ed “è morto (απέθανεν)”, del “sangue di Dio” (αίμα θεού: hic), e dei “sudori e fatiche di Dio” (520c)»: I, 5, nota 20, p. 92. Le citazioni di Cirillo d’Alessandria sono tratte dal COD [in: Conciliorum Oecumenicorum Decreta, ed. bilingue, a cura di G. Alberigo, G.L. Dossetti, P.-P. Joannou, C. Leonardi, P. Prodi, Bologna 1991].
[52] Così, più o meno, le poche traduzioni esistenti; si resta un po’ sconcertati dall’immagine del sangue ομόθρονος, cioè di uguale trono, mentre abitualmente questa espressione si riferisce a tutta una persona nel suo insieme. Ma qui l’autore ha voluto spingere la sua deduzione all’estremo facendo, rispetto a questo discorso sul sangue di Dio, un ragionamento per così dire sicut in quantum. Si potrebbe forse forzare il testo in un altro modo, che non trova però sostegno altrove: «Dal momento che esso ha così perfettamente in comune con lui le medesime proprietà, lei è divenuta ormai simile alla natura in onore, trono, e deità».
[53] Si noti ancora una volta la mancanza del soggetto.
[54] Il breve ma efficace accenno all’umanità di Maria come umanità simpliciter può essere completato da quello del paragrafo 12 sulla morte. Questi piccoli accenni possono richiamare un tema che forse giustamente il lettore vorrebbe trattato con più ampiezza in questa omelia. Può accadere infatti che il fedele medio si chieda se e perché la Madre di Dio ha avuto una morte normale. A differenza della prima omelia, in cui Cabasilas usava abbastanza ampiamente anche il materiale apocrifo, si direbbe che in questa terza omelia, come in un crescendo, si muova prevalentemente in una sfera ultraterrena di celebrazione e di lode, affascinato dalla bellezza e dalla gloria di Maria. Non solo usa molto poco il materiale apocrifo – sebbene questo sulla dormizione sia almeno parzialmente molto più attendibile di quello sulla Presentazione al tempio e sia confermato dalla convergenza dei reperti archeologici della Tomba della Madonna, come è già stato più volte notato – ma nemmeno riprende il discorso di Germano di Costantinopoli, di grande profondità e valore pastorale: «Tu partisti quindi dalle cose terrene affinché si mostrasse realmente rafforzato il mistero della tremenda incarnazione, affinché si credesse che… il Dio nato da te era stato anche uomo completo, figlio di una vera madre, che era sottoposta alle leggi delle necessità fisiche per comando della decisione divina e per prescrizione del tempo proprio della vita. Giacché tu eri partecipe dei nostri corpi e perciò non avresti potuto sfuggire all’incontro con la morte comune a tutti gli uomini, secondo il modo con cui anche il tuo Figlio e Dio di tutti gustò la morte (Eb 2, 9); indubbiamente avendo reso oggetto di meraviglia – conformemente al suo sepolcro vivificante – anche il monumento sepolcrale della tua dormizione, ricevitore di vita, cosicché ambedue accolsero realmente i vostri corpi, ma per nulla operarono rovina ad essi. Né infatti era ammissibile che tu, essendo vaso contenente Dio, fossi dissolta dalla polvere del dissolvimento, corroditrice dei morti…»: v. Om. mar. IV, p. 110 (345c-348a).
[55] V. il termine οδηγήτρια dato frequentemente alla Tuttapura dalla Chiesa bizantina.
