martedì 22 marzo 2011

Senza la Tua Grazia nulla c'è nell'uomo

http://c1.ac-images.myspacecdn.com/images01/124/l_0392037d692e94efcca0886c9836951c.jpg
Dopo aver proposto come lettura spirituale tutti i brani del Credo del popolo di Dio di papa Paolo VI in cui ricorre la parola grazia (v. post dal titolo: "Ricordati che devi morire", del 10 marzo e precc.), inizio, con la pubblicazione dei canoni 3 e 4 del Concilio di Cartagine del 418, la presentazione delle definizioni dogmatiche riguardanti la grazia.
Per comprendere il contesto di quel Concilio attingo al Vangelo della grazia (Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1964) di M. Flick e Z. Alszeghy, un classico della teologia dogmatica.
Vi si legge che fu la controversia pelagiana che «diede occasione alla Chiesa di esplicare la sua fede nella debolezza dell’uomo ferito dal peccato originale e bisognoso perciò di essere sanato dalla grazia di Cristo» (Vangelo della grazia, p. 49). E che la prima Chiesa a esprimersi contro chi metteva in discussione questo fu fin dal 411 la Chiesa africana. Il motivo è molto semplice: i responsabili di tale contrasto, Pelagio e Celestio, che precedentemente risiedevano a Roma, nel 410, per sfuggire al saccheggio dei Goti, se ne erano allontanati alla volta della Sicilia, prima, e poi di Cartagine.
In seguito però, poiché le dottrine di Pelagio e di Celestio avevano varcato i confini africani e soprattutto poiché avevano ricevuto un avallo ufficiale in Palestina nel 415, la Chiesa africana si era trovata costretta a presentare appello al vescovo di Roma perché intervenisse grazie alla sua giurisdizione universale. Attraverso due concili provinciali, tenuti nell’estate del 416 a Cartagine e a Milevi, presenti entrambe le volte una sessantina di vescovi, si invoca l’autorità di Roma che – dicevano quei vescovi – sul peccato e sulla grazia ha la stessa dottrina della Chiesa africana, ma la predica con più prestigio (illustrius). I vescovi africani non intendono portare in aggiunta un loro rivolo alla già tanto abbondante sorgente della Chiesa di Roma – parafrasiamo la conclusione della lettera 177 di Agostino, Alipio, Aurelio e altri vescovi africani –; si attendono al contrario che Innocenzo, che all’epoca sedeva sulla cattedra romana (401-417), dica che il loro rivolo deriva dalla stessa sorgente e li conforti così attestando che essi partecipano della medesima grazia.
Riprendiamo a citare il Vangelo della grazia: «Le risposte di Innocenzo [le lettere 181-183 dell’epistolario di Agostino, ndr] sono di grande importanza. Già infatti in questo primo intervento della Sede romana contro il pelagianesimo è chiaramente insegnato che la grazia, intesa come un aiuto interno concesso da Dio per i meriti di Gesù Cristo, è assolutamente necessaria per evitare il peccato. È impossibile che l’uomo da solo osservi i comandamenti; infatti, insegna Innocenzo: “È inevitabile che l’uomo, privo della grazia, soccomba alle insidie diaboliche, quando, con la sola libertà, si sforza di osservare tutti i comandamenti della vita”. È evidente quindi che il Papa non condanna solo la pretesa di poter fare atti utili per la salvezza (atti salutari, secondo la terminologia moderna) senza la grazia di Cristo. Egli esclude anche l’errore secondo cui si può evitare il peccato propriamente detto, anche se il libero arbitrio non è liberato dal dominio delle concupiscenze. Solo così si verifica la parola del Signore: “Se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi” (Gv 8, 36)» (Vangelo della grazia, p. 58).
Si poteva pensare che la questione fosse conclusa, come sant’Agostino avrebbe poi detto nel suo sermone 131 con espressione diventata proverbiale: Roma locuta est, causa finita est! In realtà dopo la morte di Innocenzo, il suo successore Zosimo (417-418), greco di nascita, come scrive il Liber pontificalis, ebbe delle esitazioni su quanto riconosciuto da Innocenzo. «Il papa Zosimo accettò le spiegazioni di Celestio e di Pelagio. Egli scrisse ai vescovi africani rimproverandoli della loro precipitazione e invitando gli avversari di Pelagio a venire a Roma per sostenere le loro accuse. Fu allora il momento in cui sant’Agostino dedicò tutte le sue energie per impedire che i “nemici della grazia” prevalessero» (Vangelo della grazia, p. 59).
Spinto dalle argomentazioni di Agostino e dalle osservazioni degli altri vescovi africani, Zosimo scrisse allora, nel marzo 418, di essere disposto a ridiscutere la sua presa di posizione. La lettera, il mese successivo, raggiunge i vescovi africani riuniti a Cartagine in numero di oltre duecento. Qui vengono elaborati i due canoni che riporto di seguito (in tutto ne conosciamo otto) a cui infine anche Zosimo presterà il suo assenso con la sua Epistula tractoria. «Di questa lettera abbiamo soltanto i frammenti, ma dalla testimonianza di Mario Mercatore sappiamo che essa fu mandata, per essere sottoscritta a tutti i vescovi del mondo [tractoria infatti era il nome con cui in Africa si indicavano le circolari indirizzate ai vescovi]. Perciò i canoni del Concilio di Cartagine furono sempre considerati come regola di fede, in virtù dell’approvazione pontificia, come afferma già Prospero d’Aquitania» (Vangelo della grazia, p. 60).
La causa peraltro non finì neppure allora. Agostino dovrà combattere fino al termine della sua vita, specialmente contro alcuni vescovi italiani capitanati da Giuliano d’Eclana. «Già però nel 418 poteva esultare perché papa Zosimo, avendo preso più esatta notizia delle condanne di papa Innocenzo, abbandonando ogni esitazione, aveva confermato pienamente il giudizio del suo predecessore» (Vangelo della grazia, p. 60).
Come commento ai due canoni del Concilio di Cartagine, riporto, tratta da "30 Giorni" n.3/96 un’intervista di Lorenzo Cappelletti con Nello Cipriani, professore ordinario dell’Istituto Patristico Augustinianum, sulla concezione della grazia nell’eresia pelagiana. Sono parole di sorprendente attualità.


