venerdì 17 giugno 2011

Commenti al Pater: Martini.

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Premessa


Il volume che presento raccoglie i testi delle meditazioni che il Cardinal Martini ha tenuto a un gruppo di sacerdoti durante un corso di esercizi spirituali "con il Padre Nostro".
Queste pagine non si offrono quindi come un commento del Padre Nostro, in chiave esegetica o spirituale. Esse intendono piuttosto accompagnare il lettore in un cammino che, a tappe successive, lo introduca a scoprire gli inesauribili tesori di una preghiera che ben a ragione è stata definita (come si legge nell'Introduzione) breviarium totius Evangelii: «Il Padre Nostro riserva sempre delle sorprese, è sempre nuovo, polivalente, e spesso non arriviamo a coglierne tutte le ricchezze».
Lo stile è semplice e sobrio. A tratti però la commozione del cuore rende la parola significativamente vibrante.
Per esempio dove si parla del Regno, «una realtà che è compresa da chi la vive», che «viene vissuta giorno dopo giorno seguendo Gesù», che «chiediamo intuendo più che ragionando, più desiderando col profondo del cuore che avendo davanti agli occhi una immagine precisa» (risentiamo l'eco delle parole di sant'Agostino nella Lettera a Proba: «Il dovere della preghiera si adempie meglio coi gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi»).
O dove si rivela l'anelito al compiersi definitivo del Regno nella pienezza dei «cieli»: «Se il Regno di Dio è la Gerusalemme celeste che inizia... la nostra domanda è che l'insieme della terra faccia risplendere la pace e la luce della dimora di Dio»; «Siamo appesantiti, affaticati, talora oppressi dal cumulo di ingiustizie che ci circondano e delle quali, volere o no, siamo parte», ma «affermiamo che esiste una situazione dove non c'è più ingiustizia, né lacrime... e tutto è chiarezza, bellezza, purità».
Mi pare che passi come questi, e altri che lascio al lettore di scoprire, diano alle meditazioni il sapore della testimonianza. Può parlare così solo chi ha dedicato e dedica la propria vita al compiersi del Regno, nella sequela amante e perseverante di Gesù; solo chi ha vissuto e vive la com-passione e la solidarietà col male e le sofferenze del mondo, tenendo lo sguardo fisso agli orizzonti eterni che aprono alla speranza. E per questo valore di testimonianza ogni parola risulta nuova e stimolante.
In una storia come quella in cui siamo immersi abbiamo più che mai bisogno di testimoni che con accenti credibili e persuasivi ci parlino di speranza, di solidarietà, di pace. Buona lettura!



***


Introduzione

Anzitutto desidero ringraziare il Signore che ancora una volta mi permette di tenere un corso di esercizi spirituali.
È infatti per me un dono grande incontrare ciascuno di voi, incontrare i vostri cammini spirituali e camminare un poco insieme con voi. Ogni volta che do gli esercizi mi viene in mente la parola di Paolo all' inizio della lettera ai Romani, là dove dice: «Ho infatti un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1,11-12).
Questo comune cammino di fede è un aiuto anche per me.
È utile richiamare, all'inizio di una nuova esperienza, che cosa sono gli esercizi spirituali. Spesso infatti si chiamano esercizi le settimane bibliche, gli aggiornamenti catechetici, le riflessioni ascetiche, le esercitazioni di preghiera.
Cose ottime che è molto utile fare e che si usano anche negli esercizi propriamente detti. Ma ciò che ritengo il punto nodale è che gli esercizi sono un ministero dello Spirito, un mettersi in ascolto dello Spirito perché ci aiuti a conoscere la volontà di Dio nell'oggi, per abbracciarla e compierla con gioia e con fiducia. Lo Spirito infatti non lascia immobili, fa sempre danzare e ci scioglie dai nostri movimenti rigidi.
Occorre dunque creare le condizioni ottimali perché, nell'apertura allo Spirito, la Parola dica a me e a me soltanto ciò che vuole da me adesso, quest'anno, con questa salute, queste relazioni, questi superiori, queste difficoltà e malumori, con queste temperie spirituali, sociali e politiche.
Possiamo quindi parlare anche di ministero dell'immediatezza.
Come spiega molto bene il teologo Karl Rahner, Dio opera immediatamente in me e parla al mio cuore, cerca il contatto immediato con l'anima di ciascuno, per chiedere a ciascuno una cosa che non chiederà a nessun altro.
Nel desiderio di aiutarvi ad entrare in questi giorni con le giuste disposizioni, vi suggerisco di rispondere, magari per iscritto, a due domande.
La prima: come arrivo agli esercizi? Ogni anno ci arriviamo in maniera diversa: una volta stanchi, forse disgustati, turbati, con ripugnanza; un' altra volta siamo disposti a farli volentieri; o ancora ci ritroviamo pieni di distrazioni, di amarezze, di preoccupazioni, di risentimenti; oppure iniziamo gli esercizi col desiderio di mettere a fuoco un tema particolare che ci pesa. È molto utile prendere coscienza del proprio stato d'animo.
La seconda domanda è: come vorrei uscire dagli esercizi? Che cosa vorrei soprattutto chiedere come grazia per uscirne contento?
In questi giorni potremo anche reciprocamente edificarci vivendo qualche momento di comunicazione nella fede, durante il quale chi lo vuole potrà esprimere con semplicità ciò che, in quello che ha ascoltato e meditato, lo ha maggiormente colpito e può aiutare anche altri.
Ciascuno potrà pure comunicare personalmente con me, in un colloquio o mettendo per iscritto un pensiero, un suggerimento, una domanda, una riflessione.
Da parte mia il lavoro è molto semplice: vi suggerirò qualche pagina della parola di Dio, dei pensieri biblici, non perché siano il tema degli esercizi (che è appunto la ricerca di obbedienza allo Spirito santo), bensì quale sfondo. E questa volta sono stato ispirato a scegliere come sfondo biblico il Padre Nostro.
Verrebbe spontaneo dire: ma lo conosciamo a memoria, l'abbiamo recitato infinite volte! È vero, tuttavia riserva sempre delle sorprese, è ogni volta nuovo, misterioso, polivalente, e spesso non arriviamo a coglierne tutte le ricchezze. Possiamo pure considerare il Padre Nostro una sintesi del Vangelo.
N on a caso Tertulliano lo chiamava breviarium totius Evangelii. È una definizione che mi attrae e che il mio grande e indimenticabile padre spirituale Michel Ledrus*, defunto ormai da molti anni, dava come titolo a un suo piccolo libretto: Il Padre Nostro preghiera evangelica. È una preghiera che riassume infatti tutto il Vangelo; e, se lo comprendiamo bene, ci accorgeremo che il Padre Nostro poteva dirlo soltanto Gesù e solo lui poteva insegnarlo. Perché c'è una corrispondenza, una omologia perfetta tra Padre Nostro, insegnamento evangelico, vita di Gesù Figlio di Dio morto e risorto per noi.
Esporrò brevemente alcuni temi di riflessione sul Padre Nostro, supponendo l'esegesi che è propria dei libri scientifici. La collezione dei commenti americani su questa preghiera, dal titolo Ermenèia, dedica cento pagine fittissime al testo, con decine di pagine di bibliografia. Noi non facciamo esegesi in questa sede, ma dobbiamo comunque tenere presente che sul Padre Nostro ci sarebbe materia per un anno intero di corso.
Vengono alla mente a questo punto le testimonianze che della loro esperienza ci hanno lasciato i santi. Penso per esempio alle vibranti esclamazioni con cui santa Teresa d'Avila, nel suo Cammino di perfezione, introduce il commento alle prime parole della preghiera: «"Padre Nostro che sei nei cie1i!"... Il nostro intelletto dovrebbe andarne così rapito e la nostra volontà così compenetrata da non essere più capaci di pronunciare parola... Come converrebbe che qui l'anima si raccogliesse per elevarsi al di sopra di sé ad ascoltare ciò che le insegna questo Figlio benedetto intorno al luogo dove abita suo Padre, quando dice che è "nei cieli"!» (Cammino di perfezione 27, 1).
E ancora è bello ricordare ciò che diceva santa Teresa di Gesù Bambino, quando raccontava che cosa le suggeriva la preghiera di Gesù: «Qualche volta, quando il mio spirito è in una tale aridità che mi è impossibile tirar fuori un qualunque pensiero per unirmi al buon Dio, io recito molto lentamente un Padre Nostro e poi la salutazione angelica; allora queste preghiere mi rapiscono, nutrono la mia anima ben più che se le avessi recitate precipitosamente un centinaio di volte» (Manoscritto C, 318). Questo era per lei il Padre Nostro.
E la testimonianza di una consorella attesta: «La sua unione con Dio era continua. Pregava senza sosta. Un giorno la trovai nella sua celletta. Cuciva con grande velocità e tuttavia aveva l'aria così raccolta che gliene domandai la ragione. "lo recito il Pater", mi disse. "È così bello dire Padre Nostro", e alcune lacrime brillavano nei suoi occhi».
Questo è il nostro desiderio: penetrare nel cuore, nello spirito della preghiera insegnataci da Gesù.
Signore Gesù, tu ci vedi qui davanti a te col desiderio di pregare più intensamente in questi giorni. Ma come tante altre volte, noi ti rivolgiamo la domanda: Insegnaci a pregare!
L'esperienza della nostra vita ci mostra, anno dopo anno, che non sappiamo pregare, che abbiamo bisogno di imparare continuamente l'atteggiamento giusto della preghiera. Per questo ti chiediamo di donarci il tuo Spirito. Vorremmo che tu ci insegnassi a pregare come hai insegnato a sant'Ignazio di Loyola, a san Pietro, a san Paolo, a santa Teresa d'Avila, a santa Teresa di Lisieux, a tutti i tuoi santi. Vorremmo vivere il Padre Nostro come tu lo hai vissuto. Fa' che sentiamo il tuo sostegno,
il tuo conforto e che, con la tua grazia, possiamo perseverare in questi giorni nell'orazione.
Maria, Madre della pietà, Regina della preghiera, patrona della vita interiore, prega per noi.
* M. LEDRUS, Il Padre Nostro preghiera evangelica, Borla, 1981.

* * *


I contesti evangelici del Padre Nostro

La prima meditazione che vi propongo sarà piuttosto breve, direi introduttiva e anche un po' esegetica, formale, pur restando valido quanto abbiamo detto. La dividerò in tre parti.
Una prima parte di lectio, dove ci fermeremo sui versetti di Lc 11 e di Mt 6 riferiti al Padre Nostro. Poi una seconda parte di meditatio, in cui proporrò qualche riflessione sintetica sui contesti del Padre Nostro, sull' occasione in cui viene insegnato. Per concludere con una contemplatio nella quale vorrei mettere a fuoco quali atteggiamenti ci sono suggeriti per questi giorni dai brani evangelici.
Sappiamo che i vangeli in cui il Padre Nostro è riportato sono due. E c'è da stupirsi, perché vorremmo che fossero tre, vorremmo che pure in Marco ci fosse il Padre Nostro. Gli esegeti discutono se non l'ha riferito perché non lo conosceva oppure perché non era preoccupato di tramandare tutte le parole di Gesù.

Il Padre Nostro nel vangelo di Luca
Leggiamo anzitutto Lc 11. Il contesto in cui il Padre Nostro viene insegnato si situa durante il viaggio di Gesù a Gerusalemme che inizia in 9,51, quindi già abbastanza avanti nella sua biografia. Ricordiamo che a Gerusalemme c'è una tradizione, testimoniata dalla basilica del Pater noster, secondo cui la preghiera sarebbe stata insegnata là, sul monte degli Ulivi, verso la fine della vita di Gesù. In ogni caso, per Luca l'insegnamento del Padre Nostro è tardivo.
- «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare» (11, la). Questo è avvenuto molte volte nella vita di Gesù: per esempio la notte precedente la scelta dei dodici apostoli (cf Lc 6, 12); la notte seguente la moltiplicazione dei pani, sempre presso il lago («Salì sul monte, solo, a pregare» - Mt 14,23); la mattina dell'inizio del suo ministero a Cafarnao, quando si alza presto e va in un luogo appartato a pregare (<<Al mattino si alzò quando era ancora buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava» - Mc 1,35); al Getsemani, sul Tabor e in altre circostanze ancora.
- E proprio in una di queste occasioni, «quando ebbe finito» - nessuno ha voluto interromperlo, vedendolo molto raccolto e concentrato - «uno dei discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare"» (11, 1b).
È interessante che la domanda sia posta da uno dei discepoli, non da tutti e non da un discepolo qualificato come Pietro o Giacomo o Giovanni. Egli esprime il desiderio comune, che gli altri non osavano manifestare.
- E continua: «Come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (11,1c). Noi non sappiamo nulla della preghiera insegnata dal Battista ai suoi discepoli, ma è probabile che egli, come avveniva nella comunità di Qumran, desse indicazioni in proposito. Qui comunque si suppone che il Battista insegnava a pregare.
Non è facile capire che cosa il discepolo chiedeva veramente. Potremmo rivolgerci a lui e domandargli: spiegaci che cosa volevi. Volevi che Gesù ti insegnasse con quale contenuto bisogna pregare? Lo si dedurrebbe dalla risposta; e tuttavia ci stupisce, perché di contenuti gli Ebrei ne avevano già tanti, basti pensare all'immensa ricchezza dei salmi. Oppure la tua domanda era sul modo di pregare, quel modo che Gesù indica in Mt 6, 6: «Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto»? Era dunque sull' atteggiamento esteriore: in ginocchio, con gli occhi chiusi, in un luogo appartato? Oppure era sull'atteggiamento interiore, che sviluppa distesamente Luca quando raccomanda la perseveranza dell' orazione (11,5-8) e afferma: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete» (v. 9)?
Quale delle tre ipotesi interpreta la richiesta del discepolo? Probabilmente tutte e tre. In ogni caso Gesù prende la domanda come riferita al contenuto.
- «Ed egli disse loro: "Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, / venga il tuo Regno; / dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, / e perdonaci i nostri peccati, / perché anche noi perdoniamo ogni nostro debitore, / e non ci indurre in tentazione» (11,2-4).
L'istruzione viene poi prolungata nel riferimento all' atteggiamento interiore con cui pregare, piuttosto ampio mentre la preghiera è di per sé brevissima - tre versetti, cinque domande espresse in modo lapidario.
Cerchiamo di capire le parole di Gesù.
- Comincia da un esempio concreto: «Poi aggiunse: "Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti, e se quegli dall' interno gli risponde: Non m'importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzèrà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza"» (vv. 5-8). È un esempio concreto più lungo del Padre Nostro.
Gesù passa quindi all' esortazione diretta, triplice: «Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto» (vv. 9-10).
E ancora un esempio molto incisivo: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?» (vv. 11-12).
Infine la conclusione: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono!» (v. 13). È interessante che non sia ripresa nessuna delle domande del Padre Nostro, ma si parla dello Spirito santo. Forse per questo una variante di manoscritti molto antichi aggiunge, dopo la richiesta del pane quotidiano: «Il tuo Spirito santo venga su di noi e ci purifichi».
Gesù inizia da un contesto concreto, dalla sua preghiera, e risponde a una domanda, prima con un contenuto, poi esplicando a lungo gli atteggiamenti di perseveranza instancabile nell' orazione. Atteggiamenti di perseveranza che saranno ripresi anche altrove nel vangelo secondo Luca, come nella parabola del giudice iniquo e della vedova importuna: «Disse loro una parabola stilla necessità di pregare sempre, senza stancarsi: "C'era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un
certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, poiché questa vedova è così molesta le farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi. E il Signore soggiunse: Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?"»(18,1-8). È questo l'atteggiamento di cui Gesù sottolinea l'importanza.

Il Padre Nostro nel vangelo di Matteo
Il contesto matteano del Padre Nostro si colloca nel quadro del Discorso della montagna, che comprende i capitoli da 5 a 7 del vangelo.
Dopo le antitesi del c. 5, Gesù passa, nel c. 6, a descrivere tre atti di culto, di religione: elemosina, preghiera e digiuno. Di ciascuno insiste che non vanno compiuti per essere visti dagli uomini. In tale contesto, a proposito del secondo atto di culto, è inserito il Padre Nostro.
- Anche in questo caso la descrizione è assai ampia. Dapprima Gesù stigmatizza la preghiera per così dire dei religiosi ipocriti del suo popolo: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini». Segue il giudizio negativo: «In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa» (6,5); a dire: ciò che hanno fatto non serve a niente.
In un secondo momento sottolinea l'atteggia
, mento positivo: «Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (v. 6). È un'istruzione anzitutto sull' atteggiamento esteriore, e successivamente interiore, della preghiera: nel silenzio, nel raccoglimento, nel nascondimento.
- Riprende quindi l'esortazione riferendosi ai pagani: «Pregando, poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di essere ascoltati a forza di parole» (v. 7). Accenna probabilmente alle monotone invocazioni nei templi che venivano recitate all'infinito. Ricordo di aver visto in qualche rappresentazione o in qualche film, e anche visitando monasteri o templi orientali, la ruota della preghiera che viene girata ininterrottamente, così che l'invocazione sia sempre ripetuta davanti a Dio.
«Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (v. 8). Viene perciò criticata la preghiera che pretende di far conoscere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno. Notiamo che c'è una certa tensione rispetto al passo di Luca che affermava: insistete nella preghiera. Gesù ammonisce: non pensate che la vostra insistenza sia magica.
- Proprio in tale contesto insegna il Padre Nostra «Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli / sia santificato il tuo nome; / venga il tuo Regno; / sia fatta la tua volontà, / come in cielo così in terra. / Dacci oggi il nostro pane quotidiano, / e rimetti a noi i nostri debiti / come noi li rimettiamo ai nostri debitori, / e non ci indurre in tentazione, / ma liberaci dal male» (vv. 9-13). Preghiera più lunga di quella di Luca che comprende due domande più tre; in Matteo sono tre più tre e addirittura, secondo alcuni, se si calcola l'ultima sdoppiandola, sono tre più quattro cioè sette.
Gesù continua parafrasando la penultima richiesta: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (vv. 14-15).

Qualche osservazione esegetica
Passando al momento della meditatio, possiamo domandarci: quale dei due contesti è il più originario? Quale delle due formule la più antica?
- Gli esegeti ritengono - penso con buone ragioni- che il contesto lucano è il più antico: non siamo all'inizio dell'attività pubblica, in un primo discorso programmatico, ma forse già un po' avanti nel ministero. E si tratta di un' occasione concreta, la preghiera di Gesù, immersa nell' esperienza vissuta. In Matteo invece l'insegnamento sembra inserito all'interno di un discorso: «Non sprecate parole... ma dite così» (cf 6,7-9).
Riteniamo perciò più probabile il contesto di Luca, pur se la questione non disturba molto l'esegesi.
Anche sull' antichità della formula si è discusso: è più antica la formula breve o la formula lunga?
Oggi ci si accorda su una specie di compromesso: è più antica la formula breve di Luca, ma è più originaria la formula matteana; Matteo ha parole più arcaiche, Luca ha il contenuto più antico.
Noi useremo dell'una e dell'altra delle formule; mi è sembrato tuttavia utile introdurvi alla complessità della ricerca.
- Gli esegeti fanno inoltre notare che la preghiera in Luca è la terza di tre pericopi successive: la parabola del samaritano - la carità - (10, 29-37); il dialogo con Marta e Maria - l'ascolto della Parola - (10,38-42); la preghiera del Padre Nostro (11,1-4). Quasi a mettere in luce che carità, ascolto della Parola e preghiera sono inscindibili.
- Nel Padre Nostro di Matteo c'è poi una peculiarità interessante. Un' analisi attenta mostra infatti che il Padre Nostro sta esattamente al centro del Discorso della montagna.
È un insegnamento per noi, perché siamo ammoniti che il Discorso della montagna non lo vive se non chi prega.