[56] Abbiamo già notato come Cabasilas e Palamas vedano in un certo senso la Vergine come iniziatrice e prototipo della vita esicasta: […] Dall’accostamento di questo passo [Nicolas Cabasilas, Om. II: «Che cosa infatti avrebbe avuto tanto potere da nascondere la grandezza di quella vita sapiente, che secondo il profeta oscurò perfino i cieli!» (Cf. Ab 3, 3)] con una seconda omelia di Palamas, molto più estesa della precedente, sulla presentazione di Maria, e dal confronto con altri luoghi di Cabasilas sulla vita sapiente, cioè la philosophia [… Maria viveva nella fiducia e nell’abbandono perché sapeva ed esperimentava che la preparazione della sua anima di fatto la operava Dio. Inizio e culmine di questa preparazione è la supplica per tutti gli uomini, come vedremo fra breve e come si ritrova praticamente in tutta l’opera: «… offrendo la propria vita in supplica»: Om. II, 3. E ancora: «… impara dapprima e crede di fronte al mistero e vuole e prega prima di sottostare al sacrificio»: Om. II, 5. Le realtà che dovevano compiersi erano frutto di santità (o: sapienza [φιλοσοφία]) di vita e fede. Appreso e accolto il modo dello straordinario concepimento, sventato ogni dubbio «assume il beato ministero [letteralmente: divenne διάκονος, diacono] di queste realtà soprannaturali, beata per ciò in cui ha creduto, cioè che sarà atta a questa diaconia»: Om. II, 6. Questa preparazione soprattutto di fede, unita all’ascesi, sbocca in un ministero di vita sapiente, proponibile a tutti i cristiani. Dice infatti Nicolas: «È del tutto evidente che Dio ha reso degni tutti gli uomini della realizzazione, più grande di tutte, di una vita sapiente»: Om. I, 8. Anche lei ha dovuto percorrere un cammino e ne ha raggiunto infine il vertice, divenendo realmente «migliore di se stessa»: Om. II, 7. Dio le ha insegnato a correre il tratto di cammino che mancava e ad avere una preparazione più grande al mistero (Ibidem). Nella omelia I, mentre magnifica la Vergine sotto tanti aspetti, l’autore parla del suo esercizio (ascesi) di ogni virtù e soprattutto conclude alcune frasi affermando che ha vòlto a sé lo sguardo di Dio e conquistato il suo amore «esercitando il corpo e l’anima in tale bellezza». Tutto è dominato dall’amore di Dio, dall’«unione con lui al di sopra di ogni pensiero»: Om. II, 2], si deduce in modo inequivocabile la coincidenza tra il vertice di questa vita sapiente e l’isichia: «Poiché dunque la Vergine cercava questo incontro con Dio (è infatti necessario che chi intercede si incontri con colui cui è rivolta l’intercessione) trovò come guida la sacra isichia: l’isichia, cioè la stasi dell’intelletto e del mondo, la tristezza rispetto alle cose di quaggiù, l’iniziazione alle cose di lassù, la rimozione dei concetti in vista di ciò che è il meglio. Questa è veramente la pratica, base della vera contemplazione o visione di Dio, per dirla più propriamente; la sola prova dell’anima veramente vigorosa, poiché qualsiasi altra virtù è come un farmaco che allontana le malattie dell’anima e le malvagie passioni che hanno messo radice in forza della noncuranza, ma la contemplazione è il frutto dell’anima sana, perché è come un termine e la causa formale che compie le opere di Dio. Per mezzo suo infatti l’uomo è deificato, non per mezzo della contemplazione proveniente dalle parole o dall’analogia penetrante delle cose visibili – non sia mai: questa è bassa e umana – ma per mezzo della contemplazione proveniente dalla regola di vita conforme all’isichia. Poiché per mezzo suo ci sciogliamo dalle cose di quaggiù e ci rivolgiamo a Dio e, preservando giorno e notte in preghiere e suppliche (cf. Lc 2, 37; Rm 12, 12) – come in una stanza superiore (cf. At 1, 13s. e par.) – tocchiamo in qualche modo quell’intangibile e beata Natura. E