sabato 16 aprile 2011

In agonia fino alla fine del mondo.

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Riporto il testo della lettura di Isaia (*) di domani 17 aprile, Domenica delle Palme.
Di seguito due omelie, la prima del padre Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, la seconda curata dalla Congregazione per il Clero.

(*) : Vedi il post che ho pubblicato il 17 gennaio scorso dal titolo "Lingue da discepolo".


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Prima Lettura Is.50, 4-7


Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati,
perché io sappia indirizzare allo sfiduciato
una parola.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come gli iniziati.


Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il dorso ai flagellatori,
la guancia a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto confuso,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare deluso.
Parola di Dio.



* * *

OMELIA (p. Cantalamessa)

La Domenica delle Palme, è l’unica occasione, a parte il Venerdì Santo, in cui si legge il Vangelo della Passione di Cristo nel corso di tutto l’anno liturgico. Non potendo commentare tutto il lungo racconto, ci soffermiamo su due suoi momenti: il Getsemani e il Calvario.


Di Gesù nell’orto degli ulivi è scritto: “Cominciò a provare tristezza e angoscia. Disse loro: ‘La mia anima è triste fino alla morte”; restate qui e vegliate con me’”. Un Gesù irriconoscibile! Lui che comandava ai venti e ai mari e gli obbedivano, che diceva a tutti di non temere, ora è in preda a tristezza e angoscia. Quale la causa? Essa è tutta contenuta in una parola, il calice: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!” Il calice indica tutta la mole di sofferenza che sta per abbattersi su di lui. Ma non solo. Indica soprattutto la misura della giustizia divina che gli uomini hanno colmato con i loro peccati e trasgressioni. È ”il peccato del mondo” che egli ha preso su di sé e che pesa sul suo cuore come un macigno.


Il filosofo Pascal ha detto: “Cristo è in agonia, nell’orto degli ulivi, fino alla fine del mondo. Non bisogna lasciarlo solo in tutto questo tempo”. È in agonia dovunque c’è un essere umano che lotta con la tristezza, la paura, l’angoscia, in una situazione senza via d’uscita, come lui quel giorno. Noi non possiamo fare niente per il Gesù agonizzante di allora, ma possiamo fare qualcosa per il Gesù che agonizza oggi. Sentiamo ogni giorno di tragedie che si consumano, a volte nel nostro stesso edificio, nella porta dirimpetto, senza che nessuno si accorga di niente. Quanti orti degli ulivi, quanti Getsemani nel cuore delle nostre città! Non lasciamo soli coloro che vi sono dentro.


Portiamoci ora sul Calvario. “Gesù gridò a gran voce: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed emesso un alto gridò, spirò”. Sto per dire, ora, quasi una bestemmia, ma poi mi spiegherò. Gesù sulla croce è diventato l’ateo, il senza Dio. Ci sono due forme di ateismo. L’ateismo attivo, o volontario, di chi rifiuta Dio e l’ateismo passivo, o subìto, di chi è rifiutato (o si sente rifiutato) da Dio. Nell’uno e nell’altro si è dei “senza Dio”. Il primo è un ateismo di colpa, il secondo un ateismo di pena e di espiazione. A quest’ultina categoria appartiene l’”ateismo” di Madre Teresa di Calcutta, di cui si è tanto parlato in occasione della pubblicazione dei suoi scritti personali.


Sulla croce Gesù ha espiato in anticipo tutto l’ateismo che c’è nel mondo. Non solo quello degli atei dichiarati, ma anche quello degli atei pratici, di coloro che vivono “come se Dio non esistesse”, relegandolo all’ultimo posto nella propria vita. Il “nostro” ateismo, perché, in questo senso, siamo tutti, chi più chi meno, degli atei, dei “noncuranti” di Dio. Dio è anche lui oggi un “emarginato”, emarginato dalla vita della maggioranza degli uomini.


Anche qui bisogna dire: “Gesù è sulla croce fino alla fine del mondo”. Lo è in tutti gli innocenti che soffrono. È inchiodato alla croce nei malati gravi. I chiodi che lo tengono ancora legato alla croce sono le ingiustizie che si commettono verso i poveri. In un campo di concentramento nazista un uomo era stato impiccato.