Indicazioni per la preghiera
In conclusione, vi suggerisco qualche applicazione per la preghiera personale.
Tutti noi, come il discepolo inno minato, abbiamo detto tante volte: «Signore, insegnaci a pregare!». Che cosa chiedevamo?
- Penso che molta gente, quando pone tale domanda, non di rado desidera anzitutto raggiungere quell'unità interiore, quel raccoglimento, quel possesso di sé, quella gioia di tenersi bene in mano che è caratteristica di una preghiera profonda. Si tratta di atteggiamenti positivi e utili, ma siamo ancora nell' ambito di una preghiera psicologica, tesa a ottenere alcuni benefici: imparare a essere calmo, tranquillo, raccolto, pacificato, coordinato, senza una sarabanda di pensieri che mi frulla per la testa . Di fatto coloro che si dedicano alle pratiche yoga o zen imparano simili cose: il raccoglimento, il dimenticare tutto, l'astrarsi dal mondo esteriore, il concentrarsi su un unico punto, magari sul nulla, l'eliminare ogni pensiero per vivere nella calma più assoluta.
Forse noi pure abbiamo bisogno di tali atteggiamenti per pregare bene. Ci vuole un minimo di concentrazione e unità, proprio perché la preghiera è anche salute psicologica.
- Noi vogliamo tuttavia chiedere a Gesù di insegnarci a pregare nello Spirito, soprattutto di insegnarci la disposizione interiore e quali siano le richieste da presentare.
Spesso quando iniziò la preghiera apro il testo della lettera ai Romani, là dove si dice che nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare (cf 8,26a) e dico: Signore, vedi che non so pregare. Però tu hai promesso lo Spirito in aiuto alla mia debolezza e lo Spirito intercede per me «con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (8, 26b-27).
Quindi per me, per noi imparare a pregare vuol dire imparare ad affidarci allo Spirito che ci muove a recitare il Padre Nostro, fino a raggiungere quel bellissimo stato d'animo su cui ho meditato molte volte, in tanti momenti della mia vita: «Non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi» (Mt 10,19-20).
- Oltre a questa disposizione fondamentale di abbandono allo Spirito, per il cammino degli esercizi, vorrei suggerirne qualche altra che Gesù ha messo in luce.
Abbiamo visto che ne ha evidenziate soprattutto quattro: il nascondimento, la sobrietà delle parole, la perseveranza e la fiducia filiale.
Pregando davanti a Dio, ognuno può scegliere quale di questi atteggiamenti gli è più necessario.
Certamente è necessaria la fiducia filiale: il Padre non mi lascerà mancare il pane quotidiano quando glielo chiedo.
Altrettanto necessaria è la perseveranza: in questi giorni proveremo fatica, caldo, sonno, nervosismo, aridità. Donaci, Signore, di perseverare!
E naturalmente abbiamo bisogno del nascondimento, perché gli esercizi sono la preghiera nascosta per eccellenza, sconosciuta al mondo e conosciuta solo da Dio.
Abbiamo inoltre bisogno di una certa sobrietà, che consiste non tanto nel pregare poco, bensì nell'imparare una preghiera distesa, non nervosa, che non cerca di forzare Dio, ma si affida amabilmente a Lui.

* * *


«Padre Nostro che sei nei cieli»
Inizia così il volumetto già citato di p. Ledrus:
«Il Padre Nostro rappresenta il punto di convergenza di tutte le linee della dottrina evangelica. Ogni domanda rappresenta un mondo di considerazioni; dietro ognuna si possono allineare una quantità di testi del Nuovo e dell' Antico Testamento e scoprire quelle dimensioni essenziali che articolano tutto il messaggio evangelico. (...) Abbiamo quindi nella preghiera del Signore, un trattato completo di vita spirituale, sistemato dallo stesso Signore: non potremo mai approfondirlo a sufficienza» (op.cit., p. 8).
Personalmente mi sento molto impari di fronte anche solo al tentativo di delibare qualche significato della preghiera insegnata ci da Gesù. E perciò mi unisco a voi dicendo:
O Dio Padre nostro, noi ti conosciamo soltanto per ché il tuo Figlio Gesù ci ha fatto conoscere il tuo nome di Padre. Noi non sappiamo spiegare il suo senso pro fondo, ma tu ci doni di viverne l'esperienza giorno dopo giorno. Concedici, se vuoi, di viverla con la mente e non semplicemente col cuore, per entrare nel pensiero e nel cuore del tuo Figlio Gesù Cristo, che con te vive e regna nell'unità dello Spirito santo, per tutti i secoli dei secoli.

Padre Nostro e «Esercizi» ignaziani
Ci mettiamo dunque davanti al mistero del Padre Nostro. Naturalmente non intendo esporlo esegeticamente, come ho già detto; mi preme piuttosto focalizzarne qualche aspetto nello spirito degli Esercizi spirituali di sant'Ignazio, tenendo presente cioè la dinamica loro propria.
È una dinamica che procede per tappe, snodandosi in quattro settimane, e comprende alcuni momenti forti, che aiutano a capire che cosa significa seguire Gesù, in modo da compiere delle scelte secondo il Vangelo.
In tale spirito vogliamo riflettere sul Padre Nostro, cercando il significato delle singole parole, delle singole domande, e considerandolo nel quadro di un cammino di ricerca della volontà di Dio.
Perché gli esercizi - l'abbiamo ricordato - sono un ministero dello Spirito e permettono di cogliere ciò che il Signore chiede, suggerisce, ordina a ciascuno di noi.
Il libretto di sant'Ignazio comincia con una pagina chiamata Principio e fondamento, che vuole stabilire alcune coordinate lungo le quali procedere nella ricerca della volontà di Dio. Per Ignazio Principio e fondamento è la sovranità assoluta di Dio Creatore di ogni cosa a cui l'uomo è tenuto a rendere lode e servizio; e ognuno è chiamato a scegliere ciò che più lo mette nella linea del servizio di Dio Creatore e Signore. È questo in sintesi il Principio e fondamento degli Esercizi.
Ci domandiamo se anche nel Padre Nostro c'è un principio e fondamento e la risposta è certamente affermativa. Tutta la prima parte della preghiera costituisce il principio e fondamento di quella quotidianità della vita cristiana che è espressa nelle ultime quattro domande. Vorrei però dedicarmi soprattutto questa mattina, nello spirito del Principio e fondamento, a riflettere sulla prima invocazione «Padre nostro che sei nei cieli»; nel pomeriggio ci fermeremo sulle parole «sia santificato il tuo nome», così da porre le basi sulle quali proseguire il cammino di questi giorni.

Colui che Gesù chiama Padre
Il Padre Nostro comincia con la parola «Padre», il che non è usuale. Nessun salmo inizia così e se in alcune preghiere dei testi sacri ci si rivolge talora a Dio come Padre, un inizio così secco è unico, pur se Matteo lo allarga retoricamente dicendo, in maniera più solenne rispetto a Luca, «Padre nostro che sei nei cieli».
Noi cerchiamo di capire che cosa vuol dire l'appellativo «Padre»; cosa intendiamo invocandolo come «Padre nostro»; che cosa aggiungiamo dicendo «Padre nostro che sei nei cieli».
Mi propongo di fare una lectio per rispondere alle nostre interrogazioni e successivamente proporrò una meditatio per comprendere quali sentimenti e quali linee di preghiera ci sono suggeriti.
* La parola «Padre»
- Di per sé non è univoca, può avere tanti significati ed evocare molte emozioni, anche esistenziali, perché ciascuno rivive il proprio rapporto col padre naturale, che può essere ottimo, mediocre, scarso. È dunque un appellativo che tocca molti aspetti della nostra vita interiore e della nostra psiche.
In generale è una parola che ha molti significati. Padre è anzitutto chiaramente colui che dà la vita biologica, che ne è, insieme alla madre, l'iniziatore.
Padre è pure colui che educa alla vita ed educa magari in maniera forte. La Scrittura non ha paura di ricordare che il padre è anche colui che castiga. La lettera agli Ebrei ricorda che se accettiamo i castighi del padre terreno, non dobbiamo spaventarci se Dio Padre ci castiga, ci prova, perché è tipica del padre pure la funzione di educatore energico (cf 12,7-11).
Padre è inoltre colui che nutre, che deve procurare il sostentamento ai figli ed è colui che protegge, nelle cui braccia ci si ripara. Il bambino si butta nelle braccia del papà per cercare una difesa, chiude gli occhi mentre lo abbraccia per non vedere il pericolo. È quindi simbolo di rifugio, di conforto.
Il padre rappresenta inoltre la forza della tradizione. Quando noi lo nominiamo, pensiamo subito alle radici che costituiscono la nostra identità di persone.
Nell'invocazione «Padre» che Gesù ci mette sulle labbra sono presenti tutti questi significati.
- Tuttavia non è sufficiente perché, se fosse soltanto così, sarebbe un'invocazione adatta per tutti. Il mistero consiste invece nel fatto che, se è vero che il Padre Nostro può essere recitato un po' da chiunque - penso ad esempio agli Ebrei e a tutti coloro che ammettono un Dio personale -, è però altrettanto vero che è la preghiera insegnata ci da Gesù e ha quindi delle radici molto precise. Ne segnalo una particolarmente significativa: il Battesimo di Gesù.
Egli va al Giordano per essere battezzato da Giovanni. Questi vuole impedirglielo, ma Gesù insiste e Giovanni acconsente: «Appena battezzato, Gesù uscì dall' acqua; ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui. Ed ecco una voce dal cielo che disse: "Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto"» (Mt 3,16-17). Per dire «Padre» occorre perciò che qualcuno mi chiami «Figlio». «Padre» non è la prima parola, è la seconda.
La prima è quella di chi ci dice: «Figlio, figlio mio carissimo, figlio mio amatissimo».
Dunque, nel Padre Nostro, Padre è soprattutto Dio Padre di Gesù Cristo, è Colui che Gesù chiama Padre e da cui è chiamato Figlio, ed è fortemente presente in tutto il Discorso della montagna dove, prima del Padre Nostro che si trova al centro del Discorso, Gesù nomina otto volte il Padre e ancora lo nomina più volte in seguito.
Il Padre è il Padre di Gesù Cristo, e Gesù ce ne comunica la paternità, rendendo ci partecipi della propria figliolanza.
Lo afferma chiaramente san Paolo: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!" (Rm 8,15). Gesù ci dà il suo Spirito e nel suo Spirito possiamo dire "Padre", Padre di Gesù, Padre mio: "Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria"» (vv. 16-17).
Se pensiamo che la generazione del Figlio dal Padre è eterna, senza tempo, che oggi Dio Padre genera il suo Figlio, comprendiamo che in questo momento siamo generati come figli.
Essere figli del Padre è la nostra identità, è ciò che ci definisce nel nostro essere più profondo. Nel battesimo ha un punto di inizio, ma perdura in ogni momento della nostra esistenza: il Padre ci dice «figlio mio carissimo, figlio mio amatissimo», e noi rispondiamo con la parola «Padre».
Ecco il primo significato di questa parola, da cui poi tutti gli altri derivano: Padre nutritore, Padre educatore, Padre rifugio, Padre sostegno, Padre conforto, Padre anche che punisce e purifica, ma perché ci ha generato in Gesù.
Noi sentiamo perciò di partecipare intimamente a tutta la preghiera di Gesù, che ha questo contenuto fondamentale: «Padre, Padre mio». Percepiamo, visitando la Galilea e contemplando i monti dove lui ha pregato, che la nostra preghiera è una cosa sola con la sua (ho fatto i miei esercizi personali sul Padre Nostro nel mese di giugno sul monte Tabor e là pensavo: mi unisco a Gesù che qui pregava a lungo contemplando il Padre).
Una cosa sola anche nei momenti in cui diventa drammatica: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!» (Mt 26,39); «Di nuovo, allontanatosi, pregava dicendo: "Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà"» (v. 42); «Pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole» (v. 44).
Insegnandoci a dire «Padre», Gesù ci coinvolge nella sua determinazione di compiere la volontà del Padre.
E ancora ci assume in quell'atteggiamento che Luca descrive nella conclusione della Passione: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (23,34). In tanto riusciamo a perdonare in quanto partecipiamo ai sentimenti filiali di Gesù.
Soprattutto ci coinvolge nell'ultima parola da lui pronunciata, secondo la descrizione della Passione di Luca: «Gridando a gran voce, disse: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito"» (23,46). È il cammino che ci fa compiere mettendo ci in bocca la parola «Padre»: cammino di amore, di affidamento, di obbedienza, di perdono, di consegna della vita. Dicendo questa parola noi mettiamo in gioco la nostra vita e la nostra morte: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito».
La paternità di Dio, che ci viene donata nel battesimo, è, come dicevo, puntuale e insieme perenne, e noi la riattualizziamo ogni volta che entriamo in preghiera, sapendo che assume una forza particolare allorché prendiamo delle decisioni importanti. Il Signore in quel momento ci dà, come dice san Tommaso d'Aquino, un supplemento di Spirito santo, quindi una nuova prova della sua paternità. Nella nostra vita dobbiamo affrontare tante situazioni di questo tipo: per esempio quando uno assume una responsabilità nuova di parroco, o diviene vescovo o superiore di comunità; o quando nel segreto compiamo un gesto di perdono, di misericordia, di fede, di speranza. Allora la paternità di Dio si manifesta in maniera fortissima.
A concludere la riflessione, è bello ripetere le parole di Pietro e di Paolo, che avevano compreso intimamente il mistero della figliolanza di Gesù e nostra: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva» (1 Pt 1,3); e Paolo, all'inizio della seconda lettera ai Corinti: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» (1,3).
* Matteo all' appellativo «Padre» aggiunge «nostro», a sottolineare che è una preghiera collettiva, comune, recitata insieme.
Recitata in primo luogo dalla comunità dei figli di Dio, dei battezzati e - possiamo aggiungere - a nome di tutti i figli di Dio, quelli che Karl Rahner chiama «cristiani anonimi» perché, seguendo la propria coscienza, nella grazia dell' amore sono davvero figli, pur se non conoscono Gesù. Così invochiamo «Padre» con una moltitudine di persone sparse nel mondo.
E lo diciamo in particolare con la nostra comunità, con quanti vivono con noi la quotidiana fraternità.
Ancora, chiamandolo «nostro» affermiamo che Dio è Padre di tutti coloro di cui abbiamo qualche responsabilità. Negli anni del mio servizio episcopale alla grande diocesi di Milano ero molto aiutato dalla certezza che Dio si curava di tutte e di ciascuna delle persone che mi erano affidate, che magari mi chiedevano preghiere e che io non potevo nemmeno ricordare. Anche oggi, ogni volta che dico «Padre nostro» affido a Lui tutte le persone che ho incontrato e le sento unite alla mia preghiera, tutte ricordate nominai mente davanti al Padre.
Egli è, infine, Padre di tutte le creature umane, perché tutte chiamate a diventare figli di Dio. Recitando «Padre nostro» sentiamo vicini buddhisti, musulmani, non credenti, qualunque sia la loro condizione esistenziale.
In questo modo la nostra preghiera si allarga e abbraccia tutti.
* Ci soffermiamo ora sul «che sei nei cieli». È una espressione che può avere molti significati.
Il rapporto cielo-terra è evocato nei vangeli più di quanto non si pensi: «Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo» (M t 18,18); «Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nel cielo ve la concederà» (v. 19); «Tutto ciò che voi farete nel segreto, il Padre che è nei cieli lo vedrà e ricompenserà» (cf 6,4.6.18).
E se cerchiamo un analogo riscontro nel Primo Testamento, possiamo leggere ad esempio nel primo libro dei Maccabei: «Il cielo farà succedere gli avvenimenti secondo quanto è stabilito lassù» (3,60).
«Che sei nei cieli» non è dunque una semplice apposizione. Certamente serve per distinguere il Padre celeste da quello terreno, ma soprattutto invochiamo con queste parole il Padre che vive nel mondo della trascendenza, nel mondo definitivo, nel mondo delle cose che non passano mai più; quel Padre che vive nella luce perenne, in cui non c'è più ambiguità, non c'è più insicurezza, non c'è più peccato.
Il cielo è pure il luogo della ricompensa dove la volontà di Dio si compie pienamente, in maniera perfetta.
Questo aspetto della preghiera mi ha sempre colmato di grande pace. Di fatto non siamo mai in una situazione chiara, viviamo sempre rasentati, sfiorati, talvolta coinvolti dal compromesso; la nostra è una situazione oscura, maligna, in cui non si sa mai bene se operiamo davvero secondo il Vangelo oppure no; siamo ogni giorno a rischio di ambiguità. Dicendo «Padre nostro che sei nei cieli», confessiamo però che c'è un luogo dove tutto è chiaro, luminoso, limpido, dove tutto è giusto e vero. Se ci guardiamo intorno, siamo come affaticati, appesantiti e talora oppressi, dal cumulo di ingiustizie che ci circondano e delle quali, volere o no, siamo parte; proclamando «Padre che sei nei cieli» affermiamo che c'è una situazione in cui non c'è più ingiustizia, né lacrime, né amarezze, né incomprensione, né malinteso, e tutto è chiarezza, bellezza, purità.
L'invocazione iniziale del Padre Nostro è dunque capace di nutrire, sostenere, confortare il nostro animo.

Per la preghiera
Quali piste di preghiera ci vengono suggerite dalla prima domanda?
Alcune le ho già indicate e le riassumo riferendomi ai vangeli, in particolare al Discorso della montagna.
- Ci è suggerita per esempio la linea dell'abbandono e della fiducia: «Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (M t 6,6);
È quel Padre a cui non sfugge nulla dei nostri sacrifici, della nostra gratuità, delle nostre umiliazioni segrete, del silenzio che talora dobbiamo conservare a nostro danno per non coinvolgere altri. È il Padre che ricompensa tutto e al quale ci abbandoniamo in maniera fiduciosa e totale.
È quel Padre che, secondo l'insegnamento di Pietro, ha cura di noi: «Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi» (1 Pt 5,6-7).
Il Padre conosce dunque i nostri bisogni prima che lo preghiamo.
Giorni fa mi sono ritrovato con una ventina di religiose, che avevo guidato 30 anni fa nel cammino verso i voti definitivi; ci siamo ritrovati nel desiderio di rileggere sinteticamente il tempo trascorso. Personalmente mi sono servito di una formula molto semplice: in questi 30 anni Dio Padre ha avuto cura di me, molto più di quanto non potessi prevedere o richiedere o esigere; quindi continuerà ad avere cura di me.
È la linea dell' abbandono, dell' assenza di ogni preoccupazione: «Gettate in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi».
- C'è poi la linea dell'affidamento di tutte le persone che amiamo e di tutte le situazioni che ci opprimono. Vivendo nel Medio Oriente, a Gerusalemme, sono testimone quotidianamente di situazioni di violenza, di oppressione, e non si sa davvero come uscire dallo smarrimento, ci si trova bloccati, coinvolti, legati, confusi.
Eppure l'invocazione «Padre nostro che sei nei cieli» invita a dire: Signore, tu sai il significato di tutto ciò che accade e darai ragione a chi ha ragione e farai giustizia a chi chiede giustizia.
Interroghiamoci allora seriamente sulla nostra capacità di vivere almeno in parte i suggerimenti che ci vengono dalla parola «Padre»; interroghiamoci se prevale in noi l'ansietà o la pace. Certo abbiamo tanti motivi per essere ansiosi; tuttavia se prevale in noi, quale sentimento di fondo, l'ansietà, vuol dire che non diciamo con verità la parola «Padre».
Se la diciamo sul serio prevale in noi un sentimento di pace profonda.
Così pure domandiamoci se prevale in noi la tristezza o la gioia. Se prevale in noi la tristezza, l'amarezza, il pessimismo, lo scetticismo, magari il pessimismo sulla situazione della Chiesa, della società, vuol dire che non ci affidiamo sul serio a Dio Padre, perché è Lui che ha cura di tutto, Lui che . conosce e sa mettere in ordine tutto, Lui che sa riportare tutti a casa.
La pace, la fiducia, la gioia, l'abbandono sono sentimenti che ci mettono sulla via del Vangelo. Non a caso il Padre Nostro è stato definito «una sintesi del Vangelo».

* * *

«Sia santificato il tuo nome»

Riprendiamo brevemente il tema della meditazione di questa mattina, per introdurci nella riflessione sulla successiva invocazione: «Padre, sia santificato il tuo nome».
Il padre Michel Ledrus si serve di due o tre formule che mi pare esprimano bene quanto abbiamo tentato di spiegare commentando la parola «Padre». Anzitutto il termine
«"Padre" era per i Greci e per i Romani un titolo di onore per la divinità, piuttosto che un richiamo a una tenerezza patema. Invece, nominando Dio suo "Padre", il cristiano attesta la remissione dei peccati, la giustizia e la santità recuperate per effetto della redenzione; l'adozione filiale, l'eredità eterna e la condotta dello Spirito gratuitamente donate» (op. cit" pp. 18-19).
Questo è il senso cristiano dell' invocazione pronunciata nello Spirito di Gesù Cristo.
E continua:
«L'esclamazione "Padre" esprime, quindi, la misteriosa, intima conoscenza di Dio, posseduta dal fedele che recita il Padre Nostro sotto l'azione dello Spirito santo» (ivi, p. 20); «Monstra te esse Patrem: manifesta che sei Padre! "Dimostraci, Signore, la tua misericordia!" (Sal 84,8). Tutte le lodi di Dio si concentrano nella parola "Padre". L'opera di Cristo si riassume nella manifestazione della paternità di Dio: "Ho manifestato il tuo nome agli uomini" (Gv 17,6)» (ivi, pp. 21-22).
Queste formule ci aiutano a considerare la seguente espressione del Padre Nostro - «Sia santificato il tuo nome» -, che sempre meditiamo nello spirito del Principio e fondamento, di quel principio su cui si fonda tutta la dinamica degli Esercizi ignaziani e tutta la dinamica della vita cristiana.