I dogmi del Concilio di Cartagine

"Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero" (Gv.8,36)

Canone 3. È piaciuto [a tutti i vescovi radunati nel santo Sinodo nella Chiesa di Cartagine stabilire] che chiunque dica che la grazia di Dio, dalla quale l’uomo è giustificato per mezzo di nostro Signore Gesù Cristo, vale per la sola remissione dei peccati già commessi, ma non anche come aiuto perché non se ne commettano, sia scomunicato.

Canone 4. Così pure chiunque dica che la medesima grazia di Dio per mezzo di nostro Signore Gesù Cristo ci aiuta a non peccare soltanto in questo, perché mediante essa ci è rivelata e aperta la conoscenza dei comandamenti, così che sappiamo che cosa dobbiamo desiderare e che cosa dobbiamo evitare, e non invece che mediante essa ci viene dato anche di amare e di esser capaci di compiere quanto abbiamo conosciuto doversi fare, sia scomunicato. L’Apostolo dice infatti: «La scienza gonfia, mentre la carità edifica» [1Cor 8, 2]; è allora una cosa molto empia credere che abbiamo la grazia di Cristo in vista di quella [scienza] che gonfia, mentre non l’abbiamo in vista di quella [carità] che edifica. Infatti sono dono di Dio entrambe queste cose, sia il sapere che cosa dobbiamo fare sia l’amare affinché lo facciamo, in modo che, mentre la carità ci edifica, la scienza non ci possa gonfiare di orgoglio. Infatti come è scritto: «È Dio che insegna all’uomo la scienza» [Sal 94, 10], così pure è scritto: «L’amore è da Dio» [1Gv 4, 7].
* * *
Per Pelagio la grazia è solo conoscenza e non attrattiva amorosa
La figura del pio monaco britanno Pelagio e il suo contrasto con Agostino è da qualche tempo un argomento che ha varcato il recinto delle discussioni accademiche e si è imposto come argomento di attualità ecclesiale. Forse però a prezzo di una semplificazione eccessiva: Pelagio campione della morale e Agostino della grazia. In realtà neanche Pelagio sottace il ruolo della grazia divina...
NELLO CIPRIANI: Pelagio è un eretico cristiano. Eretico da cristiano. Crede nella grazia che Dio ci ha fatto in Cristo, il quale è morto e risorto per noi. Crede che, mediante Cristo, Dio ci ha fatto dono dello Spirito Santo, rimettendoci i peccati e adottandoci a figli. È però eretico, perché limita l’azione della grazia dello Spirito Santo nel cuore del credente. Come riconosce lo stesso Agostino, la grazia, di cui parla Pelagio, non è soltanto un aiuto esteriore (come l’insegnamento e l’esempio); è anche un dono dello Spirito, che dev’essere richiesto nelle preghiere. Tuttavia, secondo Pelagio anche questo aiuto interiore resta sempre sul piano della conoscenza. Si tratta in ogni caso della rivelazione di una verità, di una illuminazione, e mai di un aiuto alla volontà che rimane sempre sola a decidere. La grazia divina, per Pelagio, mantiene sempre un carattere puramente intellettivo.