così, mescolandosi ineffabilmente con loro la luce che trascende percezione e intelletto, quelli che hanno il cuore purificato dalla sacra isichia contemplano Dio in se stessi come in uno specchio. Dimostrazione sintetica di essa, ultimissima e più di tutto capace di unire a Dio chi se ne serve, è questa Vergine che nell’isichia è vissuta fin dalla più tenera età. Sola, per così dire, infatti fra tutte, poiché fin da quando era così piccola ha soprannaturalmente vissuto nell’isichia, sola fra tutte ha portato in seno, senza conoscere uomo, il Verbo Dio e uomo» (Om. 53, 33, Οικονόμος, p. 170s.). È evidente l’ambito palamita in cui Cabasilas si muove, pur, se si vuole, in una maggiore sobrietà e in un minore estro. È pure molto significativo il fatto che l’associazione qui evidenzia fra isichia e filosofia si trovi già del tutto esplicita nel primo volume della Filocalia, in Esichio – non quello di Gerusalemme –, autore da collocarsi fra l’VIII e il X secolo. Egli dice infatti a chi desidera essere veramente monaco: «115. (…) Persegui con tutte le forze la virtù dell’attenzione che è custodia dell’intelletto, sorveglianza e perfezione, nel cuore, della dolce isichia, beato stato dell’anima senza fantasia. Cosa che non si trova in molti. 116. È questa infatti che si dice filosofia spirituale» (A Teodulo, p. 252). Poco oltre l’autore ritorna sulla stessa associazione di idee: «128. Colui che segue e ricerca ogni giorno la pace e l’isichia dell’intelletto, facilmente disprezzerà ogni realtà sensibile per non faticare invano (cf. Gal 4, 11 e par.). 131. (…) E l’intelletto godrà intensamente nella luce del Signore presentandosi al mattino libero dai pensieri. E procederà dalla potenza della filosofia pratica…» (ibidem, p. 225). Ancora una volta ci troviamo di fronte alla coerenza e alla centralità dei nostri autori bizantini rispetto alla tradizione. Ritornando all’omelia del Palamas, è interessante come, pur indulgendo a leziosaggini in conformità alla leggenda, ne ricavi però una forte indicazione teologica: Maria, vivendo per Dio solo fin dall’infanzia, è stata la prima esicasta, cioè ha mostrato cosa sia la vita di chi sta solo al cospetto di Dio, già oltre le cose visibili. Cabasilas dal canto suo, dedicando a questo ben tre paragrafi – si potrebbe dire che ha inserito un’altra piccola omelia – della sua più lunga omelia mariana, tutta incentrata sul ministero della economia, vuol dare evidentemente all’aspetto della vita consacrata solo per il Signore un posto privilegiato.
[57] Il testo di Lc 10, 42 dice in realtà la parte buona in assoluto, non la migliore, come se non si desse neanche possibilità di confronto.
[58] Si tratta probabilmente del coro degli angeli.
[59] Modo semitico di esprimere il superlativo, per dire “santissima”, ma nello stesso tempo evoca il centro del santuario antico, il luogo della presenza divina (cf. 2 Cr 3, 8 e par.).
[60] Troviamo lo stesso pensiero: «È vero che la Scrittura nomina molti giusti e amici di Dio prima della venuta di colui che giustifica e riconcilia, ma bisogna pensare che essi furono giusti in rapporto al loro tempo e preparandosi al futuro. Erano pronti a correre incontro alla giustizia quando si fosse levata, a sciogliersi dai lacci una volta pagato il riscatto, a vedere non appena fosse apparsa la luce, ad allontanarsi dalle figure quando si fosse rivelata la verità»: La Vita in Cristo I, 4, p. 82 (508d).
[61] Anche qui il solito luogo, anche iconografico: si confronti la Vergine Πλατυτέρα e i punti in cui è presentato il testo biblico di 3 Re 8, 27.
[62] Il Νέλλας sottolinea la costanza del Cabasilas nel leggere questo luogo di Paolo agli Efesini in rapporto a Maria. Del resto lei è l’icona della Chiesa, di cui in quel tratto l’Apostolo parla [v. nota 18].