«"Santo" è il tuo nome»
La formulazione è rara, un po' strana, e non la usiamo nella predicazione e forse nemmeno nella nostra preghiera, all'infuori del Padre Nostro. Avremmo preferito probabilmente al verbo greco agiasthéto, «sia santificato», un altro verbo, col quale ci sentiamo più a nostro agio, ed è il verbo doxàzo (glorificare).
Appare ampiamente nell'ultima preghiera di Gesù, secondo il vangelo di Giovanni, e possiamo comprendere molto bene il significato: «Padre, è giunta l'ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te» (17,1); «Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare» (v. 4); «E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse»(v. 5); «Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro» (v. 10); «E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola» (v. 22); «Padre, voglio che quelli che mi hai dato, siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu mi hai amato prima della creazione del mondo» (v. 24).
Ci saremmo trovati meglio filologicamente se anche nel Padre Nostro fosse stato usato appunto il verbo doxàzo: «Padre, glorifica il tuo nome», o: «Sia glorificato il tuo nome».
Il verbo agiàzo (agiasthéto) è certamente più misterioso, più rude, più difficile da penetrare.
Tuttavia è importante per noi capire il senso di questa invocazione, e vogliamo pregare il Padre dicendo: Il tuo nome è grande, il tuo nome è glorioso. Donaci di penetrare nell'intenzione del tuo Figlio quando ha messo sulle nostre labbra la domanda «sia santificato il tuo nome».
Chiediamo alla Vergine Maria, che aveva una percezione profonda del mistero della santità del Nome di Dio, di illuminare la nostra mente e il nostro cuore, così da cogliere gli atteggiamenti che questa domanda vuole suscitare in noi e intravedere il cammino cristiano che ci invita a compiere.
Evocando la figura di Maria, viene alla mente il suo cantico, il Magnificat, là dove ella canta con gioia: «Grandi cose ha fatto in me l'onnipotente / e Santo è il suo nome» (Lc 1,49).
La percezione della santità del Nome è di fatto tipicamente anticotestamentaria e per questo citerò più avanti alcuni passi dei profeti. Ci è richiesto di entrare nella mentalità del Primo Testamento, poiché l'invocazione «sia santificato il tuo nome» sta sul crinale tra il Primo e il Secondo Testamento. È una parola che gli Ebrei comprendono quasi meglio dei cristiani, e Gesù ce la mette nel cuore e sulle labbra perché vuole che ci radichiamo nel Primo Testamento.
Mi propongo dunque di fare una lectio, domandandoci che cosa significa il «Nome» e che cosa significa «sia santificato il tuo nome»; successivamente vi offrirò qualche spunto per una breve meditatio, un'applicazione: quali sono gli atteggiamenti che tale preghiera ci suggerisce?

Una suggestiva polivalenza di significati
Non stupiamoci se non avremo risposte precise alle nostre domande, perché il Padre Nostro è una preghiera ricca, intensa, brevissima, densissima, dai molti significati. Ovviamente di natura sua la preghiera non è una formula matematica ed è possibile coglierne sensi diversi, che probabilmente sono tutti validi.
1. Lo vediamo già considerando la parola «nome». Sappiamo dal Primo Testamento che «il tuo Nome» significa «la tua persona», «la tua potenza», «il tuo essere», «la tua realtà».
Però rimane da chiederci: si intende che Dio sia riconosciuto come Dio - e ne viene, secondo la parola di Mt 22,21, il comando: «Rendete a Dio quello che è di Dio»? Oppure: «Sia santificato il tuo nome di Padre», cioè che tutti ti riconoscano non solo come Dio, ma come Padre, tenero, amante, misericordioso, che invia il Figlio per il perdono dei peccati? Che tutti riconoscano la tua grandezza, la tua potenza, la tua infinità, la tua trascendenza? Oppure che tutti riconoscano in particolare la tua bontà, la tua condiscendenza, il tuo interesse per l'uomo? Probabilmente si intende l'uno e l'altro significato. Personalmente opterei per l'insistenza: sia santificato il tuo nome di Padre, cioè che Tu sia riconosciuto come Colui che ama, conforta, perdona, come Colui che, secondo la parabola del figlio prodigo, aspetta, va incontro, abbraccia, mette la veste nuziale, dà il grande banchetto (cf Lc 15,11-32). La preghiera non lo dice e sta a noi approfondire l'uno o l'altro aspetto.
2. E che cosa significa «sia santificato»? Ho già detto che è un' espressione strana e curiosa.
* Può essere una semplice dossologia («Padre, benedetto sia il tuo nome, venga il tuo Regno»), una specie di apposizione, un intercalare come si ritrova spesso nelle preghiere ebraiche.
Non ritengo comunque probabile tale ipotesi. Potremmo pure rifarci alla berakha, un genere
letterario comune nell' ebraismo. Di fatti quando ci si incontra o si invita un ospite, si dice: baruk ha ba', benedetto colui che viene; e alla domanda: come stai? si risponde: bene, baruk ha shem, benedetto sia il Nome.
L'uso della berakha, del benedire Dio, ha poi la sua applicazione in tanti altri aspetti della vita: c'è la berakha prima del pasto, quella che Gesù ha pronunciato sul pane e sul vino, detta la preghiera di benedizione; c'è la berakha del dopo pasto, ecc.
Il concetto è presente pure nel Nuovo Testamento. È una berakha per esempio il saluto di Elisabetta a Maria: «Eulogeméne sy en gynaixìn», «e benedetto il frutto del tuo seno Gesù» (Le 1,42). Proprio qui vediamo che il verbo berek ha come corrispondente il verbo eulogéin (eulogeméne) e il termine eulogìa.
Lo stesso Benedictus comincia con una berakha: «Eulogetòs kyrios o theòs tou Israel» (Le 1,68). Un'altra forma di berakha la troviamo in Le 11,27: «Una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: "Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!" ».
E ci sono almeno due lettere del Nuovo Testamento che cominciano con una berakha. La seconda lettera ai Corinti: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» v. 3; la lettera agli Efesini: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» v. 3.
In ogni caso, il genere letterario della berakha non mi sembra corrispondere pienamente alla prima invocazione del Padre Nostro «sia santificato il tuo nome».
* È invece probabilmente una vera e propria domanda.
E che cosa si chiede? Si possono intendere diverse cose.
- Nello spirito del profeta Ezechiele, che usa più volte questa formula, la domanda può significare: «Padre, agisci, intervieni nella storia in maniera che il tuo nome sia riconosciuto grande». Il profeta chiede un intervento di Dio che faccia sbalordire la gente ed esclamare: Dio è davvero grande!
«Santificherò il mio nome grande», cioè mi manifesterò con opere tali da far stupire, da far lodare il mio nome «disonorato tra le genti, profanato da voi in mezzo a loro». Voi, col vostro comportamento avete fatto sì che le genti disprezzassero il mio nome; ora io ne mostrerò la grandezza. «Allora le genti sapranno che io sono il Signore - parola del Signore Dio - quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi» (cf Ez 36,21 ss.).
«Sia santificato il tuo nome» è un passivo teologico, cioè: Tu santifica il tuo nome, intervieni in questo mondo così oscuro, così confuso, così violento, così cattivo; intervieni per mostrare che ci sei, che sei giusto, che sei santo, che hai in mano le sorti della storia.
Ezechiele sottolinea addirittura una serie di sette interventi santificatori di Dio: «Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri» (vv. 24-28a). Tutti interventi che ricostituiscono Israele disperso e che perciò glorificano Dio; sette interventi conclusi dalla formula dell' alleanza: «Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (v. 28b). Ancora oggi il popolo ebraico vive di questa speranza e la presenza in Israele di milioni di Ebrei radunati da tutte le genti è vista come un intervento glorioso di Dio che ama sempre il suo popolo.
È intèressante rileggere anche Is 29,22-23:
«Pertanto, dice alla casa di Giacobbe il Signore / che riscattò Abramo: / "D'ora in poi Giacobbe non dovrà più arrossire / il suo viso non impallidirà più, / poiché vedendo il lavoro delle mie mani tra di loro, / santificheranno il mio nome, / santificheranno il santo di Giacobbe / e temeranno il Dio di Israele"».
Penso perciò che nell' espressione «sia santificato il tuo nome» siamo di fronte proprio al vocabolario della santificazione, della santità, del kadosh, del Santo. Mi pare che in italiano si tradurrebbe al meglio con la parola trascendente: che sia riconosciuta la trascendenza di Dio, che Dio sia riconosciuto come trascendente e che egli compia nella storia opere per cui gridino tutti: Dio è grande!
A questo punto mi rifaccio di nuovo allo studio di padre Ledrus. Egli è contrario all' opinione di molti, tra i quali Schürman, secondo cui il Padre Nostro contiene un'unica invocazione - «venga il tuo Regno» - e attorno ad essa si collocano tutte le altre. In un certo senso è vero. Ma la stessa domanda «venga il tuo Regno» è sottoposta alla precedente: che il nome di Dio sia glorificato e benedetto, che Egli sia riconosciuto nella sua trascendenza, nella sua santità, come Padre.
Leggo dal testo:
«"Padre, sia santificato il tuo nome" (Le 11,2). Questa versione di san Luca mostra come la prima aspirazione ("sia santificato il tuo nome") è legata all'in'vocazione del Padre, mentre nello stesso tempo si distacca dall' aspirazione successiva e da tutte le domande che seguono, che saranno comunque riferite a questa medesima esaltazione di Dio» (op. cit., p. 33).
Dunque in primo luogo «sia santificato il tuo nome» e per questo «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà», si adempiano alcune condizioni necessarie quali il pane quotidiano, il perdono, la liberazione dalle tentazioni e dal male.
«Questa espressione innalza la preghiera al livello di un inno eucaristico, la carica di toni di giubilo. Così affiorava anche sulle labbra di Cristo che, con gli occhi alzati verso il cielo, pregava "Padre santo" (Gv 17,11); "Il tuo nome" vuol dire la tua Persona; non solo come determinazione, ma anche come manifestazione di potenza, di onnipotente misericordia (cf Is 59,19: "nome-gloria"; Zac 14,9: "il tuo nome sarà unico"). Significa Dio così come si è rivelato e come si manifesta nel suo disegno di salvezza, e quindi così come è da noi conosciuto nella fede mediante la comunicazione della conoscenza per ora oscura che Dio ha dato di sé.
Santificato vuol dire: Dio sia esaltato, riconosciuto come incomparabile» (trascendente); «Dio sia glorificato nell' attuazione del suo disegno di amore: "10 ho loro reso noto il tuo nome, e lo renderò noto ancora, affinché l'amore col quale tu hai amato me sia in loro e io in loro" (Gv 17,26). L'interesse sommo del Cristo, la passione unica del suo cuore era Dio, Dio solo; questi li trasmise ai suoi discepoli anche nella preghiera che loro insegnò; così che prima di morire poté dire: "Padre, ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato" (Gv 17,6).
Gesù è venuto a insegnarci a "santificare il nome di Dio", cioè a trattare Dio come Dio, a non trattare come Dio nient' altro che Dio e la sua gloria, ad amarlo di un amore sommo ed esclusivo, a esaltarlo al di sopra di tutto e specialmente al di sopra di noi stessi, a non metterlo mai nel nostro cuore in competizione con un bene terreno, a essere entusiasti di lui. La sicurezza e la fiducia che Gesù riesce a comunicard, insegnandoci a pregare così, ci fa presentire che questo desiderio è già esaudito, nel senso che Dio sta già manifestando la sua misericordia e la sua gloria nel mondo e sta già portando a compimento il suo disegno di salvezza. In ultima analisi, Dio solo è autore della propria glorificazione e chi prega così come Gesù ha insegnato sa di esserne partecipe e ne desidera il compimento in sé e in tutti, oggi, e soprattutto nella manifestazione regale che egli farà di se stesso alla fine del mondo (cf Ez 36,23)» (ivi, pp. 33-34).
Ricordo infine che qualcosa di simile è presente anche in Gv 12,27-28, col verbo doxàzo, tipico, come abbiamo visto dell' evangelista: «"Ora l'anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome". Venne allora una voce dal cielo: "L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!"».
Intervieni, o Padre!
Qui si parla di quella glorificazione che è la morte di Gesù e la sua risurrezione. Il Padre è santificato in Cristo risorto. E forse Gesù quando andava al Giordano per farsi battezzare pregava già per la santificazione di Dio Padre.
In ogni caso, nella domanda del Padre Nostro la formula rimane passiva e non esplicita questo contenuto.
- È possibile allora un' altra sfumatura di significato: l'auspicio che noi lodiamo il nome di Dio.
L'invocazione «sia santificato il tuo nome» è intesa da molti cristiani come il proposito di dare lode al nome di Dio e di non bestemmiarlo. Dunque: «Sia santificato il tuo nome da noi uomini».
È quell'onore dovuto a Dio di cui parla il profeta Malachia: «Il figlio onora suo padre e il servo rispetta il suo padrone. Se io sono il padre, dov'è il timore che mi spetta? Se sono il padrone, dov'è il timore di me? Dice il Signore degli eserciti, a voi, sacerdoti che disprezzate il mio nome» (1,6), sacerdoti che non agiscono secondo le leggi di Mosè e quindi non onorano Dio.
Più profondamente, l'uomo può, entrando in comunione con Gesù, santificarsi e dunque santificare il nome di Dio con la propria vita. Ce lo suggerisce un passo significativo del vangelo di Giovanni, in cui - pur se la versione italiana ha consacrare invece di santificare - occorre lo stesso verbo agiàzo del Padre Nostro: «Consacrali (agìason) nella verità... Per loro io consacro (agiàzo) me stesso, perché siano anch'essi consacrati (òsin egiasménoi) nella verità» (17,17-19), rendendo così testimonianza della santità di Dio.
La formula semplicissima «sia santificato il tuo nome» resta, come vi accorgete, un po' misteriosa, mette insieme significati diversi, intendendo sia l'azione di Dio come l'azione dell'uomo: intervieni, manifestati; e: fa' che anche noi ti lodiamo, ti glorifichiamo, santifichiamo il tuo nome.
Sta a ciascuno di noi, quando recitiamo il Padre Nostro, lasciarci trascinare dallo Spirito, gustando l'uno o l'altro contenuto della supplica.

I nostri atteggiamenti
E ora, nella meditatio e nella contemplatio tento di rispondere alla domanda che ci eravamo prefissi: quali atteggiamenti suggerisce, sostiene, promuove, comporta il pronunciare queste parole? Chi prega così che cosa sente nel cuore quando le ripete?
- Penso anzitutto che debba venire spontaneo il senso della lode e del ringraziamento a Dio. Viene alla mente il momento precedente la risurrezione di Lazzaro, là dove Giovanni riporta: «Gesù allora alzò gli occhi e disse: "Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. lo sapevo che sempre mi dai ascolto"» (11,41).
È necessario che chi prega abbia nel cuore questa tonalità di costante ringraziamento, quella tonalità fatta propria da san Paolo nelle sue epistole. Richiamo per esempio l'inizio della lettera ai Colossesi: «Noi rendiamo continuamente grazie a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nelle nostre preghiere per voi» (1,3).
È un versetto che mi colpisce, perché ho conosciuto pochi preti capaci di ringraziare Dio per la loro comunità. Ne ho conosciuti molti che, al contrario, si lamentavano: la gente non risponde, non ascolta, non frequenta. I motivi del loro disagio erano reali, ma io dicevo loro: il fatto che la tua comunità esista è già un miracolo di Dio; il fatto che viva la fede evangelica, battesimale, in un mondo incredulo e pagano, è un miracolo di Dio. Quindi in primo luogo ringrazia il Signore per questo. È l'atteggiamento che avevano gli apostoli: rendere lode a Dio che ti ha chiamato alla fede. Siamo molto peccatori, molto imperfetti, estremamente negligenti, e però abbiamo un dono straordinario, che è diffuso nel popolo cristiano: la fede e la speranza. Vorrei che ogni sacerdote fosse cordialmente grato al Signore per sé e per i suoi fedeli pregando così: ti rendo grazie, o Padre, perché hai chiamato questi tuoi figli e figlie dalle tenebre dell'ignoranza alla conoscenza di Te che sei Amore.
Il ringraziamento per tutto ciò che il Signore fa con amore per noi mi pare sia l'atteggiamento sottostante all'invocazione «sia santificato il tuo nome», che può sgorgare dalla consapevolezza dei doni di Dio e che sa abbondare nelle benedizioni, come recita la lettera agli Efesini: «... rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (5,20).
Coltivare tale atteggiamento che ci fa innalzare il cuore a Dio è cosa molto sana, e purtroppo poco presente nelle nostre comunità cristiane, che di solito, almeno in Occidente, sono lamentose, sono ripiegate su di sé, sono sempre pronte a guardare ciò che non va.
Chi ha letto i miei libri di esercizi degli anni trascorsi, sa che di solito insisto su questo anche per quanto concerne il colloquio penitenziale; occorre iniziare il colloquio penitenziale con un rendimento di grazie a Dio, con una lode al Signore per ciò che ha fatto per me dall'ultima confessione. Quando mi capita di confessare e la gente comincia a sciorinare i propri peccati, interrompo subito e chiedo: ma lei non ha niente di cui ringraziare Dio? E mi sento rispondere: sì, è vero, avrei alcune cose. D'un tratto cambia l'atmosfera, cambia la disposizione interiore. .
Un atteggiamento, questo della lode, che troviamo non solo nelle ultime epistole di Paolo, ma pure nella primissima, quella ai Tessalonicesi: «Siate sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (5,16-18).
È quanto richiama, mi pare, l'invocazione del Padre Nostro che ci invita a lodare Dio, a rendere grazie, a volere che il Padre sia benedetto per la sua grandezza e che essa appaia e si manifesti con chiara evidenza.
Ci interroghiamo: il ringraziamento è il tono di fondo della mia vita? Quando mi sveglio al mattino il mio primo pensiero si rivolge al Padre: grazie, o Signore, perché sei così grande e buono, perché mi hai amato e conservato in questa notte? E alla sera ringrazio per i doni ricevuti?
- Seconda linea di approfondimento.
Da quanto abbiamo detto cercando di spiegare questa parola, appare che la santificazione del nome è anzitutto opera di Dio, è Lui che glorifica il suo nome. Ne segue che siamo invitati ad affidargli la cura della sua gloria.
Non siamo noi a doverla «gonfiare», è Lui stesso che se ne preoccupa e noi chiediamo che la manifesti. Qualche volta noi ci comportiamo come se la sua gloria dipendesse da noi.
Ricordo che un illustre teologo di Milano, mons. Pino Colombo, diceva ironicamente che talora sembriamo voler praticare la respirazione artificiale a Gesù Cristo per farlo risorgere! È un errore grave, perché è lui la vita, la risurrezione, la gloria.
- Un terzo atteggiamento molto importante è proprio di chi realisticamente considera che la gloria di Dio è molto calpestata nel mondo, soprattutto là dove è calpestata la dignità umana, e questo accade un po' dovunque.
Nasce di qui la preghiera di intercessione, affinché le situazioni di ambiguità e di apparente silenzio di Dio siano superate; e ci è concessa allora un po' di lamentela, come del resto troviamo nei salmi: dov'è, Signore, la tua gloria? Dove sei? perché ti nascondi, perché non ti riveli, perché non ti manifesti?
Tuttavia tale interrogazione va fatta nel quadro della gioia e della fiducia che prima abbiamo descritto. Molti pii Ebrei anche nei momenti più neri della loro storia hanno saputo e sanno ancora oggi pregare così: tu, Signore, ti nascondi; tu, Signore, sembri silenzioso. Mostra la tua gloria! Dove sei, Signore? Fa' che Ti vediamo, fa' che tutti riconoscano che Tu sei il nostro re, che hai cura di noi, che non ci hai abbandonato.
Dunque, se abbiamo assunto bene il senso profondo della lode di Dio, possiamo anche entrare nella lamentela con Lui, ma nello spirito e nell' atteggiamento di fede e di intercessione.

* * *


«Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»

La notizia delle stragi che hanno funestato la giornata di ieri, gli attentati in Israele, a Mosca e in Irak, mi spingono a porre una considerazione sul contesto nel quale viviamo questi giorni di esercizi.