Potrebbe approfondire il senso del “carattere intellettivo” della grazia in Pelagio?
CIPRIANI: Pelagio è disposto a riconoscere un’illuminazione della mente; e in questo senso parla della grazia di Cristo che aiuta l’agire morale del credente. Ma a suo avviso lo Spirito Santo non diffonde nei cuori la carità, che sarebbe frutto della volontà umana. Sant’Agostino riconosce evidentemente la grazia dell’insegnamento e dell’esempio, ma rimprovera Pelagio di riconoscere il dono minore e di negare quello maggiore: il dono dell’inspiratio dilectionis. Per Pelagio l’azione della grazia di Dio raggiunge l’uomo solo attraverso una rivelazione che illumina la mente. Dio opera in noi la volontà di ciò che è bene, la volontà di ciò che è santo, nel momento in cui infiamma, con la rivelazione della grandezza dei beni futuri e la promessa dei premi, noi che siamo soggetti ai desideri terreni e che, al modo degli animali irragionevoli, amiamo soltanto le cose che sono sotto i nostri occhi; nel momento in cui suscita la volontà indolente al desiderio di Dio con la rivelazione della sapienza; nel momento in cui fa opera suasiva intorno a tutto ciò che è buono» (De gratia Christi et de peccato originali I, 10, 11). Per Pelagio il cristianesimo si riconduce ultimamente a un insegnamento, a una dottrina. Non è l’avvenimento di una presenza che affascina.

Sembra che Pelagio non conoscesse il greco. A quali insegnamenti si è rifatto?
CIPRIANI: Pelagio giustificava la riduzione della grazia di Cristo con la preoccupazione di non deresponsabilizzare l’uomo, distruggendo il libero arbitrio. Ammetteva che a causa delle abitudini cattive nell’uomo si potesse oscurare la ragione e quindi la conoscenza della legge naturale; per questo Cristo verrebbe incontro all’uomo con l’insegnamento e con l’esempio per fargliela riscoprire. Ma non ammetteva che si potesse indebolire la volontà, che pertanto non avrebbe alcun bisogno di essere risanata e aiutata. Questa concezione morale restava fedele ai princìpi fondamentali della pedagogia antica (paideia), che vedeva i pilastri dell’agire morale nella capacità naturale di acquisire le virtù e nell’impegno della volontà personale, mentre assegnava all’insegnamento e all’esempio del maestro la funzione di portare a perfezione. Per conoscere tale concezione pedagogica e morale non era necessario leggere i trattati di filosofia greca, bastava frequentare la scuola del tempo. La retorica antica, come è noto, non pretendeva soltanto di insegnare a ben parlare; voleva altresì essere scuola di vita, mirava a dare un’educazione completa dell’uomo, intellettuale e morale, oltre che letteraria. Non deve quindi sorprendere se la scuola e i trattati di retorica costituirono il luogo più naturale dove Pelagio e prima di lui altri Padri, soprattutto greci, poterono assimilare i princìpi costitutivi della pedagogia antica, adattando a essa in qualche modo la novità della fede cristiana.

Quali erano in sintesi i princìpi costitutivi della pedagogia antica?
CIPRIANI: I princìpi fondamentali della concezione pelagiana della vita morale e spirituale, che corrispondono esattamente a quelli della formazione oratoria e in genere di ogni educazione morale, si possono ridurre a tre: la natura, cioè la capacità innata di conoscere e compiere liberamente il bene; la volontà, o meglio l’applicazione assidua (studium), la pratica (usus), l’esercizio (exercitatio) o l’imitazione (imitatio) di modelli (exempla); la dottrina, contenuta nella legge evangelica. Pelagio sosteneva che «abbiamo da Dio la possibilità innata del bene e del male, quasi, per così dire, una radice fruttifera e feconda; ma essa genera e produce frutti diversi a seconda della volontà dell’uomo; può risplendere dei fiori della virtù o coprirsi delle spine dei vizi a seconda dell’arbitrio del proprio coltivatore» (De gratia Christi et de peccato originali I, 18, 19).

Anche Agostino d’altra parte si era formato alla scuola della retorica. In che senso e perché è diverso l’influsso che ne trae?
CIPRIANI: Anche sant’Agostino conosceva quella concezione trasmessa dalla scuola, che anzi mostra di condividere pienamente nell’ambito della formazione artistica. Ma la riteneva insufficiente a esprimere la novità e l’efficacia della grazia di Gesù Cristo. Per motivi scritturistici e teologici rompe in maniera ben più radicale dell’austero moralista britanno con la concezione morale trasmessa dalla scuola di retorica.