[63] Il Νέλλας dice in nota che «il Cabasilas considera qui senza alcun commento la conoscenza di Dio, della quale ha parlato più sopra, come progresso ontologico per gli angeli e la identifica con la beatitudine» (nota 76, p. 204). Anche noi più sopra abbiamo considerato, sulla scorta del pensiero di Cabasilas, qualche spunto riguardante una visione teologica della dinamica dei beati in Paradiso: v. nota 39, p. 127. I nostri autori, cioè Cabasilas e Palamas, vedono gli angeli per certi aspetti inferiori, per altri superiori agli uomini. Il Palamas scriveva: «Lo splendore del nostro Dio è su di noi (Sal 89, 17). “Infatti le anime portatrici dello Spirito – secondo il grande Basilio – sono rese splendenti dallo Spirito, sono fatte esse stesse spirituali ed inviano la grazia ad altri. Di qui viene la prescienza delle cose future, l’intelligenza dei misteri, la comprensione delle cose nascoste, la distribuzione dei carismi, la cittadinanza celeste (Fil 3, 20), la danza con gli angeli, la gioia senza fine, la dimora di Dio, la somiglianza a Dio e il culmine dei desideri: divenire Dio” (Basilio Magno, Lo Spirito Santo, 23 [in: Basilio di Cesarea, Opere ascetiche, a cura di U. Neri e M.B. Artioli, Torino 1980 – De Spiritu Sancto: PG 32, 68-217. Ed it.: Lo Spirito Santo, a cura di G. Azzali B. (= Collana di testi patristici 106), Roma 1993]). Per questa grazia, per lo splendore e l’unione con Dio gli angeli sono superiori agli uomini. Perciò le potenze intellettuali e gli spiriti incaricati di un ministero (Eb 1, 14) sono anche splendori secondari, ministri dello splendore supremo e luci secondarie, raggi della prima luce, prima natura luminosa, dopo la prima, per il fatto di risplendere da essa. E così l’angelo è seconda luce, emanazione e partecipazione della prima luce, e i divini intelletti muovendosi circolarmente si uniscono alle illuminazioni senza principio e senza fine del Bello e del Bene (Dionigi Areopagita, Nomi divini IV, 8 [in: Dionigi Areopagita, De divinis nominibus: PG 3, 585-984. Ed. it.: Nomi divini, in Tutte le opere, a cura di P. Scazzoso – E. Bellini, Milano 19832, 245-397])»: G. Palamas, Centocinquanta capitoli [in: Gregorio Palamas, Centocinquanta capitoli naturali, teologici, etici e pratici, a cura di M.B. Artioli e M.F.T. Lovato, in La Filocalia, IV, Torino 1987, 66-138], 76-77, in Filocalia, IV, p. 102s.
[64] Ancora il Palamas può riprendere e arricchire il pensiero del suo compagno: «La Madre di Dio poi, quanto più è vicina a Dio di quelli che gli sono vicini, così è stata fatta degna di privilegi più grandi rispetto a tutti gli altri: non soltanto gli uomini, dico, ma anche tutte le stesse gerarchie angeliche. Del loro ordine eccelso infatti Isaia scrive: E i serafini stavano intorno a lui (Is 6, 2); mentre di lei Davide scrive: Sta la regina alla tua destra (Sal 44, 10). Vedete la differenza della posizione? Da essa potete comprendere anche la differenza del loro ordine secondo la dignità: mentre infatti i serafini si trovano intorno a Dio, la regina dell’universo invece è la sola ad essere prossima a lui. Lei poi è da Dio stesso onorata e lodata, quando la proclama simile alle schiere che lo circondano e dice di lei, secondo quanto è detto nel Cantico dei Cantici: Quanto sei bella, mia prossima! (Ct 1, 15 e par.). Più luminosa della luce, più fiorita dei divini paradisi, più adorna di tutto il mondo visibile e invisibile»: Om. XXXVII, 469bc.
[65] Per il verbo biblicamente significativo, μετατίθημι [= trasferire], v. sotto, nota.
[66] Conviene, sulla scorta del Νέλλας, riportare l’inizio dell’opera La Vita in Cristo: «La vita in Cristo prende inizio e si sviluppa nell’esistenza presente, ma sarà perfetta soltanto in quella futura, quando giungeremo a quel giorno (Mt 26, 29 e par.); l’esistenza presente non può stabilire perfettamente la vita in Cristo nell’anima dell’uomo; ma nemmeno lo può quella futura, se non incomincia qui. Durante la vita terrestre fa ombra l’elemento carnale, da cui derivano nebbia e corruzione impotente a ereditare l’incorruttibilità…»: I, 1, p. 59 (493b).
[67] Ancora l’intrecciarsi dei misteri, già tutti compresi in nuce nel prodigio dell’incarnazione: «E il Re non aveva niente da lamentarsi della reggia. Lei non solo gli offrì da abitare regalmente e in modo degno della Sua grandezza, ma da sé gli preparò la stessa porpora regale e la cintura e lo splendore come dice Davide (Sal 92, 1), e la potenza e il regno stesso»; «Se la Beata non fosse stata preparata… Dio non avrebbe potuto guardare benevolmente l’uomo e risolversi a discendere, perché non c’era chi l’avrebbe accolto e avrebbe potuto essere ministro della dispensazione della salvezza (economia)»: Om. II, 3-4, p. 102ss.