Il contesto degli esercizi
Anzitutto c'è un contesto biografico, al quale vi ho chiesto di riflettere con le due domande: come entro negli esercizi? come vorrei uscirne?
Tale contesto si colloca, come sappiamo, nel quadro ecclesiale, quello della mia diocesi, della mia comunità, della mia Chiesa locale, della Chiesa universale. E quindi nelle nostre preghiere dobbiamo sempre tenere presenti tali realtà.
Il terzo ambito è quello socio-politico generale, caratterizzato da tre fenomeni: le convivenze dirompenti, la prevalenza degli interessi di gruppo, l'assurdità del male.
- Innanzitutto le convivenze dirompenti. Oggi è sempre più necessaria la conversione alla convivenza delle diversità e dei diversi, senza ghettizzarsi né distruggersi a vicenda, e anche senza soltanto tollerarsi. La tolleranza infatti è ancora poco; è una soluzione che può sembrare ottimale, ma non basta. Occorre una convivenza nella quale siamo capaci di fermentarci a vicenda, e non necessariamente nel senso proselitistico del termine: tu ti convertirai alla mia religione, alla mia cultura e allora faremo unità.
Tale orizzonte di evangelizzazione resta fondamentale per il cristianesimo, tuttavia deve ancor prima realizzarsi la possibilità di stare vicini da diversi, facendo sì che con il mio modo di vivere approfondisca la mia autenticità e aiuti l'altro ad approfondire la sua, a trovare la parola che il Signore gli dice nel profondo del cuore, sia essa una parola religiosa o non religiosa.
È certamente utile il dialogo tra religioni, ma non lo ritengo tanto importante. Le religioni sono di natura loro un sistema fisso, codificato e al massimo si scambiano delle cortesie, delle informazioni, dei chiarimenti per evitare malintesi, ma rimangono tali e quali. Vediamo del resto che nei numerosi incontri di dialogo interreligioso sono sempre presenti le stesse persone che viaggiano da un continente all' altro per dire la loro volontà di pace e tenere qualche discorso.
Non è però sufficiente. Bisogna - ripeto - imparare a convivere fermentandoci a vicenda, vivendo ciascuno la propria autenticità, rispettando quella dell' altro e facendo in modo possibilmente che anche l'altro sia stimolato a un cammino di maggiore autenticità rispetto alla propria tradizione e religione.
In questa prospettiva ci occorre dunque una forte autenticità, non tanto come identità socio-culturale, socio-religiosa, bensì come identità evangelica, perché il Vangelo è in qualche modo sopraconfessionale. Il Discorso della montagna, per esempio, non ha nessuna etichetta confessionale, rinnova l'esistenza umana come tale e può valere per chiunque.
Concludo: le situazioni di convivenze dirompenti che vediamo nel mondo - dalla Terra santa, alla Bosnia, al Ruanda, al Sudan - sono la dimostrazione della necessità di imparare a convivere tra diversi; in caso contrario non sopravviveremo come umanità.
- Il secondo fenomeno consiste nel fatto che nel contesto socio-politico prevale un' attenzione agli interessi di gruppo.
Nelle nostre regioni, e ancora più in altre regioni del mondo, il senso del bene comune è molto debole. C'è il bene della famiglia, il bene del clan, che in certi Paesi è come una corazza d'acciaio, e si arriva a uccidere quando le leggi interne non vengono rispettate e quindi si disonora la famiglia. Anche se è vero che lo spirito di clan può avere elementi positivi, può costituire una difesa all'interno di una società anarchica o autoritaria.
Tuttavia noi dobbiamo camminare verso un mondo in cui il bene comune è il primo valore: non solo il bene del gruppo, dell' etnia, e nemmeno più soltanto il bene di una nazione, bensì il bene dell'umanità nel suo insieme.
Per spezzare un contesto di interessi di gruppo, il cristianesimo ha moltissimo da dire, proprio perché propone un bene comune, concreto, uni-, versale.
- Infine non dobbiamo dimenticare che tuttora viviamo immersi nell'assurdità del male. Non ci sono solo uomini e donne di buona volontà che per caso, per sbaglio, per negligenza, compiono qualche errore; l'assurdità del male, del male gratuito, della crudeltà voluta per se stessa, dell'idolo del successo, è una realtà. Di tale assurdità la croce di Cristo è frutto ed è dunque quanto mai attuale.
Pur riconoscendo tante nobilissime tensioni di pacifismo, non dobbiamo mai dimenticare che questo è il contesto nel quale viviamo.
Su questo sfondo possiamo continuare la meditazione sul Padre Nostro. E dal momento che cerchiamo negli esercizi la volontà di Dio nella nostra, vita, gli chiediamo: in un mondo drammatico, conflittuale, agitato da assurdità, come vuoi che operiamo?

Domanda di perdono
Abbiamo già considerato, meditando il Padre Nostro, che è possibile riferirsi al Principio e fondamento degli Esercizi. Ora vi propongo di entrare nella Prima settimana degli Esercizi che è la settimana penitenziale, la cosiddetta via purgativa, nella quale riconosciamo i nostri peccati, il male che c'è in noi, le nostre connivenze con la mondanità, le nostre debolezze, le nostre fragilità, per esserne purificati.
Sant'Ignazio propone cinque meditazioni: la prima sui peccati nella storia della salvezza, la seconda sui peccati personali, la terza e la quarta come ripetizioni della prima e della seconda, così da iscrivere nel cuore dell' esercitante quello che il Signore gli ha fatto comprendere; e la quinta sulla dannazione quale punto di arrivo del peccato.
Noi ci lasciamo guidare dallo spirito di questa settimana, dove si è soliti preparare la confessione sacramentale, in modo da viverla magari considerando tutto l'anno trascorso dagli ultimi esercizi.
Il Padre Nostro ci può aiutare. Invertendo l'ordine delle invocazioni, ci soffermiamo sulla domanda: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» e, nelle successive meditazioni, sulle parole «e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male».
Forse ci stupiamo di tanto spazio riservato al peccato nel Padre Nostro - su sette domande, tre riguardano il male e il peccato.
Gesù sa che la nostra vita è insidiata, è fragile, si svolge in un contesto di assurdità e di peccato e dunque ha bisogno continuamente di essere riscattata, difesa da tale situazione.
Anche ogni comunità è costantemente irretita dalla divisione, dal contrasto, dal conflitto. E Gesù ce lo fa capire. Spesso noi ci meravigliamo di questo perché non abbiamo compreso a fondo il Padre Nostro, mentre Gesù non se ne stupisce.
Ricordo il titolo di un interessante libro di Jean Vanier: La comunità luogo del perdono e della festa. Anzitutto del perdono, in quanto la comunità è luogo del peccato, noi dobbiamo insistentemente chiedere perdono per noi e perdonare a coloro che ci hanno offeso.
Affrontiamo così la domanda: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori».
È una richiesta molto importante, non solo per il fatto che siamo continuamente minacciati dal peccato, ma perché l'opera di Gesù, il Regno è anzitutto la liberazione dal peccato. Egli è presentato così dal vangelo di Matteo nella rivelazione dell'angelo a Giuseppe: «Maria partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (1,21). La liberazione dal peccato è parte integrante, sostanziale della sua missione. Per questo rimette a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo a nostri debitori.
Vi propongo allora di soffermarci sull'invocazione del Padre Nostro anzitutto con una lectio e successivamente riflettendo sugli atteggiamenti che essa ci suggerisce.

Perdono gratuito
Consideriamo le singole parole.
- L'evangelista Luca ha usato la parola più usuale: «E perdonaci i nostri peccati» (11,4); tuttavia Matteo, la cui espressione è, come abbiamo già detto, più arcaica e primitiva, recita: «Rimetti a noi i nostri debiti» (6,12), e non è usuale.
Nella Bibbia ebraica come in quella greca ci sono tanti vocaboli per indicare il peccato, la trasgressione, la disobbedienza. Qui sceglie il concetto di debito; e ce ne domandiamo il motivo.
Probabilmente perché il concetto di debito - ovviamente metaforico, in quanto non si tratta di debito di denaro - è relazionale. Il concetto di peccato può essere concepito con il solo riferimento alla legge: c'è la legge e il peccato che la trasgredisce; c'è il precetto e la deviazione dal precetto. Il debito invece sta a indicare una relazione con qualcuno. Parlando di debiti, Gesù ci ricorda quindi che non si tratta semplicemente di nostre deviazioni, trasgressioni, sbagli, infrazioni alla legge, bensì di rottura di relazione con lui.
Perciò questa parola è a mio parere molto importante. Si può anche tradurre giustamente «peccato», ma intendendo il peccato appunto come la rottura della relazione con Dio.
- «Rimetti a noi i nostri debiti». Noi ci confessiamo incapaci di pagare questi debiti. Potremmo dire: ho dei debiti e prima o poi li pagherò. Però i debiti che abbiamo con Dio non riusciamo a pagarli.
Lo esprime chiaramente Matteo nella parabola del servo senza pietà: «Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettato si a terra, lo supplicava: "Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa". Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito» (18,23-27). Il padrone domanda anzitutto che il servo sia venduto, e dopo accoglie la supplica di misericordia e condona il debito.
Il Padre Nostro suppone che noi siamo così davanti a Dio: abbiamo debiti che non possiamo pagare, perché abbiamo rotto una relazione d'amore e non siamo in grado di ricostituirla con le nostre forze, se non ci viene gratuitamente ridata. «Rimetti a noi i nostri debiti» è una domanda davvero nodale. Noi non conosciamo neppure l'entità dei nostri debiti. La parabola ci parla di diecimila talenti, ma se ci mettiamo di fronte a ciò che il Signore ha fatto per noi, all' amore con cui ci ha abbracciato dall' eternità, ci ha seguito, ci ha voluto, ci ha sostenuto, allora il nostro debito non è nemmeno calcolabile, né solvibile se lui stesso non compie ancora un gesto di gratuità e ce lo condona.

Essere perfetti come il Padre
«Come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 5,12). Luca riprende lo stesso vocabolario: «perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore».
Gli esegeti si stupiscono dell' aggiunta, notando che «rimetti i nostri debiti» è l'unica domanda non semplice. Le altre lo sono tutte: sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, si compia la tua volontà, dacci il pane. Qui si rompe lo schema unitario della preghiera e gli esegeti si chiedono se è parte davvero della preghiera originaria insegnata da Gesù. Tutto però fa capire che lo è. Ed è inoltre l'unica domanda a cui Gesù pone una condizione, e ci chiama in causa.
La versione greca ha un'espressione stranissima, su cui discutono gli esegeti: «os kaì emeìs "aphékamen" toìs ophelétais emòn», «come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori».
Sembra quasi che prima abbiamo dovuto perdonare e poi possiamo chiedere perdono. È vero che gli esegeti sogliono mitigare questa espressione dicendo che il perfetto aphékamen è un perfetto presente, cioè noi «siamo soliti rimettere». Il legame rimane comunque strettissimo.
Che cosa suppone quindi questa preghiera? Suppone una comunità litigiosa, divisa, in cui le offese sono reciproche, dove ci sono aspettative non corrisposte, recriminazioni, attese deluse. Ed è talmente forte tale preghiera che, come ho già ricordato, il solo commento al Padre Nostro nel Discorso della montagna è quello aggiunto alla fine della preghiera: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,14-15). È una condizione assoluta e sottolinea che il Padre ben conosce che siamo poveri, fragili, che ci offendiamo facilmente gli uni gli altri. Egli vuole garantire che il suo perdono sia sempre accompagnato dal perdono nostro. Come ancora ci insegna la parabola di Mt 18, noi che abbiamo ricevuto tantissimo perdono da Dio, siamo chiamati a fare almeno il gesto di perdonare agli altri i piccoli torti che abbiamo subito: «Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: "Paga quel che devi!". Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: "Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito". Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire alloro padrone tutto l'accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: "Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?". E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello» (vv. 28-35).
È una domanda certamente assai impegnativa. Spesso noi, popolo cristiano, la pronunciamo senza renderci conto bene di ciò che significa. Di fatto vuol dire molto: impegna al perdono gratuito, che è un gesto grosso, difficile, a volte eroico.
Ci impegna a quell'atteggiamento evangelico che non è per nulla ovvio. Già Gesù aveva detto nel Discorso della montagna: «Se dunque presenti la tua offerta sull' altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all' altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (M t 5,23-24). Parole di fuoco, che ci imbarazzano ogni volta che celebriamo l'Eucaristia, non essendo mai sicuri che veramente qualcuno non ce l'abbia con noi e che non siamo stati forse capaci di compiere il passo della riconciliazione.
L'esigenza di Gesù è formidabile. A noi verrebbe da dire: chi ha qualcosa contro di me, ci pensi lui. Il Signore invece vuole che facciamo il possibile perché l'altro non abbia niente contro di noi.
Durissime pure le parole che seguono: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non apparvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello». Questo è perdono. «E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da' a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle.
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (vv. 38-45).
Comprendiamo il motivo dell'insistenza di Gesù: perché il Padre agisce così, Dio è così, ed è così glorificato. «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (v. 48).
Ci sono persone che quando hanno subito un grave torto, una profonda ingiustizia, covano il rancore per anni. È difficile l'eroismo del Vangelo; ma viverlo è possibile. Ho conosciuto in Israele un' associazione nata per iniziativa di una mamma ebrea, la cui bambina già a 14 anni partecipava alle manifestazioni pacifiste. A 16 anni fu uccisa da un terrorista e la madre, dopo aver sofferto tantissimo, si disse: il mio dolore è talmente grande che devo capire il dolore dell' altro.
Così nacque un' associazione di famiglie ebree e arabe, che hanno avuto un parente o un fratello o un figlio o un padre ucciso dal terrorismo o dalla guerra; si incontrano, per far proprio l'uno il dolore dell' altro e camminare insieme verso la riconciliazione.
Una strada che può sembrare fuori del mondo. Eppure, anche l'esperienza che ho avuto visitando le carceri mi ha convinto che questa regola è capace di esercitare il suo influsso nello stesso sistema penale e civile, che oggi, in tutti gli Stati, cerca forme di riconciliazione, di riparazione, di restituzione, così da superare la pura giustizia vendicativa e punitiva. Altrimenti il male si accresce, il carcere peggiora le persone insegnando a fare ancora più male. Sono forme già realizzate ad esempio nel Sud-Africa, dove si è costituita una Commissione per la pace, la verità e la riconciliazione, che ha promosso gesti straordinari in proposito.
La domanda del Padre Nostro «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» tocca dunque da vicino ciascuno di noi.
In sintesi, quali disposizioni interiori comporta? Il sentirsi davanti al Padre che mi ama infinitamente e vuole fare di me una cosa sola con Gesù, vuole darsi tutto a me.
Il considerare i miei peccati, le mie mancanze, come insolvenze d'amore, amore non dato, non restituito, non ricambiato.
Il mettermi, pregando al plurale, in relazione con tutti i peccatori: «Rimetti a noi i nostri debiti», solidarizzando con i peccati dell'umanità intera.
E ancora, mi dispongo a perdonare di cuore e soprattutto (cosa più difficile) a perdonare a chi non mi ha dato quanto ragionevolmente mi potevo attendere. Questa disposizione riguarda anche le famiglie (genitori-figli, fratelli), le relazioni di amicizia e di comunità.
È un insegnamento tipicamente evangelico, che troviamo anche nelle epistole del Nuovo Testamento.
«Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31). Asprezza: quando mi irrito con chi mi ha fatto un torto; sdegno, perché non mi è stato dato ciò che mi aspettavo; ira, perché non sono stato soddisfatto. «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonando vi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi; e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (4,32 - 5,2).
Si potrebbero citare tanti altri passi che insistono su questo insegnamento.
È interessante notare che l'evangelista Marco, pur non riportando la preghiera del Padre Nostro, scrive: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati» (11,25).
Dunque l'esortazione è presente in tutti gli strati neotestamentari, perché assolutamente caratterizzante del messaggio di Gesù.

Pregare in verità
Domandiamoci infine quali atteggiamenti suggeriscono le parole del Padre Nostro su cui abbiamo meditato.
- Un primo atteggiamento, più raro di quanto dovrebbe essere, è la certezza di essere perdonati. Talora noi ci trasciniamo nella vita, conservando, nonostante le molte assoluzioni ricevute, il timore che il Signore ce l'ha ancora un po' con noi. È una tentazione di satana; perché, una volta che abbiamo confessato i nostri peccati, Dio ci perdona sul serio.
Il Nuovo Testamento ce lo ricorda spesso, per esempio in Col, 14: «Per opera del Figlio diletto abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati» e in E f 1,6-7: «E questo a lode e gloria della sua grazia, / che ci ha dato nel suo Figlio diletto; / nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, / la remissione dei peccati / secondo la ricchezza della sua grazia».
Siamo invitati a mettere il nostro cuore in pace, dal momento che Dio ci ama ed è in pace con noi.
- Un secondo atteggiamento ci viene raccomandato ed è lo sforzo per cancellare ogni rancore, ogni amarezza, ogni recriminazione che spesso si annidano, pur se non emergono a galla, nel fondo della nostra psiche. Dobbiamo sforzarci di cancellare tutto questo, risentendo la parola di Gesù nel Discorso della montagna: «Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7,1-2). Ci si chiede un giudizio buono, benevolo, mentre noi, pensando magari di essere buoni, ci riserviamo quella acredine di giudizio che misura gli altri con una misura stretta.
- Il terzo atteggiamento è quello di entrare nella misericordia del Padre. Luca lo richiama in maniera molto efficace: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio» (6,36-38). In altre parole: entrare nella misericordia del Padre vuol dire amarci come Gesù ci ha amato (cf Gv 13,34-35).
Chiediamo allora, per intercessione di Maria, che crescano in noi questi sentimenti evangelici, così da esprimere quella novità di vita, quella fermentazione mutua che ci permette di stare insieme anche da diversi e come diversi.

* * * 

«Non ci indurre in tentazione»
Vieni, o Spirito santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore.
Ricordaci, o divino Spirito, ciò che abbiamo detto all'inizio: che questi giorni sono per noi un ministero
dello Spirito, perché sei tu che operi in noi. Fa' che ci la sciamo guidare da te, dalle tue ispirazioni, dalle tue consolazioni, anche dai tuoi silenzi. Donaci di essere piena mente disponibili ad accogliere quella volontà di Dio che
tu vuoi farci comprendere.
Tu vedi la nostra debolezza, la mia in particolare, nel l'esprimere tale volontà. Fa' che ciascuno di noi riceva da te l'influsso, la forza, la gioia, la chiarezza per compiere ciò che a Dio piace.
Maria, Madre di Gesù, patrona degli esercizi, assistici in questo cammino.
Peccato, disordine, mondanità
Nella meditazione odierna mi propongo qualche riflessione sulla domanda «non ci indurre in tentazione».
È utile ricordare che negli esercizi ignaziani la Prima settimana, quella della purificazione, non riguarda solo il peccato - a proposito del quale vale la pena richiamare quanto abbiamo già precisato: nel Padre Nostro troviamo il termine «debito», che lo colloca nella prospettiva di una relazione personale, col Padre, col Figlio e lo Spirito santo.
Sant'Ignazio dunque non parla soltanto di purificazione dei peccati, ma, al n. 63, chiede tre grazie, in tre colloqui importanti prima con la Madonna, poi con Gesù e col Padre. Leggo dal testo.
«Il primo colloquio con la Madonna, affinché mi ottenga la grazia dal suo figlio e Signore per tre cose:
La prima, perché io senta profonda cognizione dei miei peccati e disgusto per gli stessi» (è la via penitenziale che noi ordinariamente descriviamo).
«La seconda, perché senta il disordine delle mie attività in modo tale che, detestandolo, mi corregga e mi ordini». Quindi sant'Ignazio ci invita a considerare la nostra vita anche dal punto di vista del disordine delle azioni. E disordine è tutto ciò che, senza essere necessariamente peccato formale, soprattutto peccato grave, è però non corrispondenza al fine per cui siamo creati e di conseguenza getta nella nostra vita un non so che di disordinato, di non chiaro; disordine è quell'agire in cui siamo portati piuttosto a compiacere noi stessi, le nostre comodità, i nostri gusti, le nostre voglie, pur se non raggiunge la formalità del peccato.
«La terza chiedere la conoscenza del mondo perché, detestando lo, allontani da me le cose mondane e vane». La vanità è quel modo di vivere vapora;o, che insegue successo, buona fama, approvazione degli altri; senza essere un peccato formale, guasta tuttavia il verbo della vita interiore.
Nel secondo e nel terzo colloquio «fare altrettanto con il Figlio affinché me lo ottenga dal Padre» e «altrettanto con il Padre perché lo stesso eterno Signore me lo conceda».
Nell'esaminarci dobbiamo dunque tener conto sia dei peccati formali, sia di tutti quei disordini e di quella vanità che costituiscono gran parte del nostro agire quotidiano e lo appesantiscono, lo offuscano, lo rendono meno lieto, più impacciato, meno entusiasta, meno generoso.
Tutto questo attiene pure al tema delle tentazioni, che hanno appunto l'effetto di appesantire l'animo. Possiamo allora riflettere brevemente sul senso della richiesta del Padre Nostro: «Non ci indurre in tentazione».