Qualcuno, additando la vittima, chiese con ira a un credente che gli stava accanto: “Dov’è in questo momento il tuo Dio?” “Non lo vedi?, gli rispose: è lì sulla forca”.


In tutte le “deposizioni dalla croce”, spicca sempre la figura Giuseppe di Arimatea. Egli rappresenta tutti coloro che, anche oggi, sfidano il regime o l’opinione pubblica, per accostarsi ai condannati, agli esclusi, ai malati di AIDS, e si danno da fare per aiutare qualcuno di essi a scendere dalla croce. Per qualcuno di questi “crocifissi” di oggi, il “Giuseppe di Arimatea” designato e atteso potrei benissimo essere io e potresti essere tu.


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OMELIA (Congregazione per il Clero)

Questa è la domenica nella quale la grande porta della settimana santa si dischiude dinnanzi alla vita di ogni cristiano. Con oggi, il tempo si fa veramente più breve e il discepolo è chiamato a seguire con passo più spedito il Signore Gesù che entra in Gerusalemme.
L’immedesimazione con i discepoli di Cristo può certamente aiutarci a comprendere ciò che la liturgia odierna ci invita a contemplare. Essi, come gli abitanti della Città Santa, erano stati testimoni dei miracoli che Gesù aveva compiuto nei giorni precedenti e di come Colui che da mesi seguivano con interesse aveva addirittura resuscitato un uomo dai morti, Lazzaro di Betània. Se un tempo, all’udire il proposito di Gesù di recarsi a Gerusalemme, avevano provato timore e sconcerto, ora a guidare i loro passi era l’euforia che pervadeva il sentimento della gente stupita dal compiersi delle promesse rivelate dai Profeti.
Ma il clima, lo abbiamo appena ascoltato, è destinato ben presto a cambiare e il titolo messianico di «figlio di Davide» (Mt 21,9) –pur svelandosi nella sua reale portata: «Re dei Giudei» (Mt 27,29.37)– diventa motivo di scherno da parte dei soldati.
Eppure, il Signore Gesù anche nell’ora dell’agonia più atroce, mentre è abbandonato da tutti, non cede alla tentazione di “passare via da sé” il calice che il Padre desidera Egli beva. Anzi, è proprio in quel momento che si rende attuale quanto il profeta Isaia aveva preannunciato attraverso uno dei quattro Carmi del servo, proposto nella I lettura: in esso emerge dunque lo stile che ognuno di noi dovrebbe assumere: «Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti» (Is 50,4). L’“ascolto”, per i popoli semitici, non è differente dal “seguire”; ed è proprio il tema della “sequela” ad essere come il filo rosso che lega tutti i brani della sacra Scrittura che oggi abbiamo ascoltato: una sequela che, quando non è negata come nel caso dei discepoli che «lo abbandonarono e fuggirono» (Mt 26,56), è segno inequivocabile dell’amore a Dio Padre, unica possibilità per amare veramente i propri fratelli.
È solo attraverso la “sequela di Cristo” che si attua la nostra redenzione: la vita del Signore Gesù è stata tutta definita dall’ascolto della volontà del Padre. Non ci deve stupire, dunque, se la Chiesa ci propone anche uno dei brani più antichi che parlino di Gesù, un passo della Lettera ai Filippesi che in sei versetti riesce a disegnare di fronte a noi la vita di Cristo attraverso il tratto dell’obbedienza.
Non vi è altra possibilità, per noi, se non quella di entrare nella contemplazione di questi giorni di Passione attraverso la “sequela del Signore”: viviamo questi giorni cercando la sua Presenza nelle pieghe della nostra storia –al lavoro, in famiglia, con gli amici–; seguiamolo per le vie di Gerusalemme, avendo premura di ritornare a Lui ogni volta che durante questa settimana ci accorgeremo di averlo tradito, abbandonato, perso di vista; saliamo con Lui sul Calvario e chiediamo che, come il Centurione che lo aveva in precedenza schernito, il suo abbandono totale alla morte di Croce ci permetta di riconoscerlo come Colui che solo può cambiare la nostra vita: «Davvero costui era Figlio di Dio» (Mt 27,54).