[68] Termine accennato sopra; ma sopratutto termine biblico usato per il trasferimento di Enoch (Gen 5, 24); di lui è scritto che piacque al Signore, e fu trasferito, esempio di penitenza (μετανοίας) per tutte le generazioni (Eccli 44, 16). In Eccli 49, 14 di lui è scritto che fu assunto (cf. Eccli 48, 9 per Elia).
[69] A parte il valore di mutamento dato dal verbo μετατίθημι, che ha dettato la traduzione “altra vita” [qui: “vita”], forse l’autore voleva dire solo la Vita simpliciter, per eccellenza, l’unica vera Vita.
[70] Queste omelie tornano più volte sulla novità di vita di Maria, quanto a tutto ciò che l’aveva preceduta, vita sapiente resa però da lei in una certa misura accessibile a tutti con la novità della grazia: v. nota 54 e 56.
[71] Nella sua totale partecipazione alla vicenda (o: economia) del Figlio, ancora una volta una frase biblica riferita a lui viene applicata tout court a lei.
[72] Cf. Pr 8, 27, parallelo molto suggestivo: Quando stabiliva il cielo, ero presente accanto a lui. Qui si parla della Sapienza increata, ma le Chiese hanno più volte fatto una certa analogia per applicare alla Madre di Dio questo ed altri testi paralleli dei Libri sapienziali. Così troviamo una presenza di Maria alla creazione, come questi testi potrebbero insinuare, ed anche, come Cabasilas chiaramente afferma, alla nuova creazione.
[73] È la famosa παρρησία. Si noti anche che in queste frasi susseguentisi, di cui è soggetto il Figlio, il soggetto è sottinteso, come pure è stato più volte notato.
[74] Siamo ancora in ambito di παρρησία: si attribuisce a Maria quello che poco sopra era attribuito allo Spirito Santo.
[75] Questo dovere non significa una costrizione, ma l’intima necessità di obbedire alla volontà del Padre fino alle ultime conseguenze della consegna. La forma impersonale δεί percorre tutto il Vangelo, tutto il cammino del Signore verso Gerusalemme.
[76] È straordinaria la coerenza di pensiero del mondo bizantino, anche a distanza di secoli e di luoghi. Questi autori che andiamo citando si corrispondono in modo mirabile: «L’angelo della gioia incomincia a parlare con un annuncio di gioia. Sapevo bene… che a tutti… il suo annunzio avrebbe procurato gioia (…). Perciò egli pone come esordio della sua buona novella la gioia, perciò inizia i suoi discorsi con parole di gioia, perciò va innanzi a questa buona novella la gioia: sarà la gioia di tutti i fedeli… l’angelo prima di ogni cosa proclama la gioia… gioia per tutto il mondo. (…) Quale gioia, qual diletto non è vinto dall’annunzio alla beata Vergine e alla madre della gioia? Gioisci, o genitrice della gioia celeste; gioisci, o nutrice della gioia più alta; gioisci, o sorgente della gioia salvifica; gioisci, o autrice della gioia immortale; gioisci, o mistica dimora della gioia ineffabile…»: Sofronio, Om. II [in: Sofronio di Gerusalemme, Oratio in sanctissimae Dei Genitricis: PG 87, 3217, 3288], 17-18, p. 87 (3236d-3237b).
[77] È quella necessità biblica, assoluta, che abbiamo sottolineato poco sopra e che accomuna Madre e Figlio in un’unica obbedienza.
[78] Abbiamo già accennato alla centralità di Maria nell’icona che rappresenta l’ascensione del Figlio [«Torre intrecciata d’oro e città dalle dodici mura, trono che stilli il Sole, seggio del Re, incomprensibile prodigio! Come dunque allatti il Sovrano?» (Grande Paraklisi, Exapostilarion). I tre tropari dello stesso tono che precedono questo interamente citato celebrano, uno l’accorrere degli Apostoli al Getsemani (v. Icona La Dormizione), l’altro chiama Maria dolcezza degli angeli e gioia dei tribolati, il terzo proclama la sua mediazione e ancora ricorda sia il mondo umano che quello angelico. Lei è al centro degli uni e degli altri, come la rappresenta anche l’icona dell’ascensione del Signore, che dà alla Madre sua, in questa posizione centrale, un grandissimo rilievo]. La sua figura è in linea diretta, a filo piombo, con quella del Figlio, al centro della scena. La sua grandezza viene sottolineata in modo fortissimo, gli apostoli si stringono a lei, ma sono quasi trattenuti da due angeli, così che lei, per questo motivo e nella sua corrispondenza alla scena celeste, appare veramente, come dice l’Inno Akathisto più volte citato: Gioisci, tu che fai risplendere l’immagine della risurrezione – gioisci, rivelatrice della vita angelica (XIII). […] Gioisci, altezza inaccessibile alle umane menti; gioisci, profondità imperscrutabile agli occhi degli angeli; (…) gioisci, tu che fai risplendere l’immagine della risurrezione; gioisci, rivelatrice della vita angelica (passim).