Perché parlare di tentazione?
La richiesta è un po' scandalosa nella sua formulazione. La Chiesa lotta da secoli contro l'apparente scandalosità di tale formula, e ha cercato costantemente di ridirla, di riesprimerla.
Sant' Ambrogio per esempio traduceva: «non per mettere che cadiamo nella tentazione». Il «non ci indurre», infatti, è una parola molto dura, perché sembra che Dio stesso tenti al male. Sappiamo che la Conferenza Episcopale Italiana ha fatto di tutto per cambiarla nella nuova edizione della Bibbia, sostituendola con «non abbandonarci nella tentazione», per edulcorare un po' l'espressione.
In ogni caso è chiaro che il Padre Nostro dà spazio alla tentazione, la fa oggetto di una domanda specifica. E può stupire che, dopo la menzione dei peccati e del perdono reciproco, ci sia ancora una preghiera che riguarda la liberazione dalla tentazione.
In realtà la tentazione è parte importante dell'esperienza cristiana, è di fatto un' esperienza quasi quotidiana.
Gesù ci ha avvertito, dicendo agli apostoli: «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41); mentre lui stesso è stato tentato da tristezza e paura (cf vv. 37-38).
E ha pure voluto cominciare il suo ministero pubblico proprio sottoponendosi nel deserto alle tentazioni di satana, come raccontano i sinottici: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo» (Mt 4, 1; cf Me 1,12-13 e Le 4,1-2). È stato poi soggetto ad altre gravi tentazioni, come quella dopo la confessione di Pietro, quando addirittura lo chiama «satana» (cf Mt 16,23 e Mc 8,33): Gesù sentiva che le parole di Pietro («Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai») erano una tentazione grave.
Di tentazione Gesù parla anche a proposito dello stesso Pietro, là dove dice: «Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato», non solo lui, ma tutti, «per vagliarvi come il grano», per tentarvi scuotendovi fortemente, in maniera da far paura; «ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32). Egli prevede una tentazione grave per gli apostoli, una caduta di Pietro, salvando però la fede, e poi un ravvedimento e una conferma dei fratelli.
Se la tentazione è parte importante della vita cristiana, cerchiamo dunque di capire che cosa significa «non ci indurre in tentazione» o: «non permettere che cadiamo nella tentazione» o: «non abbandonarci nella tentazione».

Cinque tipi di tentazioni
Anzitutto è chiaro che il «non ci indurre» non vuol dire che Dio tenta al male, ma che permette la tentazione come parte della nostra esperienza, che in qualche modo ci è necessaria per crescere nella fede, speranza e carità.
Naturalmente è una trappola in cui il tentatore satana fa di tutto per farci cadere. E noi chiediamo di essere liberati da questa trappola, che è realissima e pericolosa, anche se ci passiamo a fianco, se cerchiamo di evitarla.
Di quale tentazione si tratta?
Gli esegeti hanno a lungo discusso. Quelli che interpretano in maniera escatologica il Padre Nostro ritengono si tratti della tentazione per eccellenza, quella escatologica, che riguarda la fine dei tempi e che essi immaginano vicina. E di questo parla il Nuovo Testamento. Leggiamo per esempio dalla seconda lettera ai Tessalonicesi. «Allora sarà rivelato 1'empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all' apparire della sua venuta, l'iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina, perché non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all'iniquità» (2,8-12). Parole terribili, che concernono la tentazione finale, l'ultimo scatenarsi di satana.
Ne parla lo stesso Matteo, nel discorso escatologico: «Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà» (24,11-12).
C'è davvero questa misteriosa minaccia, da cui giustamente il fedele chiede di essere liberato, preservato, salvato, custodito.
Tale interpretazione escatologica non è più ritenuta attuale oggi da molti i quali riferiscono la formula del Padre Nostro alle tentazioni di cui è composta la vita del credente; e sono numerose.
lo ne. richiamo cinque, per aiutarvi a riflettere poi sulla molteplicità di altre tentazioni che possono essere attuali per ciascuno di noi, a seconda
delle prove che il Signore permette. Penso alla seduzione, alla contraddizione, all'illusione, al silenzio di Dio, all'insignificanza di Gesù.
* La seduzione. La seduzione è l'essere attratti verso il male - sensualità, invidia, orgoglio, strapotere, crudeltà, vendetta, violenza -, un male che si presenta come tale (anche se è vero che sempre acconsentiamo al male perché ci appare con qualche parvenza di bene).
Talora la seduzione è talmente forte che satana sembra entrare dentro di noi, invadendo la nostra psiche e il nostro corpo, per cui rischiamo di comportarci con una perversità che mai avremmo immaginato. Dobbiamo sapercene guardare, e ciò è relativamente facile, appunto perché mira al male: sensualità, sessualità disordinata, pornografia, invidia, maldicenza, vendetta, soperchierie, bugie che fanno gravi danni, furti, e così via. Tutto questo fa parte dell' esperienza umana.
Nel vangelo di Marco troviamo un elenco ben calibrato di tali deviazioni, elenco che a mio avviso costituiva una sorta di compendio di teologia morale per il catecumeno. Egli era invitato a fare un profondo esame di coscienza e a menzionare col loro nome i difetti e i vizi che più lo tentavano.
«Quando entrò in una casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul significato di quella parabola. E disse loro: "Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?". Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. Quindi soggiunse: "Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo"» (7,17-23).
Siamo invitati a interrogarci sul nostro cuore, dal momento che «queste cose cattive» sono tutte dentro di noi, anche nel nostro subconscio o inconscio, e spesso non scoppiano perché non c'è l'occasione.
Possiamo notare che le nove intenzioni, le nove malvagità sono divise a tre per tre.
Più palesi le prime: fornicazioni, furti, omicidi.
Le tre seguenti sono più nell' ombra: adultèri, cupidigie, malvagità.
Ancor più dentro al cuore si trovano inganno, impudicizia, invidia.
Infine la calunnia, la superbia, la stoltezza, forse le più «ecclesiastiche», perché spesso infestano pure il giardino, o l'orto della Chiesa.
Queste sono dunque le seduzioni. E dobbiamo tenerne conto, dobbiamo rifletterci, proprio perché vi siamo tutti soggetti.
* Il secondo tipo di tentazione è la contraddizione. Essa ci tocca allorché, facendo il bene, ci troviamo in un ambiente che ci critica, ci impedisce, ci mette i bastoni nelle ruote, ci prende in giro, ci blocca. Dobbiamo allora avere molta pazienza, molta perseveranza e molta umiltà. Sovente le nostre tentazioni sono appunto contraddizioni, che magari ci vengono dalla stessa comunità cristiana, dalle persone che pensavamo più vicine, più attente e invece non capiscono, ci contrastano, ci deridono, ci smorzano.
* Il terzo tipo di tentazione è l'illusione, il fare qualcosa che appare come bene, ma da cui non deriva poi un bene.
Questa è la tentazione forse più frequente dei buoni, di coloro che servono Dio con generosità, perché il demonio li tenta spingendoli per esempio sulla via della penitenza, dell' austerità, col pretesto della povertà, dell' autenticità, della sincerità, della giustizia, e fa compiere loro opere sbagliate. Si illudono di essere chissà chi, ma calpestano le regole più comuni del vivere onesto, appunto sotto la bandiera della purezza, del rigore, della radicalità evangelica, e vanno facilmente fuori strada.
Il demonio - ammonisce sant'Ignazio - tenta soprattutto sub specie boni, sotto apparenza di bene, spingendo a fare sempre meglio per poi arrivare ad avere in mano un pugno di mosche, a fare il vuoto intorno a sé, a distruggere una comunità, partendo da intenzioni apparentemente buone.
* Gravissima è la quarta tentazione: il silenzio di Dio, un silenzio che fa chiedere all'uomo: perché, Signore, ti nascondi? Perché non parli? È la tentazione vissuta nella Shoà dal popolo ebraico, che ancora oggi si chiede: perché Dio non è intervenuto? Ed è la tentazione che ci assale ogni qualvolta aspettiamo che Dio ci venga incontro e ci sentiamo soli, abbandonati, privi di quell'aiuto che ci attendevamo.
Il silenzio di Dio è anche una tentazione che tocca le persone più avanzate nel cammino spirituale.
* L'ultima tentazione, collegata in un certo senso alla precedente, è di carattere sociale. Io la colgo con chiarezza in Israele: dove i cristiani sono pochi e non hanno rilievo pubblico, ma è pure presente nei nostri Paesi occidentali, là dove il cristianesimo non ha rilevanza sociale o la sta perdendo. È l'insignificanza di Gesù.
Se tutto si costruisce secondo parametri economici, politici, culturali che non tengono conto di Gesù, considerandolo al massimo un ornamento per l'albero di Natale; se l'ambito dei mass media e dei divertimenti, la vita pubblica in genere si svolge come se Dio non ci fosse, molti cristiani cedono a questa forte tentazione, che li fa vivere una doppia vita: in parrocchia pregano, ma fuori della parrocchia è come se Gesù non ci fosse.
Ho già ricordato in altre occasioni la testimonianza di un padre spirituale tedesco, che nel suo 50° di Messa rispose a chi lo interrogava sulla sua esperienza di prete: la prova più grande di questi cinquant'anni non è stata per me né la seconda guerra mondiale né il nazismo, ma il fatto che la gente si è allontanata dalla Chiesa e anche le comunità cristiane più ferventi si sono ridotte rapidamente a pochi numeri.
È una prova che ci è chiesto di attraversare, proprio perché anche lì il Signore è presente. È una tentazione che richiede un aumento di fede. Per questo motivo da sempre insisto sulla necessità di praticare la lectio divina, che rigeneri continuamente la fede. Se abbiamo questa ricchezza interiore, che la parola di Dio meditata giorno dopo giorno costruisce e ricostruisce, possiamo affrontare anche un esercito, possiamo affrontare anche la solitudine totale.
Vorrei suggerirvi di leggere la prima lettera di Pietro, per comprendere meglio come avviene il superamento di questa tentazione così perniciosa che è il senso dell'insignificanza del cristiano. È una lettera scritta a credenti che vivono in condizione di diaspora e di emarginazione sociale, e sono continuamente tentati di dire: siamo dei poveretti, non valiamo nulla.
E Pietro in maniera mirabile ricostruisce in loro l'orgoglio di essere cristiani, la gioia di esserlo anche nell'umiliazione, nell'insignificanza, nella prova, nella sofferenza, mostrando che proprio in quella situazione il vangelo si avvera, il Regno viene, Gesù trionfa.

Fuggire le occasioni
Mi piace aggiungere ancora una nota alla riflessione sulla domanda «non ci indurre in tentazione».
Mi pare di potermi esprimere così: come il perdono dei peccati («Rimetti a noi i nostri debiti») è legato al perdonarci a vicenda i torti subiti («perdona a noi i nostri peccati come noi li rimettiamo a quelli che ci hanno offeso»), allo stesso modo la difesa da quella trappola del nemico che è la tentazione è legata, in forza delle parole di Gesù, alla fuga dalle occasioni. Non è detto nel Padre Nostro e però mi sembra implicito: «Non ci indurre in tentazione», così come da parte nostra cerchiamo di evitare le occasioni di peccato.
Del resto almeno due volte è ripetuto con molta forza nel contesto. Anzitutto nel Discorso della montagna: «Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettai o via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala e gettai a via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geenna» (M t 5,29-30). Il contesto è quello dell' adulterio e della santità della vita matrimoniale: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (v. 27).
È chiaro che qui è posta una radicale esigenza di fuggire le tentazioni, e può essere quindi ben collegata con la domanda «non ci indurre in tentazione».
Sono parole che ritornano tali e quali nel discorso cosiddetto ecclesiale del c. 18, in cui Matteo dice: «Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco, eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco» (vv. 8-9).
È uno dei rarissimi casi in cui la stessa frase è ripetuta identicamente due volte, in due diversi luoghi di uno stesso vangelo. Ciò significa che ha un'importanza grande per Gesù e per la predicazione primitiva. E se il primo contesto è quello dell'adulterio, della santità del matrimonio, il secondo contesto è quello dello scandalo dei piccoli; infatti precede immediatamente la parola: «E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me. Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da un asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (vv. 5-6). Parole durissime, che forse a leggerle ci sembrano astratte, e tuttavia sono molto realistiche, molto attuali; pensiamo per esempio ai tanti scandali di questi ultimi anni, ai casi di pedofilia.
O Signore Gesù che scruti i nostri cuori e conosci le nostre fragilità e le nostre debolezze, sostienici nelle prove che incontriamo nel cammino di fede.
Sappiamo bene che con il tuo aiuto possiamo resiste re alle tentazioni. Donaci di credere sempre che ci sei vicino, affinché non ci sentiamo soli e perseveriamo nella speranza.
Fa' che non venga mai meno in noi la certezza che, come ci insegna Paolo (cf 1 Cor 10,13), Dio è fedele e non permetterà che siamo tentati al di sopra delle nostre forze se, come figli, ci abbandoniamo fiduciosi nelle sue mani di Padre.

* * * 

«Ma liberaci dal male»
«Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (M t 11,27). Queste parole ci invitano a pregare:
Facci conoscere, o Padre, il tuo Figlio Gesù. Noi cerchiamo di conoscerlo attraverso il Padre Nostro che lui ci ha insegnato, perché siamo sicuri che in questa preghiera ha messo tutto il suo cuore, tutto ciò che gli sta a cuore, tutto ciò che per lui è importante, e ha voluto comunicar celo. Fa' che conosciamo, Padre, l'intima sua coscienza, per essere illuminati, chiariti, ordinati interiormente. Ti chiediamo inoltre, o Padre, per mezzo del tuo Figlio, di conoscere Te, che nessuno conosce se non colui al quale il Figlio ti rivela. E ti rivela anche attraverso questa preghiera.
Fa' che conosciamo la tua volontà su di noi, per accoglierla e abbracciarla, per abbracciare le nostre croci, di qualunque genere siano, perché parte del tuo disegno d'amore su di noi.
Interceda per noi Maria, Madre nostra e Madre della Chiesa, che si è abbandonata alla tua volontà, o Padre, con le parole: Si faccia di me ciò che hai detto.
Concedici di unirei a Maria nella sua dedizione al tuo volere, per trovare in esso la gioia piena e la gioia per il mondo. Amen.

«Strappaci» dalla peccaminosità
In questa meditazione riflettiamo sulla invocazione «ma liberaci dal male». Secondo il p. Ledrus, per comprendere il Padre Nostro è pedagogicamente meglio cominciare dall' ultima richiesta, perché è ciò di cui abbiamo maggiore esperienza; anche se ontologicamente e dal punto di vista valoriale il Padre Nostro ha una sua struttura che comincia bene dall' alto e scende verso il basso, dal nome di Dio al male.
Propongo anzitutto una lectio parola per parola e successivamente faremo una meditatio nel tentativo di rispondere a due domande: in quale modo agisce la malignità e il Maligno in noi? E come resistere al Maligno?
* L'espressione, «ma liberaci dal male», come sappiamo, non si trova in Luca; e qui comincia la ridda delle interpretazioni esegetiche: è Luca che l'ha omessa o è Matteo che l'ha aggiunta? E per quale motivo comincia con un «ma»?
Chiaramente è un «ma» esplicativo, non avversativo: poiché la domanda «non ci indurre in tentazione» è al negativo, mentre «liberaci dal male» è al positivo, le due richieste sono collegate con un «ma».
Sorge però un altro interrogativo: «liberaci dal male» è semplicemente un altro modo di dire «non ci indurre in tentazione», è un parallelismo sinonimo, o aggiunge qualcosa, vuol essere quasi una conclusione sintetica del Padre Nostro?
Una indicazione ci può venire dal considerare il verbo «liberaci».
Liberaci». Il verbo greco (rysai) è più pregnante, perché significa «strappaci» dal male. Dà dunque l'immagine di chi è già per esempio azzannato da un leone e viene strappato dalle sue fauci.
Più blando è certamente l'evangelista Giovanni che, riportando la splendida preghiera di Gesù al Padre, usa un verbo più dolce: «Non chiedo che tu li tolga (àres) dal mondo, ma che li custodisca dal Maligno» (17,15), come se l'assalto del nemico non sia ancora avvenuto; e si può quasi parafrasare la frase dicendo: «non permettere che cadano nella tentazione». Invece «liberaci, strappaci» dal male è un grido che suppone si sia già dentro nelle zanne del leone.
L'esempio forse più drammatico dell'uso del verbo ryomai lo troviamo in Mt 27,43. Gesù è sulla croce e gli anziani, i sommi sacerdoti, la gente lo prende in giro: «Ha confidato in Dio. Lo liberi (rysàstho) lui ora, se gli vuol bene». Gesù è già sulla croce e «liberarlo» vuol dire staccarlo, strapparlo dalla croce.
Un' altra occorrenza di questo verbo la troviamo nel Benedictus: «Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri / e si è ricordato della sua santa alleanza, / del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, / di concederci, liberati, (rysthéntas) dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia / al suo cospetto, per tutti i nostri giorni» (Lc 1,72-74). A dire che i nemici non sono una minaccia lontana, ma siamo già nelle loro mani.
E ancora un' esclamazione drammatica di Paolo, al termine della lettera ai Romani: «Sono uno sventurato! Chi mi libererà (rysetai) da questo corpo votato alla morte?» (7,24). lo sono dentro un corpo che mi porta verso la morte, verso il peccato, la degradazione; devo esserne strappato fuori.
A me pare dunque che la parola «liberaci» aggiunga qualcosa rispetto alla domanda «non ci indurre in tentazione»: dalla tentazione possiamo essere preservati, ma quando siamo nelle grinfie di satana, abbiamo bisogno di essere strappati fuori, di essere liberati dalla malvagità che ci circonda da ogni parte, che ci seduce, ci coinvolge, ci travolge. È davvero un grido molto accorato e fa eco ai salmisti. Penso ai salmi del malato, del prigioniero, dello sconfitto, che chiedono di essere tirati fuori dalla fossa, di non essere lasciati in balìa del nemico.
È questo il senso del verbo «liberaci».
* L'altra parola è «dal male», apò tou poneroù.
Anzitutto, non si allude al male filosofico, al male astratto (to kakòn), di difficile definizione. Apò tou poneroù si riferisce all' essere liberati dalla cattiveria, dalla malvagità, da ciò che è malvagio. E può essere considerato sia maschile che neutro, quindi: dal malvagio, dal Maligno, ma anche: dalla cattiveria, dalla malvagità.
Nella lunga storia della Chiesa ci si è sempre chiesti: bisogna intendere «liberaci dal male» o «liberaci dal Maligno»?
La Conferenza Episcopale Italiana ha scelto, per la sua nuova traduzione della Bibbia, una via di mezzo, dopo tanti pro e contro, in cui «Male» è scritto maiuscolo («liberaci dal "Male"»), così che può comprendere tutti e due i significati.
Il problema comunque rimane.
Ci sono diversi esempi nel Nuovo Testamento della parola usata al neutro (to poneròn). Un esempio particolarmente pregnante è quello della lettera ai Romani: «La carità non abbia finzioni. Fuggite il male (to poneròn) con orrore, attaccatevi al bene» (12,9). È chiara la contrapposizione bene-male e indica che to poneròn è da intendersi nel senso di malignità, cattiveria. Esse hanno certamente un referente misterioso, oscuro (satana, l'avversario), ma non è facile distinguerlo dalla malignità che si è introdotta nel mondo e opera dinamicamente, coinvolgendoci. Ci sono tanti casi simili nel Nuovo Testamento e si potrebbe quindi supporre che tou poneroù del Padre Nostro è neutro.
Tuttavia si può anche considerarlo maschile - ed, essendo singolare, può applicarsi chiaramente solo a satana. Parecchie volte nel Nuovo Testamento si ha l'uso del plurale, che rende più chiara l'interpretazione al maschile - «liberaci dagli uomini cattivi».
Interessanti alcuni versetti della seconda lettera ai Tessalonicesi: «Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore si diffonda e sia glorificata come lo è anche tra voi e veniamo liberati (rysthòmen) dagli uomini perversi e malvagi (apò ton atòpon kai poneròn anthròpon). Non di tutti infatti è la fede. Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal maligno (apò tou poneroù)» (3,1-3). È possibile che qui si riferisca al Maligno, a satana.
La risposta alla domanda rimane incerta. Da parte mia, ritengo assai più probabile pensare anzitutto alle forze della malvagità, scatenate magari anche da satana, ma che sono ormai una valanga che percorre il mondo. E come non pensare a certe scene nelle occupazioni, nelle guerre soprattutto in altri continenti, agli stupri in massa in Bosnia, alle azioni atroci dei terroristi ceceni in questi stessi giorni? È il gusto di fare il male, è malvagità pura, è crudeltà.
C'è comunque un'altra ipotesi che mi pare interessante ed è propria del p. Ledrus, che nel suo libretto scrive:
«Il "male" da cui chiediamo a Dio di strapparci va inteso in tutta la sua estensione: il male morale, il peccato, il Maligno».
E aggiunge:
«Il male supremo, sia nel tempo che nell' eternità, è la coscienza cattiva. La coscienza cattiva è, in se stessa, il proprio immanente castigo giustissimo: una autodannazione, l'apostasia, giusto allontanamento da Dio, bene supremo, e insediamento del demonio nell'anima, come nel proprio tempio» (op. cit, p. 43).
È un'interpretazione che mi stupisce e insieme mi attrae. Egli intende per «male» la coscienza cattiva, il gusto di essere immersi nella malvagità e di architettare piani per renderla sempre più pervasiva. Questa coscienza cattiva è già castigo a se stessa, perché rimorde, inquieta, rende nevrotici e folli. E non è fenomeno così raro. Ci sono persone, anche nell' ambito religioso cristiano, che si sono lasciate talmente prendere dall' amarezza, dal disgusto, dallo scetticismo, che sono entrate nel gusto del male e trovano soddisfazione per esempio nello scrivere lettere anonime, nel denunciare persone, nel rovinare la reputazione della gente.
Aggiunge Ledrus:
«Non dice: liberaci dai "mali", perché assolutamente parlando non c'è che un male, la dannazione, l'apostasia definitiva dei figli dal loro Padre» (ivi).
Lo possiamo vedere contemplando la Passione di Gesù. Alcuni teologi ritengono che quando egli grida «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?», ha toccato il fondo del male, è entrato in una situazione simile a quella dei dannati, che si sono separati da Dio. Si può essere «dannati» pure in questa vita, nel senso di un totale allontanamento da Lui. E continua:
«Gli altri mali restano relativi; anche il peccato di cui eventualmente potremo dire" o felix culpa". Ma la dannazione fa una cosa sola con tutto ciò che vi partecipa o vi conduce; e in questo senso tutti i mali dell'uomo formano qui blocco, poiché essi risultano dal peccato ed esprimono la sentenza di condanna che pesa sull'umanità» (ivi, pp. 43-44).
Qualcosa di simile al leggere, che alcuni fanno, il «male» della conclusione del Padre Nostro come il contrario della prima parte della preghiera: Dio non è santificato, il Regno non viene, la volontà di Dio non è fatta. Ancora:
«Il male, quindi, di cui si parla in questa domanda, non si riferisce propriamente al peccato commesso.
Dal peccato commesso siamo liberati, giustificati col perdono divino implorato nella quinta domanda: "rimetti i nostri debiti". La settima domanda si riferisce praticamente alla peccaminosità, a ciò che conduce al peccato, alla malizia, alla corruzione dell'''albero cattivo", sul quale non possono crescere che frutti falsi, opere malvagie. (...)
Quindi qui chiediamo la liberazione, la salvezza dalla ostilità del demonio non isolatamente, ma considerato insieme con i due altri nemici della nostra salvezza: il "mondo" e la "carne", accoliti del demonio» (ivi, p. 44).
Sono sforzi per comprendere appieno il significato misterioso della parola «male», che ne attestano la ricchezza e la fondamentale importanza per la nostra esperienza.

Gli inganni del Maligno
Nel momento della meditatio cerchiamo di rispondere alle domande: come opera il Maligno, inteso sia come satana sia come malignità che ne deriva? E come resistere al Maligno, quindi come opera in noi lo spirito buono?
In proposito vorrei richiamarmi alle Regole per il discernimento degli spiriti che si trovano negli Esercizi spirituali di sant'Ignazio di Loyola e offrirvene una breve sintesi. Egli le propone all' esercitante per insegnargli a discernere i propri movimenti interiori. Così, distinguendo quali sono i suggerimenti del nemico e i suggerimenti dello Spirito, egli sarà in grado di comprendere la volontà di Dio su di sé e di compierla. Sono dunque molto preziose tali Regole per chi compie un cammino spirituale.
Il Maligno opera soprattutto in quattro modi.
- Anzitutto seduce. Nella I Regola sant'Ignazio scrive: «...il nemico, comunemente, suole proporre piaceri apparenti facendo loro immaginare piaceri e godimenti sensuali, perché meglio persistano e crescano nei loro vizi e peccati» (n. 314).
Aggiungo che la seduzione è spesso legata all'illusione. Richiamo l'esempio di un comportamento oggi frequente: mi metto la notte a guardare la televisione, vado in internet per trovare i programmi pornografici, e dico a me stesso: lo faccio non per la mia sensualità, ma perché voglio capire quali immagini vedono i nostri giovani. È un motivo buono, apparentemente, e satana seduce con questo pensiero poiché è solito coinvolgerci e travolgerci con ragioni apparenti. Vi abbiamo già accennato parlando del primo tipo di tentazione, la seduzione appunto.
- Soprattutto chi cammina nella via della verità e del Vangelo viene attaccato dal Maligno con la tristezza. «È proprio dello spirito cattivo rimordere, rattristare, creare impedimenti, turbando con false ragioni affinché non si vada avanti» (n. 315), suggerendo che non siamo capaci, che per noi è troppo, che non ce la facciamo. È il modo di agire ordinario del Maligno con chi cerca di camminare bene, di vivere il Vangelo: rattristarci facendoci perdere coraggio, perdere quota, infondendo tristezza e malinconia.
Sant'Ignazio descrive bene questa desolazione spirituale che oscura l'anima, l'inclina alle cose basse e terrene - quasi un gusto della sensualità -, la inquieta con vari tipi di agitazioni e tentazioni - perdita di punti di riferimento, confusione, disordine -, la rende sfiduciata, senza speranza, senza amore, pigra, tiepida e come separata dal suo Creatore e Signore (cf n. 317). È l'azione tipica dello spirito del male che ci sta agitando, ed è assolutamente indispensabile saperla riconoscere e chiamarla con il suo nome.
- Altra azione dello spirito del male è quella di spaventare. Scrive Ignazio nella Regola XII: «È proprio del nemico indebolirsi, perdersi d'animo e indietreggiare con le sue tentazioni quando la persona che si esercita nelle cose spirituali si oppone con fermezza alle sue tentazioni, facendo in modo diametralmente opposto. Ma se, al contrario, la persona che si esercita comincia ad avere timore o a perdersi d'animo nel fronteggiare le tentazioni, non c'è sulla faccia della terra bestia più feroce del nemico della natura umana che persegua con maggiore malizia il proprio dannato intento» (n. 325). Infatti quando uno è spaventato, titubante, incerto, viene facilmente schiacciato dal demonio.
- Lo spirito del male, dunque, seduce, rattrista, spaventa; e, ancora, occulta, nasconde. «Quando il nemico della natura umana suggerisce a un' anima retta le sue astuzie e persuasioni» soprattutto sotto colore di bene, «vuole e desidera che siano accolte e tenute in segreto: mentre gli dispiace molto se questa le scopre al proprio confessore o ad altra persona spirituale esperta nel conoscere i suoi inganni e le sue cattiverie, perché si rende conto di non poter portare avanti l'opera incominciata, dal momento che sono stati scoperti i suoi inganni» (n. 326).
N on a caso consiglio sempre, specialmente ai giovani preti, di confidarsi con qualcuno, esprimendo le proprie passioni, emozioni, confusioni, perché così si è aiutati a chiarirsi.
- A questi quattro modi di agire del Maligno ne aggiungo un quinto: il nemico cavalca le nostre debolezze fisiche e psichiche; dobbiamo perciò stare molto attenti.
È opera di satana il farci dire: andiamo a letto il più tardi possibile. Così può approfittare della nostra stanchezza fisica, del nostro nervosismo, della nostra irritazione, soprattutto di ogni forma di depressione e di vuoto mentale; quando si accorge che siamo depressi, ci si precipita addosso e ci schiaccia.
Occorre perciò capire il linguaggio del corpo e tenere ben presente che, quando siamo stanchi, nervosi, inquieti, quando siamo un po' esauriti o smarriti, non dobbiamo seguire le nostre inclinazioni e i nostri pensieri, perché potrebbero essere negativi e fuorvianti.
Con l'aiuto delle Regole di sant'Ignazio abbiamo tentato di descrivere alcuni modi di agire in noi del Maligno.

Resistere al Maligno
Noi siamo alleati con lo Spirito di Dio, lo Spirito santo, e con la tradizione della Chiesa. Se non avessimo questi alleati, ci perderemmo. È dunque sommamente necessario saper riconoscere in noi l'azione dello Spirito buono. Vi consiglio in proposito due regole.
- Dobbiamo ascoltare lo Spirito che consola. Dice sant'Ignazio nella II Regola: «È proprio del buono spirito dare coraggio, forza, consolazioni, lacrime, ispirazioni e pace, rendendo facili le cose e togliendo ogni impedimento, affinché si vada avanti nel bene operare» (n. 315). Da questa forza positiva sgorga serenità e facilità. L'angelo delle tenebre ci sussurra: Come potremo rimuovere la pietra dalla bocca del sepolcro? Come faremo se i soldati non ci aiutano? Ma a un tratto l'angelo buono viene e la pietra è rotolata via.
E ancora, è proprio dell' agire del nostro alleato nel bene produrre in noi «qualche movimento intimo con cui l'anima resti infiammata nell' amore del suo Creatore e Signore; come pure quando essa non riesce ad amare per se stessa nessuna cosa creata sulla faccia della terra, ma solamente in relazione al Creatore di tutto» (n. 316). È la cosiddetta consolazione spirituale, è l'aiuto che Dio ci dà per sconfiggere satana.
«Chiamo consolazione ogni aumento di speranza, di fede e di carità e ogni tipo di intima letizia che sollecita e attrae alle cose celesti e alla salvezza della propria anima, rasserenandola e pacificandola nel proprio Creatore e Signore» (ivi).
Tutto ciò che dà respiro, che dà facilità, che dà serenità, che scioglie i problemi, è opera dello spirito buono.
Dobbiamo sempre ricordare che la nostra esistenza è caratterizzata da una conflittualità, nella quale siamo immersi. Non è un cammino evolutivo tranquillo, di bene in meglio; è una lotta, ed è di fondamentale importanza conoscerne le componenti.
- In secondo luogo lo spirito buono ci invita a resistere.
È .indispensabile, nei momenti difficili, tenere duro: «In tempo di desolazione non si facciano mai mutamenti» (regola d'oro!), «ma si resti saldi e costanti nei propositi e nelle decisioni che si avevano il giorno precedente a tale desolazione o nella decisione che si aveva nella precedente consolazione» (n. 318). Purtroppo spesso si compiono scelte nel momento della confusione, del turbamento, dell'amarezza, e risultano sbagliate. «Perché, mentre nella consolazione ci guida e ci consiglia di più lo spirito buono, nella desolazione ci guida quello cattivo con i consigli del quale non possiamo imbroccare nessuna strada giusta» (n. 320). Sono parole da iscriversi veramente in fondo al cuore: io, noi abbiamo la grazia per resistere alle tentazioni, allo spirito del male, con l'aiuto di Dio.
Termino sottolineando che una considerazione realistica e non idilliaca della realtà ci fa capire quanto siamo immersi nel mistero del male, che non si spiega soltanto con la nostra fragilità o la debolezza umana, con i nostri errori. È gusto di fare il male, di far soffrire, è pura malvagità. E non sappiamo spiegarlo direttamente, proprio perché il male è assurdità - l'abbiamo accennato parlando del contesto di male in cui viviamo e che dobbiamo avere presente in questi giorni di esercizi.
Forse possiamo comprendere qualcosa di tale mistero contemplando la croce di Cristo. E mentre, guardando il Crocifisso, intuiamo almeno un poco l'enormità e la perversità delle deviazioni di ogni tipo che funestano il mondo, possiamo esclamare: Signore Gesù, tu hai vinto, hai superato tutte queste malvagità e noi siamo certi che, con la tua grazia, saremo capaci di vincerle e di superarle!

* * *

«Venga il tuo Regno»
Siamo giunti al punto culminante dei nostri esercizi, alla domanda centrale del Padre Nostro: «Venga il tuo Regno». Finora le abbiamo un po' girato attorno, quasi nel timore di affrontarla. Vengono subito alla mente due versetti di Lc 12: «Cercate piuttosto il regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta. Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno» (vv. 31-32).
Noi ti ringraziamo, o Padre, perché ti è piaciuto dare il tuo Regno a noi, piccolo gregge insignificante rispetto al tumulto del mondo, del suo strapotere, della sua violenza, delle sue vanterie per le scoperte sempre più avanzate della scienza. Ti ringraziamo perché dai il Regno a noi, così poco importanti e talora emarginati.
Tu ci inviti a cercarlo e a chiederlo. Donaci dunque di . comprendere in che cosa consista. Certamente corrisponde a un desiderio profondissimo del tuo Figlio Gesù. Fa' che entriamo nel suo cuore, per comprendere questo Regno e perché possiamo camminare verso di esso, lasciando che prenda posto nei nostri cuori e nella nostra vita. Te lo chiediamo, o Padre, per Cristo nostro Signore.
La domanda «venga il tuo Regno» è, secondo alcuni esegeti, la domanda unica e tutte le altre fanno da contorno. Dopo aver riflettuto a lungo, ho preferito la soluzione proposta dal p. Ledrus: «sia santificato il tuo nome» è la domanda più radicale, metafisica, e «venga il tuo Regno» ne è la realizzazione storica; «sia santificato il tuo nome» è la richiesta ancora generale, di carattere assoluto, mentre «venga il tuo Regno» si riferisce alla sua attuazione nella vita di Gesù.
Naturalmente rimane comunque difficile capire ciò che chiediamo con le parole «venga il tuo Regno».
È proprio con la presentazione del Regno che Ignazio di Loyola inizia la Seconda settimana degli Esercizi spirituali; potremmo anzi considerare questo momento del nostro Ritiro come il passaggio dalla Prima alla Seconda settimana. Essa è appunto preceduta dalla contemplazione del Re e del Regno, una meditazione preparatoria e introduttiva, che Ignazio pone all'inizio delle meditazioni sulla vita di Gesù quale chiave interpretativa sintetica: «Fare attenzione a come questo re parla a tutti i suoi e dice: "È mia volontà conquistare tutto il territorio degli infedeli; pertanto chi vorrà venire con me deve accontentarsi di mangiare come me, e così pure bere e vestirsi, ecc.; allo stesso modo, deve lavorare con me di giorno e vegliare con me di notte, ecc.; affinché, in tal modo, dopo partecipi con me alla vittoria, così come partecipò alle sofferenze"» (n. 93).
Tale concezione del Regno è ovviamente nello stile conquistatore tipico del secolo in cui Ignazio è vissuto: si perseguiva la sottomissione di tutti gli infedeli alla potenza di Dio.
Non è sbagliata, però lascia aperta la domanda: in che modo viene il Regno? Viene attraverso una potenza che distrugge i nemici e vince in battaglia, come si pensava a partire dal tempo delle crociate? Oppure è una realtà che viene piuttosto come seme, come lievito, come penetrazione paziente nella massa?
L'invocazione «venga il tuo Regno» lascia adito, mi pare, a tante diverse interpretazioni.
Da parte mia vorrei tentare un approfondimento, articolandolo in quattro considerazioni: la domanda su cosa è il Regno; la constatazione che questo Regno non c'è; che non c'è ma viene; infine la riflessione sugli atteggiamenti con i quali chiediamo che il Regno venga.

Che cos'è il Regno?
È ovvio soprattutto dai sinottici che il regno di Dio è la preoccupazione centrale di Gesù, è il contenuto sintetico della sua predicazione, così come leggiamo fin dall'inizio del racconto di Mare o: «Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo"» (1,14-15).
Il regno di Dio è quindi il centro dell' annuncio di Gesù.
* Le «definizioni» di Gesù. I sinottici mostrano Gesù che in tanti modi parla del Regno, soprattutto nelle parabole, per esempio in Me 4, 26: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra» e in Me 4, 30: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio e con quale parabola possiamo descriverlo?». E l'evangelista ha già posto all'inizio del capitolo, pur senza parlare subito del Regno, la parabola più nota, quella del seminatore, che è anch'essa una parabola del Regno (cf vv. 2-9).
Dunque Gesù parla spesso del Regno, ma in parabole, con paragoni, attraverso metafore, allusioni, immagini, senza mai darne una definizione.
Non è facile comporre in sintesi tutto ciò; per farlo occorre considerare e unificare le molte menzioni del Regno.
* Tentativi di sintesi. A mio giudizio una sintesi ottima la leggiamo nella nota della Bibbia di Gerusalemme a Mt 4, 17:
«La regalità di Dio sul popolo eletto e, per suo mezzo sul mondo, è al centro della predicazione di Gesù, come lo era dell'ideale teocratico dell' Antico Testamento. Essa comporta un regno di "santi" di cui Dio sarà veramente il re, perché il suo regno sarà riconosciuto da essi mediante la conoscenza e 1'amore. Compromessa dalla rivolta del peccato, tale regalità deve essere ristabilita attraverso un intervento sovrano di Dio e del suo messia. Questo !'intervento che Gesù (...) realizza non con un trionfo militare e nazionalistico» (come potrebbe fare sospettare la parabola di Ignazio) «quale lo attendevano le folle, ma in modo tutto spirituale, come "Figlio dell'uomo" e "servo", con 1'opera della redenzione che strappa gli uomini al regno avverso di satana. Prima della sua realizzazione escatologica e definitiva, nella quale gli eletti vivranno col Padre nella gioia del banchetto celeste, il regno apparirà con inizi umili, misteriosi» (il seme buttato nella terra che non si sa in qual modo cresca) «e contradditori, come una realtà già cominciata e che si sviluppa lentamente sulla terra mediante la Chiesa. Instaurato con potenza come regno del Cristo mediante il giudizio di Dio su Gerusalemme e predicato nel mondo attraverso la missione apostolica, sarà definitivamente stabilito e consegnato al Padre con il ritorno glorioso del Cristo nel momento dell'ultimo giudizio. Nell' attesa, esso si presenta come pura grazia, accettata dagli umili e dai diseredati, rigettata dai superbi e dagli egoisti. Vi si entra solo con la veste nuziale della nuova vita; vi sono degli esclusi. Bisogna vegliare per essere pronti quando esso verrà, all'improvviso».
Una nota certamente sintetica, la quale, citando moltissimi passi dei sinottici, fa comprendere che la realtà del Regno non è facile, è complessa, ha inizi modesti, non si propone con la forza delle armi e della conquista, non fa leva sulla potenza umana, ma è soprattutto una realtà che entra nei cuori e deve venire da essi accettata.
In proposito le frasi più pregnanti e più belle le leggo ancora una volta nel testo di p. Ledrus:
«La verità elementare è che Dio domina incondizionatamente e fin dal principio !'intera sua creazione, non esclusa quella libera», Dio è già da sempre re. «Però, parlando ora di "Regno" nel senso evangelico, Dio propriamente regna quando la sua bontà conquista con la mitezza della grazia l'umile spontanea adesione dei cuori liberi. L' onnipotenza divina splende sovranamente nei trionfi della misericordia, quando essa porta a maturazione la vita eterna negli eletti, quando con longanimità risparmia il loglio dello scandalo seminato in mezzo al buon seme della parola», non lo fa sottrarre per forza, «quando trasforma la pietra di inciampo, cioè il successo relativo della malizia - il Calvario - in "pietra angolare" della casa vivente dei figli adottivi. Il Regno evangelico del Padre delle misericordie quindi non si riduce all' effettiva padronanza di Dio che avvolge sotto la sua potenza anche i dannati. Il Regno consiste nella piena libera effusione della vita divina nel cuore e dal cuore degli uomini redenti» (ap. cit., pp. 98-99).
Qui è sottolineato con grande efficacia il carattere di libertà, di spontaneità, di progressività, di mitezza proprio del Regno.
E ancora:
«Questo Regno (...) è nientemeno l'operazione apostolica dello Spirito santo, considerata nelle tappe della sua diffusione e specialmente nell'ordinamento celeste della vita cristiana come avvenimento universale dell' eternità gloriosa. Il "venga il tuo regno" è una domanda ispirata dalla premura che si sviluppi il Regno già iniziato; che si attui come primizia in questa vita e come compiutezza nell'ultimo risorgere». Questo Regno, «questa vita potente, manifesta e vittoriosa, di Cristo nei suoi è la realtà misteriosa più solida, più imponente che si svolga nell'universo, il fatto più denso, più memorabile, più indimenticabile della storia: il Regno incominciato, il Regno in movimento, il Re vivente nel suo regno» (i v i, pp. 99-100).
È bello notare che tutto ciò mostra quanto sia ricco questo concetto e come sia diffuso in tutti i vangeli.
* Una realtà che si comprende nella sequela di Gesù.
Abbiamo già detto che Gesù non ha mai voluto dare una sintesi breve della natura del Regno; ha sempre lanciato parabole, indicazioni di atteggiamenti - come le beatitudini -, con indicazioni etiche, morali, teologiche, per far comprendere una realtà non così facile da mettere in ordine teoreticamente, ma che è compresa da chi la vive.
La preghiera «venga il tuo Regno» afferma il desiderio umile del discepolo che una realtà dagli inizi poveri, miti, quasi disprezzati, a poco a poco conquisti il cuore degli uomini e sia gioiosamente e liberamente accolta.
È la grandezza del Regno, tutto giocato sulla libertà, sulla mitezza, sulla spontaneità, sulla persuasione; ed è la sua debolezza, perché non è affidato a una potenza, a un esercito, alla capacità di piegare il consenso degli uomini né con la forza delle armi, né con il potere economico, né con il potere intellettuale o politico. È una realtà intima del cuore, che tuttavia conquista l'universo mediante il cambiamento della vita che essa produce - pensiamo alle beatitudini, che sono l'espressione tipica dello stile di vita del Regno.
A questo punto potete capire che sono imbarazzato nel darne una definizione precisa. Cerco di arrivarci attraverso le differenti citazioni e soprattutto invocando lo Spirito santo affinché ci doni una profonda comprensione dei vangeli in modo da permetterci di cogliere il giusto senso del Regno, come si propone nel Discorso della montagna, nel discorso in parabole, nel discorso missionario e in tanti altri detti di Gesù.
Dunque il Regno è una realtà che non viene etichettata in maniera facile, ma viene vissuta seguendo giorno dopo giorno Gesù e dando fiducia alle parole del suo Vangelo. Una realtà che si vive mettendosi alla sequela di quel Gesù che fin dall' inizio della sua missione pubblica, al Giordano, si umilia mettendosi in fila tra i peccatori e dichiarando così che vuole proclamare il Regno nell'umiltà, nel nascondimento, nel disprezzo dei privilegi.
È perciò giusto domandare che il Regno venga, perché non può essere una nostra conquista. È Dio che opera il Regno, è Lui che entra nei cuori e li avvince; è Lui, con la grazia dello Spirito santo, che prende possesso delle anime e le trasforma a immagine di Gesù. In altre parole, il Regno è Gesù, è la sua vita, il suo modo di vivere, di amare, di soffrire: proprio per questo il Regno si propone in maniera formidabile e incontrovertibile nella croce, nella morte di Gesù per amore.
«Venga il tuo Regno» è una richiesta altissima e forse dobbiamo dire, come un giorno Gesù ai discepoli: «Voi non sapete quello che chiedete» (Mt 20,22). Chiediamo intuendo più che ragionando, più desiderando .col profondo del cuore che avendo davanti agli occhi un'immagine ben precisa. Questo è tipico del regno di Dio, della sua libertà, della sua spontaneità, della sua capacità di conquistare i cuori senza forzarli, e insieme della sua insignificanza, della sua non visibilità.
* Le definizioni di Paolo. Se Gesù non si è sprecato in definizioni del Regno ed è stato piuttosto restio e parco, san Paolo in particolare ci offre qualche maggiore chiarimento nelle sue lettere apostoliche: ne parlano poco, ma in maniera molto convincente e sintetica.
- Penso a Rm 14,17: «Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito santo». È una bellissima «quasi definizione» del Regno: giustizia, però giustizia del Regno, giustizia misericordiosa di Dio, a cui segue pace e gioia nello Spirito santo.
- C'è un altro passo splendido di Paolo, che non dà una definizione bensì una descrizione di atteggiamenti: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal5,22). Questo è il frutto dello Spirito, ed è il Regno.
- Posso forse citare inoltre 1 Cor 4,20, un versetto un po' enigmatico e però illuminante. «Verrò- scrive Paolo a coloro che lo criticano - e mi renderò conto allora non già delle parole di quelli, gonfi di orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare. Perché il regno di Dio non consiste in parole, ma in potenza» (vv. 19-20), potenza che è soprattutto e anzitutto trasformazione della vita dell'uomo, e anche capacità di operare miracoli attraverso tale trasformazione.
Ho voluto mettere insieme alcune descrizioni e definizioni del Regno, così che possiamo comprendere che occorre tutta una vita per entrare nel senso profondo della domanda: «Padre, venga il tuo Regno».