[79] Questo si ricava senz’altro dagli stessi Atti degli Apostoli, quando dicono, dopo l’ascensione del Signore, che tutti erano preservati con un’anima sola nella preghiera, con le donne e Maria la madre di Gesù e i suoi fratelli (1, 14). Il magistero della Madre di Dio presso gli apostoli, è un motivo molto sviluppato negli apocrifi e nell’iconografia.
[80] A questo punto, poco oltre la metà del paragrafo, ritorna la parolina greca iniziale έδει, bisognava, era necessario. È ripetuta due righe più sotto. Così il paragrafo è scandito dall’obbedienza di Maria alla necessità superiore del piano di Dio.
[81] [λύεται; il Νέλλας traduce: χωρίζεται, si separa (n.d.TC)] Presente storico che stacca in mezzo ai tempi passati, per fermare l’attenzione sulla protagonista dell’evento. Troviamo la stessa cosa tante volte nella Bibbia dei LXX, con notevoli effetti. Ad es. per il trasporto dell’arca in 2 Re 6, 17: la scena è tutta descritta al passato, per quanto precede e per quello che segue; al centro, un presente improvviso ed efficace: E portano l’arca del Signore.
[82] Tema comune agli autori bizantini, come ha mostrato il Νέλλας in un’ampia nota al termine del suo volume (96, pp. 215-217); fra gli autori che si possono aggiungere, abbiamo già citato Germano di Costantinopoli, v. nota 51.
[83] Abbiamo già accennato, nella nota citata qui sopra, che Cabasilas in questa Om. III si distingue, rispetto alla stragrande maggioranza degli autori bizantini, per una particolare sobrietà nel rifarsi ai testi apocrifi. Tanti altri invece, da Modesto di Gerusalemme a Giovanni Damasceno, da Germano di Costantinopoli ad Andrea di Creta, sviluppano i motivi del raduno degli angeli e degli apostoli, della tomba vuota e così via. Si può aggiungere qualcosa al commento sull’icona [la Dormizione]: I gloriosi apostoli, spuntati come tralci da lei, vite vera (Gv 15, 1), «si erano estesi fino ai confini della terra (Rm 10, 18 [Sal 18, 5] e par.) e avevano riempito tutto il mondo abitato col frutto lodevole della pietà e dei loro prodigi. (…) O beatissima dormizione della gloriosissima Madre di Dio, per la quale dall’alto discendono angeli ed arcangeli, e dai confini della terra (Mt 12, 42 e par.) giungono i divini apostoli, nel modo che sa Dio solo, che li ha messi a parte del mistero e li ha radunati alla sacratissima celebrazione della dormizione di sua Madre, genitrice di Dio, compiendo in questo il precetto mosaico stabilito da Lui in antico: onorare i genitori (Es 20, 12), poiché per natura è munifico e più che buono il nostro Sovrano»: Encomium in B. V. VII, 3296bc. Questo per l’accorrere di angeli ed apostoli. Sul motivo della tomba, possiamo vedere alcuni sviluppi in Andrea di Creta, vescovo e poeta dell’VIII secolo: «Quale tomba ti coprirà, quale terra riceverà te, che con la tua santità ti elevi al di sopra del cielo e della natura del cielo? (…) Quali mani ti introdurranno nella tomba?». Questo testo riecheggia sapientemente, assimilando ancora una volta la Madre al Figlio, i canti bizantini del Venerdì santo messi in bocca a Giuseppe di Arimatea quando doveva seppellire il Signore e non osava toccarlo: «Come potrò seppellirti, o Dio mio? Come potrò avvolgerti nella sindone? Con quali mani toccherò il tuo corpo immacolato? Con quali canti celebrerò il tuo esodo, o Misericordioso?» (Liturgia Orientale, II [in: Liturgia Orientale della Settimana Santa, a cura di M. Gallo, 2v., Roma 1978], p. 111 e passim). Riprendendo Andrea di Creta: «Quali braccia porteranno te, che hai portato colui che non può essere contenuto? (3 Re 8, 