Come lievito e seme
Il nostro ripetere l'invocazione dimostra, d'altra parte, che il regno di Dio non c'è ancora in pienezza. Esso infatti è nascosto, è un lievito, è un seme, è una piccola pianticella, è un filo d'erba e ci vuole l'occhio della fede per scorgerlo.
Oggi è certamente più visibile la potenza di satana, ma sappiamo che tutta l'opera di Gesù consiste nel legare tale potenza satanica - che si esprime nel peccato, nell' orgoglio, nella voglia di successo, nello strapotere, nello schiacciare gli altri - affinché venga il Regno.
«Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa» (M c 3,27). Gesù è colui che ha legato l'uomo forte. L'ha fatto durante tutta la sua vita e particolarmente nella sua Passione e morte, quando ha legato satana, ha legato la forza della morte e l'ha vinta.
Nell' oggi che viviamo, l' «uomo forte» è ancora in azione e in qualche modo sembra dominare. La nostra fede però scorge, nonostante il suo apparente strapotere, la presenza silenziosa del Regno già in atto che si oppone a satana e, quale seme e lievito, fermenta la storia.

Il venire del Regno
Come viene il Regno? Non certo in forza delle nostre opere, bensì con la forza di Dio, con la forza di Gesù, con la grazia dello Spirito santo. Noi desideriamo chiedere con fiducia che la potenza umile di Gesù si manifesti fino allo svelamento completo e definitivo.
Alcuni esegeti discutono se con «venga il tuo Regno» si intende quello finale escatologico oppure un Regno che viene nell' oggi, giorno dopo giorno. Penso più consono con l'insieme delle nostre riflessioni considerare la domanda riferendola al presente: «venga il tuo Regno»; cioè si manifesti, o Signore, la potenza umile, discreta, misteriosa, modesta, mite, convincente della tua verità.
Ovviamente guardiamo anche alla pienezza definitiva: venga il Regno nella sua manifestazione finale, quando la morte sarà sconfitta e non ci saranno più né lacrime né terrore né violenza, «perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).
Un'ultima osservazione vorrei fare sul venire di questo Regno.
Abbiamo visto che la domanda si trova in Luca forse nel suo contesto più preciso. Sappiamo tuttavia che il capitolo 11 di Luca è preceduto da quelle dichiarazioni con cui Gesù a poco a poco fa capire di che natura è il suo Regno.
La prima: «Il Figlio dell'uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, essere messo a morte e risorgere il terzo giorno» (9,22).
La seconda: «Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua di partita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (vv. 30-31).
C'è poi una terza dichiarazione: «Mentre tutti erano sbalorditi per tutte le cose che faceva» e si aspettavano che il Regno si manifestasse con potenza, con la sconfitta degli oppositori, «disse ai suoi discepoli: "Mettetevi bene in mente queste parole: Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato in mano degli uomini"» (vv. 43-44).
Dunque Gesù realizza il Regno attraverso la sua Passione.

In speranza e pace
Quali sono allora gli atteggiamenti con cui esprimere questa domanda e gli atteggiamenti da essa suggeriti?
A me sembra che, se è valido quanto ho tentato di spiegare, l'atteggiamento fondamentale non è lo sforzo affinché venga il Regno, quasi dovessimo tirarlo giù dall' alto con violenza, bensì un atteggiamento di speranza e di pace.
È l'auspicio di Paolo: «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito santo» (Rm 15,13).
Questa preghiera nasce da una grande speranza, da un' assoluta fiducia, da un totale abbandono al Signore. E mentre la recitiamo vogliamo camminare sulle orme di Gesù, che ci insegna come il Regno viene vivendo una vita di povertà, di amore, di perdono, di dono di sé fino alla morte.
È certamente una richiesta molto esigente, che comprende l'intero Vangelo, e non riusciremo mai ad approfondirla pienamente; il suo significato ci sarà rivelato nello snodarsi dei giorni, se pregheremo con umiltà e ci sforzeremo di testimoniare gli atteggiamenti indicati da Gesù come tipici del Regno, a partire dalle beatitudini.

* * *


«Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»
All'inizio di questa meditazione rileggo con voi alcune parole del Testamento spirituale di papa Giovanni XXIII, là dove dice: «Nell' ora dell' addio, o meglio dell' arrivederci, ancora richiamo a tutti ciò che vale nella vita: Gesù Cristo benedetto, la sua santa Chiesa, il suo Vangelo, e nel Vangelo soprattutto il Pater noster, nello spirito e nel cuore di Gesù e del Vangelo».
Mi colpiscono le sue parole, perché oggi è il primo venerdì del mese, dedicato tradizionalmente al Cuore di Gesù. Noi in questi giorni stiamo proprio cercando di entrare nel suo cuore, nella sua preghiera, nella preghiera che ci ha insegnato e che certamente corrisponde a quanto c'era di più profondo nella sua coscienza intima.
Abbiamo ricordato nella meditazione precedente che nel più profondo della coscienza di Gesù albergava il desiderio del Regno e ci siamo accorti di come sia difficile definirlo, perché il Regno è lui, nella sua vita, Passione, morte, risurrezione e ascensione, e dovremmo perciò avere in noi i suoi stessi sentimenti.
Ti chiediamo perciò, Signore Gesù, la grazia di poter compiere l'esperienza di cui parla Paolo quando ci esorta: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil2,5); ti chiediamo la grazia di conoscerti intimamente attraverso la meditazione sulla preghiera del Padre Nostro nella quale hai messo tutto il tuo cuore. Oggi è la memoria liturgica di san Gregorio Magno, un santo che ho sempre amato molto, e affidiamo alla sua intercessione il nostro desiderio di comprenderla appieno.
L'invocazione sulla quale vogliamo riflettere oggi, «sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra», è riportata solo da Matteo, non da Luca. Ci si domanda se è Luca che l'ha tolta o se è Matteo che l'ha aggiunta. Sembra difficile che Luca l'abbia tralasciata, se faceva parte della preghiera originaria; e d'altra parte corrisponde pienamente, e lo vedremo, al senso e allo spirito del cuore di Cristo. Quindi questa parola, che non sarebbe strettamente necessaria, perché nella richiesta del Regno è già compreso tutto, è però molto utile e Matteo ha voluto accoglierla, a dire che il Regno si realizza concretamente nel compimento della volontà di Dio.
In questi giorni ci proponiamo appunto come scopo di cercare la volontà di Dio nella nostra vita. Come dice sant'Ignazio nella prima Annotazione, gli esercizi spirituali si fanno per «preparare e disporre l'anima a togliere da sé tutti i legami disordinati e, dopo averli tolti, a cercare e trovare la volontà divina nell'organizzazione della propria vita per la salvezza dell' anima» (n. 1):
Teniamo presenti quale sfondo i versetti drammatici di Matteo 26. Mostrano come Gesù, che pure ha desiderato tanto la venuta del Regno perché la volontà del Padre si compia, fa fatica ad accettarla: «E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!"» (v. 39). E finalmente: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (v. 42). Quindi l'invocazione del Padre Nostro è espressa da Gesù nel momento più oscuro della sua vita.
Domandiamo alla Madonna, che ha sempre fatto il beneplacito di Dio e a esso si è consacrata dopo l'annuncio dell'angelo, di poter capire che cos'è questa volontà che ci auguriamo si compia «come in cielo così in terra».
Su questo tema, dopo una premessa, svolgerò due riflessioni: la volontà di Dio in Gesù e nei discepoli; la volontà di Dio in noi. Per concludere con qualche considerazione sulle parole «come in cielo così in terra».

Premessa
La volontà di Dio può essere intesa in due modi: c'è quella trascendentale e quella categoriale.
- Potremmo definire la volontà di Dio trascendentale come il suo piano globale, il suo disegno sull'universo, quel piano globale, quel disegno che è la salvezza di tutti ed è esposto forse nella maniera più bella e sintetica dall' evangelista Giovanni: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (3,16-17). Questa è la volontà di Dio trascendentale, che abbraccia tutto, che spiega tutte le situazioni, che penetra in tutte le vicende della storia.
Tale volontà universale è cantata da Paolo nello stupendo inno della lettera agli Efesini, soprattutto al capitolo 1, vv. 9-10: «Poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà / secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito / per realizzarlo nella pienezza dei tempi: / il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, / quelle del cielo come quelle della terra».
E ancora in Col 1,15-20 Paolo spiega: «Cristo è immagine del Dio invisibile / (...). Tutte le cose sono state create / per mezzo di lui e in vista di lui / (...). Perché piacque a Dio / di fare abitare in lui ogni pienezza / e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, / rappacificando con il sangue della sua croce, / cioè per mezzo di lui, / le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli». Qui la volontà trascendentale già diventa, col riferimento alla croce, in qualche modo categoriale, cioè più concreta.
Nella prima lettera a Timoteo poi l'Apostolo invita a pregare per tutti, perché «questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (2,3-4). È il piano globale di Dio, è la sua volontà, il suo disegno di salvezza che riguarda tutti gli uomini; ed è per noi conforto sapere che ciò che Dio vuole si effettuerà.
- La volontà di Dio che chiamiamo categoriale si concretizza invece nel tempo, è quella che riguarda l'oggi, il «qui e ora», e non va mai separata dalla volontà trascendentale.
In particolare si esprime nei comandamenti, nel Decalogo; questa è la volontà di Dio per il nostro tempo, specialmente il grande comandamento della giustizia.
Gesù risponde al giovane ricco: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti. Ed egli chiese: "Quali?". Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso"» (Mt 19, 17-19).
Splendida anche la risposta di Gesù sul comandamento dell'amore: «Un dottore della legge lo interrogò per metterlo alla prova: "Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?"», cioè la volontà di Dio più importante. «Gli rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo
è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti"» (Mt 22,35-40).
La volontà di Dio si concretizza in precetti, comandi, azioni che vengono richieste per essere come Lui vuole, per essere suoi figli, per vivere davvero lo spirito filiale.
Troviamo nel Nuovo Testamento altre espressioni della volontà di Dio concreta, per esempio: «Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (Mt 18,14). Un altro passo importante è nella epistola ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (12,1-2).
Abbiamo inoltre un esempio molto bello di conformità alla volontà divina categoriale negli Atti degli Apostoli, là dove si dice di Davide: «Dio suscitò per loro come re Davide, al quale rese questa testimonianza: "Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore. Egli adempirà tutti i miei voleri"» (13,22).
Il volere categoriale di Dio è quello che, quando lo compiamo, ci rende davvero suoi figli, ci fa essere «secondo il suo cuore».
Giungiamo in questo modo al punto che ci prende più da vicino: come conosco io la volontà di Dio, ciò che è a lui gradito, ciò che è buono, ciò che è perfetto?
Vediamo di arrivarci per gradi.

La volontà di Dio
in Gesù e nei discepoli
- Anzitutto, i vangeli mostrano Gesù tutto immerso nella volontà del Padre. Quando esclama: «Sia fatta la tua volontà» esprime la sua più profonda intenzione quotidiana: il Regno si compie facendo la volontà di Dio.
Cito qualche brano dell' evangelista Giovanni. Gv 6,38: «Sono disceso dal cielo non per fare la
mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato»; v. 40: «Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna». Di nuovo, 8,29: «Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite». E questo ci ricorda quell'altro brano così bello in cui Gesù, presso il pozzo di Samaria, ai discepoli che lo pregano di mangiare, risponde: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4,34).
Possiamo contemplare Gesù immerso, trasfigurato, identificato nella volontà di Dio.
- L'adesione a tale volontà caratterizza pure i discepoli. Ricordo almeno un passo di Matteo e uno di Marco.
Alla fine del Discorso della montagna leggiamo: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (M t 7,21). Dunque su questo Gesù pone l'accento: non ripetere «Signore, Signore», ma fare la volontà del Padre.
E ancora più teneramente e affettuosamente, affettivamente, Gesù si esprime nel testo di Marco: «Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre"» (3,34-35). Facendo la volontà di Dio acquistiamo un' intimità unica con Gesù, che supera tutti i legami familiari e affettivi di questo mondo, perché è la volontà di Colui che ci ha creato, che ci ama, che ha dato per noi la sua vita, che è tutto per noi. E noi diventiamo tutto per lui: «Il mio diletto è per me e io per lui», secondo la formula del Cantico dei cantici (2,16).