27). O terra, applaudisci, acclama, narra le glorie della Vergine, le fasce del parto, i miracoli della tomba! Come ella fu seppellita e come fu trasferita: come la tomba, venerata, apparve vuota. (…) O Getsemani, accogli la nuova regina, prepara la tomba! Esponi gli arredi funebri, adorma il loculo con unguenti odorosi!» Questo preparare e adornare si ritrova in antichi pezzi del repertorio gregoriano del 2 febbraio, solennità della Presentazione al tempio del Signore, che ha certamente attinto spunti dalla liturgia bizantina della stessa festa o anche, per l’intreccio dei misteri, dalla celebrazione di altre festività. E, concludendo con Andrea di Creta: «Prendi, o Maria, prendi il timpano e precedi le vergini! (Es 15, 1) Danza…! (…) Danzino in giro intorno alla tomba! Ecco infatti la nuova arca della gloria di Dio, nella quale è l’urna tutta d’oro, e la verga di Aronne che era fiorita, e le tavole dell’alleanza (Eb 9, 4)»: Om. mar. VIII [in: Andrea di Creta, Orationes I.V: PG 97, 805-914; XII-XIII: PG 97, 1245-1090. Ed. it.: Omelie mariane, a cura di V. Fazzo (= Collana di testi patristici 63), Roma 1987], pp. 179-184 passim (1100b-1105a).
[84] Si noti quel mia, che personalizza così tanto il discorso sul rapporto intimo col Signore e la sua Madre.
[85] Cf. Lc 22, 20: Si noti il linguaggio sacramentale, battesimale ed eucaristico.
[86] In tutte le omelie che abbiamo citato, il discorso sfocia a un certo punto nella lode, o alla conclusione, come qui e nell’Omelia XXXVII di Palamas, o molto prima, quasi per un bisogno irrefrenabile di esplodere nella esclamazione esaltante e magnificante, così che molte volte ci troviamo di fronte, più che a delle omelie, a degli inni. Si tratta di qualcosa del genere per l’omelia più volte ricordata di Modesto di Gerusalemme, che continua come a dimostrarsi incapace di proseguire il discorso senza inneggiare direttamente a lei. Questo tono di grande preghiera anima anche i pezzi che potremmo chiamare, per così dire, più narrativi, tra i quali può esser bello, alla fine di questo commento, riportarne uno molto significativo: «Oggi si è addormentata colei che sulle sue braccia dava riposo alla Delizia dei cherubini e dei serafini e di tutte le schiere celesti, Riposo loro e di tutto il mondo, nel quale, in quanto Figlio di Dio, riposa anche lo Spirito Santo e vivificante che procede dal Padre. È veramente il Riposo, lui che dice nei Vangeli: Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo (Mt 11, 28)»: 3308bc.
[87] Oltre a tutte le risonanze bibliche di queste righe, la ricerca di una lode più continua e migliore può suggerire il ricordo di alcune formule usate nei salmi, come questa: narrare le lodi, annunciare le lodi (cf. Sal 9, 15; 50, 17; 72, 28 e par.). Sembrerebbe un’espressione contraddittoria, si direbbe che si può lodare solo ciò che si è già annunciato e raccontato. Invece no: le meraviglie di Dio e della Madre sua sono tali, che nell’atto stesso di menzionarle vengono magnificate per la loro grandezza, così che annuncio e lode coincidono.

* * *


I DEFUNTI SONO SANTIFICATI COME I VIVI DAI DONI DELL’ALTARE

san Nicolas Cabasilas
        Questo divino e sacro rito (la Divina Liturgia) risulta doppiamente santificante. In primo luogo per l’intercessione. Infatti i doni offerti, per il solo fatto di essere offerti, santificano coloro che li offrono e coloro per i quali sono offerti e rendono misericordioso Dio nei loro riguardi. In secondo luogo santificano per mezzo della Comunione, poiché sono un vero cibo ed una vera bevanda, secondo la parola del Signore.