La volontà di Dio in noi
Qual è la volontà di Dio in me, in noi, nella Chiesa, nel mondo?
* Certamente essa si esprime in modo molto chiaro nei comandamenti e nei precetti della Chiesa, e anche nelle disposizioni del Diritto canonico, pur se con valore obbligante diverso a seconda del contenuto.
Tale volontà di Dio si esprime pure con gli obblighi assunti liberamente verso Dio e verso gli altri. A questo proposito ricordo che, avendo seguito come vescovo di una grande diocesi con migliaia di preti alcuni casi di crisi sacerdotale, mi colpiva negativamente il fatto che, anche nelle crisi più sincere, ci si chiedeva: ma che cosa vuole Dio da me? Si dimenticavano completamente gli obblighi assunti verso la Chiesa, verso i fedeli, verso la società, cioè una realtà fondamentale per vivere la volontà di Dio: rispettare i patti, gli impegni presi, mantenere le promesse. Anche questa è volontà di Dio. Naturalmente ci possono essere situazioni di eccezione, e la Chiesa infatti giunge talora alla dispensa. Tuttavia quando uno ha assunto un obbligo verso una comunità concreta, soprattutto se lo ha fatto pubblicamente, solennemente, non può dispensarsene quasi non esistesse e come se l'unica cosa a contare fosse la propria esistenza personale di fronte a Dio. Si è invece legato ufficialmente di fronte a una comunità e deve tener conto degli obblighi, delle conseguenze dei suoi gesti di fronte a essa.
* Comunque, al di là di queste precise indicazioni della volontà di Dio, rimangono ancora molti spazi nei quali il Signore immediatamente ci può fare delle richieste. È lo spazio dell'immediatezza dello Spirito, quello per il quale abbiamo detto all' inizio che gli esercizi sono una forza, una dinamica, un ministero dello Spirito e un ministero dell'immediatezza, in quanto riguardano, oltre a ciò che Dio ci domanda coi suoi comandamenti e precetti, richieste che non si trovano in nessun comandamento o precetto o Codice di diritto canonico, perché sono la storia di Dio con me, la sua immediata parola che mi tocca.
Rientra in questa prospettiva per esempio la vocazione. Nessuno è stato obbligato dal Codice di diritto canonico, dalla Chiesa ad assumerla. È la storia di Dio con me, è la mia risposta alla sua parola.
E nell' ambito della vocazione, ci sono pure delle scelte che sono affidate alla immediatezza del contatto quotidiano con Dio e sono quindi oggetto di discernimento quotidiano. Penso ai tempi e ai modi della preghiera; ai tempi e ai modi del lavoro e del riposo; al modo di regolare le amicizie, a tutto quanto riguarda il campo dello zelo apostolico, dove le nostre scelte o le nostre iniziative non sono obbligate, ma vanno confrontate con la volontà di Dio, sono appunto oggetto di discernimento.
Conoscere la volontà di Dio è importante per la mia pace, per la mia verità, per l'autenticità della mia vita che si gioca sulla parola di Gesù comunicatami attraverso lo Spirito. Tuttavia non è cosa facile. Quante volte ci chiediamo, anche magari con qualche ansietà: sto davvero facendo la volontà di Dio? Le imprese in cui mi sono imbarcato, la scelta che ho compiuto piace davvero a Dio? Talora la domanda è angosciosa e qualche volta l'incertezza può tormentarci per un tempo lungo.
All'interrogativo di come arriviamo a conoscere la volontà di Dio, una domanda che anche noi preti ci sentiamo porre sovente dalla gente - Dio vorrà davvero questo da me? Forse vuole qualcosa di più che non ho ancora capito? - non c'è risposta matematica. Anzi io credo che il Signore ci mette in uno stato di qualche inquietudine, proprio perché attraverso la ricerca noi ci purifichiamo, ci liberiamo dalle nostre voglie disordinate o semplicemente fragili, fantasiose, e cerchiamo davvero ciò che il Signore vuole per noi.
Per aiutarci nel difficile impegno del discernimento, possiamo ricorrere ad alcune «regole», che desidero ora richiamare, perché vi potranno essere utili in questi giorni di esercizi e pure in seguito, nella vita normale.
Per spiegare la prima, forse la più sicura, vorrei servirmi dell' icona di Mosè sul monte: «Mosè disse a Dio: "Mostrami la tua Gloria!". Rispose: "Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò avere misericordia". Soggiunse: "Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo". Aggiunse il Signore: "Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere"» (Es 33,18-23).
Mosè chiede di vedere il volto di Dio – che significa conoscere chiaramente la sua volontà - ma non lo vedrà. Però una volta che Dio sarà passato, da dietro lo vedrà.
Comprendiamo da questa immagine che la volontà di Dio è palese soprattutto quando noi perseveriamo nella pace. Quando cioè perseveriamo in qualche decisione presa, magari non facile, anche nelle prove, anche nell' aridità, con una qualche profonda pace interiore, è segno che la stiamo compiendo. Dunque, la si riconosce non di rado a posteriori; e ogni scelta è un rischio. Ricordo un' esperienza vissuta a Milano, quando ho proposto ai giovani l'iniziativa del cosiddetto Gruppo Samuele, dicendo loro che, se desideravano conoscere la volontà di Dio e mettere la propria vita a sua disposizione a 360°, potevano compiere con me il cammino di un anno. Alle centinaia di giovani che con grande generosità avevano accettato la proposta tenevo un incontro mensile, dopo il quale davo per così dire dei compiti a casa e spiegavo le Regole del discernimento degli spiriti secondo sant'Ignazio.
Rimasi colpito dal fatto che la domanda più ansiosa postami da quei giovani e da quelle ragazze, che pur vivevano l'itinerario con molta intensità, era: ma sono davvero sicuro di trovare la volontà di Dio? lo sceglierei la vita consacrata, la vita sacerdotale, ma se fossi sicuro al cento per cento che Dio lo vuole. E io rispondevo: se volete essere sicuri, non deciderete mai. La vita è un rischio e le scelte, specialmente quelle riguardanti il nostro esistenziale, vanno rischiate. Dovranno essere oggetto di discernimento, attraverso la preghiera, il consiglio, la riflessione; tuttavia non avremo mai la certezza matematica che la nostra scelta corrisponde alla volontà di Dio. È una certezza che avremo solo col tempo e perseverando nella pace.
Vi consiglio di leggere due testi del libro di Isaia, dove si parla appunto del sostegno di Dio che ci accompagna nella nostra fragilità colmandoci di pace: «Poiché dice il Signore Dio, / il Santo di Israele: / "Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, / nell' abbandono confidente sta la vostra forza"» (30,15); «Non lo sai forse? / Non lo hai udito? / Dio eterno è il Signore, / creatore di tutta la terra. / Egli non si affatica né si stanca, / la sua intelligenza è inscrutabile. / Egli dà forza allo stanco / e moltiplica il vigore allo spossato. / Anche i giovani faticano e si stancano, / gli adulti inciampano e cadono; / ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, / mettono ali come di aquile, / corrono senza affannarsi, / camminano senza stancarsi» (40, 28-31).
La perseveranza nella pace è davvero un segno della volontà del Signore.
Ci sono poi altri modi per discernere e sant'Ignazio li descrive ampiamente. Mi limito a richiamare almeno il brano che descrive in generale i tempi per fare una buona scelta.
- Il primo tempo «è quando Dio stimola e attira tanto la volontà che l'anima fedele, senza dubitare né poter dubitare, segue quello che le viene mostrato, come fecero san Paolo e san Matteo quando seguirono Cristo nostro Signore» (n. 175).
È un modo di discernimento quasi carismatico, potremmo dire, e però non è così raro. Ci sono scelte sicure, tranquille, scelte nelle quali non abbiamo nessun dubbio (Dio me lo chiede e io mi butto). Personalmente ho sempre detto che la mia scelta di andare a Gerusalemme non ha nessuna ragione logica, è una scelta carismatica. E in questo mi sento consolato e sorretto dalle parole di Paolo nel Discorso di Mileto, là dove dice: «Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà» (At 20, 22). La scelta carismatica non comporta la valutazione di pro e contro, non è nemmeno la ricerca di qualche particolare missione, è piuttosto un influsso dello Spirito. E almeno fino ad oggi non ho avuto il minimo dubbio sulla mia scelta, che mi pare confermata.
- Il secondo tempo «è quando, attraverso l'esperienza delle consolazioni e delle desolazioni e attraverso quella del discernimento degli spiriti, si raggiunge una grande chiarezza di idee» (n. 176) - non chiarezza assoluta. È l'applicazione delle Regole del discernimento che ho già ricordato: ci incliniamo soprattutto verso ciò a cui siamo mossi dallo Spirito considerando dove ci fa rimanere con gioia e dove al contrario suscita in noi amarezza, disgusto, valutando cioè il pro e il contro delle consolazioni e delle desolazioni.
Così troviamo a poco a poco la volontà di Dio. Tante vocazioni sono nate in questo modo: da un certo disgusto, dal rilevare l'insufficienza per noi di un' attività mondana, di un' affettività, di una situazione. Ci sentiamo allora chiamati a fare di più, per opera dello Spirito che ci attrae.
- Il terzo: «È di tranquillità: quando cioè una persona, tenendo presente perché l'uomo è nato, cioè per lodare Dio nostro Signore e per salvare la propria anima» - la volontà di Dio trascendentale «e volendo ottenere ciò, sceglie come mezzo un genere o stato di vita nell' ambito della Chiesa per essere aiutata nel servizio del Signore e nella salvezza della propria anima. Ho parlato di tempo tranquillo, quando, cioè, l'anima non è agitata da vari spiriti e usa le proprie potenze naturali liberamente e tranquillamente» (n. 177).
È il tempo della razionalità, sempre ispirata dalla fede e dal Vangelo, in cui però si valutano gli argomenti a favore e quelli contrari. Così accade per molte decisioni pastorali: non nascono semplicemente da un impulso carismatico, ma perché, avendo passato in rassegna i pro e i contro alla luce della dottrina della Chiesa, della psicologia e della sociologia, scegliamo questo o quel modo di agire.


Perché venga la Gerusalemme celeste
Resta da commentare - e non è facile - l'ultima parte della domanda del Padre Nostro: «come in cielo così in terra».
È vero che la corrispondenza cielo-terra appare più volte nel vangelo di Matteo.
Nella meditazione su «Padre nostro che sei nei cieli» ho già citato la promessa fatta a Pietro: «Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (16,19), nella sua ripresa in 18,18: «Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo»; e ho ricordato le parole: «In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accordano per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà» (v. 19).
Questa corrispondenza è dunque abbastanza usuale per l'evangelista Matteo.
Ho riflettuto molto su che cosa può significare nel suo insieme l'espressione «sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra». E mi sembra di dover forse anzitutto sottolineare il fatto che non si tratta di un proposito - pur se ci siamo soffermati a lungo sulla nostra ricerca per conoscere e compiere ciò che Dio vuole -, ma di un'invocazione. Chiediamo che Dio agisca, che la sua volontà si compia, sia quella trascendentale sia quella categoriale.
Considerando questo, mi pare che «come in cielo così in terra» si può tradurre: si compia la tua volontà, la tua giustizia, la tua verità, la tua pace, con quella prontezza, eleganza, gioia, decisione, precisione, con cui si compie in cielo.
Se il regno di Dio è la Gerusalemme celeste che inizia, il nostro desiderio è che finalmente venga la Gerusalemme celeste dove non c'è più pianto né dolore, dove le cose di prima sono passate, dove regna stabile la giustizia; venga nel compiersi delle particolari volontà di Dio, che tocca a noi compiere con certezza, pace, gioia, facilità. La nostra domanda è che l'insieme della terra faccia risplendere la pace e la luce proprie della dimora di Dio, della pienezza della Gerusalemme celeste.

Signore, tu sai quello che vuoi da noi. Spesso noi non lo sappiamo bene e magari perdiamo tempo girando e rigirando su strade sbagliate. Donaci la luce e la chiarezza per comprendere ciò che ti aspetti da noi e la forza di metterlo in pratica con serenità, con scioltezza e ardo re, così come contempliamo compiersi in cielo la tua volontà

* * *


«Dacci oggi il nostro pane quotidiano»
In questo momento, in quest'ora del venerdì, a Gerusalemme si sta facendo la Via Crucis per le strade della città e si giunge fino all' altare della Madonna Addolorata, quasi per concludere il cammino verso il Calvario e poi al Sepolcro. Chiediamo perciò l'intercessione di Maria per unirci a quel cammino, che raffigura la sofferenza di Gesù e dell'umanità intera.
C'è ancora una domanda del Padre Nostro che non abbiamo considerato ed è la richiesta del pane quotidiano. È la più piccola, potremmo dire quasi la meno interessante, la più modesta, e però forse quella che ci tocca più immediatamente.
Ed è curioso che ci sia questa domanda e non altre. Mi sono detto sovente: perché non si desidera ottenere la fede, la speranza, la carità, ma semplicemente il pane quotidiano?
Cerchiamo di capire dunque il senso di queste parole, fiduciosi che lo Spirito ci può illuminare sulla profondità e sulla verità di ciò che Gesù ci fa chiedere.

Quale pane?
A differenza delle prime tre invocazioni, dove all'inizio c'è il verbo (<<sia santificato il tuo nome», «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà»), qui all'inizio troviamo il sostantivo: «il pane nostro quotidiano dacei oggi». È messo quindi in rilievo il pane.
* Che cosa si intende con «pane»?
Certamente il pane materiale, ma si può allargare il significato riferendosi al fabbisogno di una giornata, a ciò che è necessario e indispensabile per sopravvivere.
* Il pane - dice il testo greco - «emòn», «di noi», nostro, «ton epioùsion».
Che cosa voglia dire «il pane ton epioùsion» nessuno lo sa.
È un termine greco di cui a tutt'oggi non si è chiarito pienamente il significato; ricorre solo in questo passo della Scrittura e in un papiro antico, dove pure non è sicuro ciò che si intende - forse riguarda il vitto, le derrate quotidiane. Del resto le versioni antiche, che vanno un po' in tutti i sensi, ci confermano che la parola è di difficile interpretazione.
La versione Vetus latina traduceva «quotidiano», come traduciamo noi oggi; non si saprebbe però giustificare tale scelta. La Volgata di san Girolamo traduceva «supersostanziale», sovrasostanziale, intendendo il pane celeste, il pane dell'Eucaristia, il pane dell' amore infinito del Padre, il pane della vita eterna.
La versione siriaca traduceva «perpetuo», per indicare anch' essa che non riguarda soltanto l'oggi, bensì ci viene dato nell' oggi per l'eternità. Un' altra versione siriaca parla di «necessario».
Interessante è pure la traduzione sahidica: «che viene», il pane che viene; forse è la traduzione grammaticalmente più esatta, che rende meglio il significato del verbo greco. In un' altra traduzione coptica troviamo «di domani», il pane di domani; a dire che chi lavora a giornata ha già avuto il pane dell' oggi e, ricevendo la mercede alla sera, può comprare il pane di domani.
Comunque nessuno sa esattamente quale sia la versione migliore. La versione CEI e altre hanno optato per il termine «quotidiano» e noi ei atteniamo a questa scelta, che comunque ha una sua logicità.
* Notiamo da ultimo che, se la domanda nel testo di Matteo suona: ton àrton emòn ton epioùsion dos emìn sémeron, «il pane nostro quotidiano da' a noi oggi», leggermente diversa è la domanda nel vangelo di Luca, che esprime il medesimo contenuto con altre forme verbali: ton àrton emòn ton epioùsion dìdou emìn to kath 'eméran, «il pane nostro quotidiano continua a dare a noi quello di ogni giorno». Luca sembra un po' più previdente, in quanto non chiede solo il pane per l'oggi, bensì il pane che viene dato ogni giorno.

Chi prega così?
Possiamo approfondire la riflessione domandando ci chi è il soggetto che esprime la richiesta, a chi essa si attaglia bene.
* Alcuni esegeti, soprattutto coloro che interpretano il Padre Nostro come la preghiera che Gesù consegna ai discepoli itineranti, i discepoli che manda in missione senza bisaccia e senza denaro (cf Lc 10,4), ritengono che sia valida anzitutto per loro. Hanno lasciato tutto, non hanno nulla e domandano ogni giorno con fiducia che il Padre del cielo dia loro quel tanto di cui hanno bisogno per sopravvivere, così da poter predicare nell' oggi il Vangelo, senza preoccuparsi del domani. La domanda suppone un' estrema povertà e un' estrema fiducia.
È certo l'interpretazione più radicale.
* Ovviamente questa domanda, inserita nei vangeli, si adatta poi ad altre situazioni. Così, per esempio, alla situazione del discepolo in generale, non semplicemente del discepolo itinerante che va in giro senza provviste, ma di ogni discepolo che ha deciso di seguire Gesù e non. fa comunque conto sulle sue ricchezze né ha tante pretese; non vuole arricchire, non vuole grandi sicurezze, chiede soltanto l'aiuto giorno per giorno.
* La terza situazione che possiamo intravedere dietro alla richiesta è quella dell'uomo che si sa fragile, debole, in precari età, e confida perciò nel Padre. È una bella preghiera di fiducia: il Padre vostro sa che avete bisogno di tutte queste cose. Il Padre vostro provvede agli uccelli dell' aria, ai gigli del campo, provvederà anche a voi (cf Mt 6,25 ss.).
In questo senso la richiesta del pane corrisponde un poco alla spiritualità che traspare dal libro dei Proverbi, per esempio in 30, 7-9: «lo ti domando due cose, / non negarmele prima che io muoia: / tieni lontane da me la falsità e la menzogna, / non darmi né povertà né ricchezza; / ma fammi avere il cibo necessario, / perché, una volta sazio, io non ti rinneghi / e dica: Chi è il Signore?» - basto io per me - «oppure, ridotto all'indigenza, non rubi / e profani il nome del mio Dio».
Qualcosa di simile leggiamo nel Proverbio del c. 27 vv. 1-2, che può pure servire bene come commento alla richiesta del pane nel Padre Nostro: «Non ti vantare del domani, / perché non sai neppure che cosa genera l'oggi». In altre parole: sii contento dell' oggi, sii contento di ciò che il Signore oggi ti dà, il domani penserà a sé. È la spiritualità che l'indimenticabile papa Giovanni XXIII chiamava di una «povertà contenta», propria di chi non pretende molto, è soddisfatto di quanto ha e chiede al Signore di mantenergli il necessario così che non debba dispera!si, ma insieme di non arricchirlo, per non cadere nelle tentazioni e nel pericolo.
Abbiamo dunque finora considerato tre situazioni progressivamente più vicine alla nostra: la prima è la precarietà dei discepoli itineranti che non hanno niente; la seconda è propria del discepolo che ha deciso di seguire Gesù e non vuole contare sulle sue ricchezze né ha grandi pretese; la terza riguarda in generale l'uomo che si affida completamente a Dio sapendo che le ricchezze non bastano a difenderlo né dalla malattia né dalla morte né dalla disgrazia.
* Sottolineo una quarta situazione che probabilmente è sottesa alla domanda del pane: è quella del fedele che anela al pane che è Gesù, al pane eterno, al pane della pienezza, e lo chiede fin da oggi. Ci ricolleghiamo qui a quanto già detto a proposito della traduzione di epioùsion con «sovrasostanziale», il pane della vita eterna.
È una situazione che possiamo leggere chiaramente espressa nel capitolo 6 del vangelo di Giovanni: «Rispose loro Gesù: "In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo". Allora gli dissero: "Signore, dacci sempre questo pane". Gesù rispose: "Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete"» (vv. 32-35).
E queste parole sono poi riprese nello stesso discorso: «lo sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. lo sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (vv. 48-51).
Se leggiamo i commenti dei Padri, ci accorgiamo che spaziano dall'uno all'altro dei diversi significati. Penso sia lecito anche a noi farlo, chiedendo il fabbisogno quotidiano, affidandoci al Padre come figli e chiedendo il pane eucaristico.
La domanda «dacci oggi il nostro pane quotidiano» ha contorni assai ampi e ciascuno può darle il significato che lo Spirito gli suggerisce. È comunque una domanda che va alla sostanza delle cose e di conseguenza, a un certo punto, a quella sostanza che è Gesù.

Umiltà, fiducia filiale, solidarietà
Quali sono gli atteggiamenti che una simile preghiera suggerisce come atteggiamenti evangelici?
Ne sottolineo cinque.
* È certo una preghiera da gente modesta, non da ricchi. Suggerisce di accontentarsi del necessario, di non volere troppo, di non volere avere tutto, di ringraziare per ciò che viene dato.
* Il secondo atteggiamento è di grande fiducia filiale nel Padre. Viene alla mente una bellissima traduzione di questo atteggiamento, la famosa preghiera di eh. de Foucauld:
«Padre mio,
mi abbandono a Te,
fa' di me quello che vuoi.
Qualsiasi cosa Tu faccia di me io ti ringrazio.
Sono pronto a tutto, accetto tutto.
Purché si compia la tua volontà in me,
in tutte le tue creature
non desidero altro, mio Dio.
Rimetto la mia anima nelle tue mani,
la do a Te, mio Dio, con tutto l'amore che ho nel cuore,
perché ti amo, ,
e perché ho bisogno di amore, di far dono di me,
di rimettermi nelle tue mani senza misura,
con infinita fiducia.
Perché Tu sei mio Padre».
È un affidamento totale al Padre, per l'oggi e per il domani, per la vita e per la morte.
* Il terzo atteggiamento è quello della solidarietà. Teniamo presente che la richiesta è fatta al plurale: «Da' a noi oggi il nostro pane quotidiano». Suscita quindi la nostra solidarietà, l'attenzione per i poveri, per chi non ha il pane quotidiano, per i popoli che soffrono la fame. A me pare che da questa preghiera possa nascere anche un movimento per la giustizia, per fare in modo che tutti abbiano almeno il necessario per sopravvivere.
* Il quarto atteggiamento a cui siamo invitati è quello che troviamo espresso fortemente nel Discorso della montagna. L'abbiamo già accennato, ma vi ritorno, perché spesso ce ne dimentichiamo. E tante volte mi dico: credo davvero alle parole del Discorso della montagna e le vivo? le ho fatte mie sul serio?
Mi riferisco alla pagina di Mt 6, 25-34: «Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un' ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?». Spesso mi riconosco in questa gente di poca fede, molto preoccupata per ciò che bisogna fare, sapere, dire, avere. «Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena» .
Parole d'oro. Eppure noi non ce ne ricordiamo, perché siamo talmente preoccupati, ansiosi e bisognosi di programmi certi, sicuri, palpabili, che non lasciamo niente alla Provvidenza. Quando poi la Provvidenza ci sorprende con eventi inaspettati, come una disgrazia o una malattia improvvisa, ci accorgiamo di aver fatto troppo i conti su noi stessi.
Siamo così sollecitati a verificarci sulla nostra capacità di affidarci al Padre, vincendo le preoccupazioni e la paura del domani.
* Un ultimo atteggiamento deriva dall'interpretazione di «pane» quale pane eucaristico: è la fiducia nell'Eucaristia, il nostro pane quotidiano, è la fiducia nella parola di Dio, di cui ci nutriamo ogni giorno. Questo cibo ha il potere di sostenerci, di confortarci, di confermarci, di renderci perseveranti. Da soli non ce la faremmo; ma il pane eucaristico, il pane della Parola, chiesto umilmente nella preghiera, ci preserva nelle tentazioni e ci dona quella perseveranza che è capace di rispondere alle promesse di Dio.

* * *


Conclusione

Sarebbe stato bello avere il tempo per fare una lettura sintetica, di insieme, del Padre Nostro, leggendo nelle sue richieste la Passione di Gesù, la sua gloria e risurrezione, e la Trinità. È questo, a mio giudizio, il punto conclusivo.
La Trinità è presente perché invochiamo il Padre che è «nei cieli», là dove è l'inizio del fuoco d'Amore che dilaga nel mondo, del torrente di dedizione e d'Amore che è il Mistero trinitario: il Padre genera il Figlio nello Spirito santo.
La Trinità è presente perché opera in Gesù.
Egli è colui che per eccellenza santifica il nome del Padre, è il santo, il consacrato, l'inviato nel mondo, colui che è «costituito Figlio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,4); colui che anche santifica se stesso per noi, affinché a nostra volta siamo santificati nella verità.
Gesù è il Regno, che viene nella sua predicazione, nei miracoli, nella sua Passione e nella sua gloria. In tutto questo compie perfettamente la volontà del Padre, che è il suo cibo. «Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell' offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre» (Eb 10,10), ma presente in ogni Eucaristia, nel pane quotidiano in cui si dona invincibilmente a noi il Mistero del Figlio, del Padre e dello Spirito.
Nella forza dello Spirito Gesù rimette i peccati
- «Ricevete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi» (Gv 20,22-23) -, quello Spirito che ci difende nelle tentazioni, «convincendo il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio» (Gv 16,8).
E solo per la forza dello Spirito santo Gesù ci libera dal male.
Lascio a voi di approfondire questa lettura sintetica. Scrive Ignazio che chi propone le meditazioni offre solo qualche stimolo sul quale poi devono lavorare gli esercitanti anche dopo la conclusione degli esercizi, richiamando tutte le ricchezze della parola di Dio.
In questa Parola, che è luce ai nostri passi, resteremo uniti e a essa vi affido perché, oltre ogni nostra resistenza, ha il potere di santificarci e di farci vivere come Gesù.