        Di queste due maniere la prima è comune ai vivi ed ai morti, poiché il sacrificio si offre per entrambe le categorie. Il secondo modo vale per i soli vivi, poiché i morti non possono né mangiare né bere. Che dunque? Per questa ragione i defunti non beneficeranno di questa santificazione e sono meno avvantaggiati dei vivi? Per nulla. Poiché il Cristo si comunica a loro nel modo che egli sa.
        Ed affinché sia chiaro, consideriamo le cause di questa santificazione per vedere se anche le anime dei defunti non lo abbiano come quelle dei viventi. Quali sono le cause della santificazione? Forse l’avere un corpo, il correre con i piedi per giungere all’altare, il prendere con le mani i santi doni, il riceverli con la bocca, il mangiare ed il bere? Niente affatto. Molti infatti che li ricevono e che così si accostano ai misteri non ricavano alcun beneficio e si allontanano colpevoli d’infiniti mali.
        Ma quali sono le cause della santificazione per quelli che sono santificati? E quali sono le condizioni che il Cristo richiede da noi? La purezza dell’anima, l’amore verso Dio, la fede, il desiderio del sacramento, l’ardore per la comunione, uno slancio ardente ed il correre ad essa assetati. Queste sono le cause da cui deriva questa santificazione e con le quali è necessario che coloro che al Cristo si accostano partecipino di lui e senza le quali è impossibile la santificazione. Ma tutte queste cause non sono corporali, ma dipendono dalla sola anima. Dunque nulla impedisce che le anime dei defunti le possano possedere come quelle dei viventi. Se dunque le anime sono pronte e disposte a ricevere il santo mistero ed il Signore, che santifica e consacra, vuole sempre consacrare e desidera ogni volta offrirsi in comunione, che cosa impedisce la partecipazione? assolutamente nulla.
        Qualcuno potrebbe dire: se uno che vive ha nell’anima i beni che sono stati menzionati e non si accosta al santo mistero, riceverà non di meno la santificazione che proviene da esso? Non tutti, ma solo chi non può accostarsi con il corpo, come è il caso delle anime dei defunti. Tali sono anche coloro “che errano per i deserti, per i monti, che stanno nelle grotte e nelle caverne della terra” (Ebrei 11, 28), ai quali è impossibile vedere l’altare ed un sacerdote. A questi il Cristo invisibilmente procurava la santificazione. Da che risulta ciò? Dal fatto che avevano in se stessi la vita; se non l’avessero avuta, non avrebbero partecipato a questo mistero. Infatti il Cristo stesso dice: “Se non mangerete la carne del Figlio dell’Uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita!” (Giovanni 6, 53). E per dimostrare ciò mandò a molti di questi santi gli angeli che portavano i santi doni.
        Se qualcuno, pur potendolo, non si accosta all’altare, a costui non è possibile ricevere la santificazione che deriva dai santi misteri, non solo perché non si è accostato, ma perché non l’ha fatto pur potendo. Perciò è evidente che ha l’anima priva delle qualità necessarie per accostarsi ai Santi misteri. Qual è, infatti, l’impulso ed il desiderio dell’altare da parte di colui che può facilmente accostarsi ad esso e non lo vuole? Che fede in Dio c’è in colui che non teme la minaccia presente nelle parole del Signore, ed in quelli che disprezzano questo banchetto? Come si potrebbe credere all’amore di colui che, sebbene lo possa, non lo riceve?
        Perciò non c’è nulla di strano se le anime che sono prive del corpo e che non si possono accusare di tale malvagità, il Cristo rende partecipi dell’altare. Infatti è strano e soprannaturale se un uomo che vive nella corruzione possa nutrirsi d’un corpo puro, ma che cosa c’è di sorprendente se un’anima per natura immortale partecipa ad un alimento immortale nel modo che le è proprio? E se poi Dio nel suo indicibile amore per gli uomini e nella sua misteriosa sapienza ha trovato il modo di realizzare questo primo fatto strano e soprannaturale, come non si crederà che compia il secondo che è verosimile e conseguente?

Da “Spiegazione della Divina Liturgia”, cap. XLII; trad. A. S.