sabato 12 marzo 2011

Non ci resta che piangere

Preziosissimo in Quaresima l'insegnamento di san Simeone il Nuovo Teologo, che oggi abbiamo ricordato. Soprattutto quando parla della "via delle lacrime".





1 - Insegnamenti spirituali

Dalle “Catechesi” di Simeone il nuovo Teologo.
Cat. XIV. S Ch 104,211ss.

Nell’umiltà e nell’afflizione, l’uomo spirituale, mentre cerca con fervore il soccorso divino, vede chiaramente la grazia dello Spirito Santo che arriva, strappa e fa sparire ad una ad una le passioni fino a che abbia reso la sua anima perfettamente libera. No, non a metà la visita del Paraclito la gratifica della libertà, ma in modo perfetto e puro. Oltre alle passioni lo Spirito sradica il cuore da ogni negligenza, da ogni disgusto, da ogni pigrizia e ignoranza. Poi ringiovanisce e rinnova l’uomo, sia nell’anima sia nel corpo, al punto che egli non sembra più rivestito di un corpo pesante e corruttibile, ma spirituale e immateriale. Né solo fin qui giungono gli effetti dello Spirito, perché la potenza di Dio gli dà occhi nuovi e persino orecchi nuovi. Ormai succede che l’uomo non guarda più umanamente e in modo sensibile ciò che è sensibile; diventato più che uomo, contempla spiritualmente le realtà sensibili che gli appaiono come immagini delle realtà invisibili. Ciò che ascolta non sono più voci di uomo, ma il solo Verbo vivente, che gli parla attraverso voci umane; Lui, e lui solo, come l’Amato, l’anima accoglie con 1’udito; al Verbo soltanto apre la porta con gioia e una volta che entrato egli sia, fa festa con lui.


Dai “Trattati teologici ed etici” di Simeone il nuovo teologo.
5,115-135. S Ch. 129,89.

Se Cristo ha detto che si vede Dio mediante la purezza del cuore, certamente, acquistata la purezza, segue la visione. D’altra parte, se tu ti fossi una volta purificato, avresti saputo che la parola è veritiera; ma poiché non hai preso la cosa a cuore, non hai creduto alla verità del fatto, hai anche trascurato la purificazione e perduto la visione. Se infatti quaggiù c’è la purezza, quaggiù ci sarà anche la visione; ma se tu dici che la visione non c’è che dopo la morte, necessariamente porrai dopo la morte anche la purificazione. E così accadrà che mai vedrai Dio, perché non avrai, dopo il trapasso, alcuna attività che ti permetta di trovare la purezza.
Ma che dice il Signore? Chi mi ama osserverà i miei comandamenti, e io lo amerò e mi manifesterò a lui. (Gv 14,21).
Quando avrà luogo la sua manifestazione? Quaggiù o nel secolo futuro? Evidentemente quaggiù. Dove i comandamenti sono osservati attentamente, vi sarà anche la manifestazione del Salvatore e, dopo la manifestazione, la carità perfetta si manifesterà in noi. Finché non è così, non possiamo né credere in lui, né amarlo come conviene, perché è scritto: Chi non ama il fratello che vede, come può amare Dio che non vede?(1Gv 4,20) In nessun modo.


Dalle “Catechesi” di Simeone il nuovo Teologo.
Catech. II. S Ch. 96,277.279.

Abbandoniamo, fratelli, tutti i beni della vita fuggitiva, cioè la vana gloria, l’invidia, le contese tra noi, la dissimulazione, il mormorare e l’ira: tutto ciò provoca l’avversione di Dio e mette l’anima in pericolo. Desideriamo invece di tutto cuore ciò che Dio ci comanda di abbracciare: la povertà dello spirito -che la Parola chiama umiltà - l’afflizione continua giorno e notte da cui scaturiscono la gioia dell’animo e la consolazione di tutte le ore per coloro che amano Dio (Rm 8,28). Fuggiamo l’illusione di questa vita e il suo preteso piacere e corriamo verso l’unico Salvatore, il Cristo Gesù. Sforziamoci di trovarlo, lui che è presente dappertutto. Una volta trovatolo, tratteniamolo, cadiamo ai suoi piedi e abbracciamoli nel fervore dello spirito. Sì, ve ne supplico, sforziamoci, finché siamo in vita, di vederlo e di contemplarlo. Se saremo giudicati degni di vederlo sensibilmente quaggiù, non moriremo, la morte non avrà più potere sopra di noi. Dopo aver osservato i suoi comandamenti ci sia dato di purificare il cuore con le lacrime e il pentimento, in modo di contemplare fin da quaggiù la luce divina, Cristo in persona, di possederlo, rimanendo nel nostro intimo. Allora, tramite il suo Spirito, che nutre e vivifica le nostre anime, gusteremo la dolcezza piena di voluttà dei beni del suo regno.


Dagli “Inni” di Simeone il nuovo teologo.
Inno XVII,v.532ss. S Ch 174,51-59.

Ascolta le parole del Maestro, ascolta le parole della Parola, in che modo egli mostri che gli uomini ricevono il regno dei cieli fin da quaggiù. Egli dice: Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose (Mt 13,45) E’ proprio a te che consiglia di scoprire la perla e dopo averla valutata inestimabile, vendere tutto e comprarla. Ti invito ad ascoltare con intelligenza. Se tu possedessi il mondo intero e tutto quello che il mondo contiene e se, prodigando i tuoi beni, tu li distribuissi agli orfani, alle vedove, ai mendicanti privi di ogni risorsa, e diventassi tu stesso mendicante, ebbene: qualora tu stimassi anche solo un pochino che quello che hai pagato ha lo stesso valore, tanto da dire: Dammi la perla, perché ho dato via tutto quello che ho, immediatamente sentiresti il Maestro risponderti: Che è mai “tutto quello che ho” di cui parli? Sei uscito nudo dal ventre di tua madre e nudo entrerai nella tomba. Quali sono questi beni che pretendi? Non riceverai la perla, non avrai parte al Regno. Invece, se hai dato via tutto, tutto quello che era tuo, oppure se ti sei reso completamente povero, e se vieni avanti, dicendo: Guarda, Signore, ora ho anima e cuore spezzati, rudemente umiliati, violentemente consumati. Maestro, guarda la mia nudità, osserva come sono indigente, lontano da ogni virtù, povero oltre ogni dire, senza nulla per acquistare te, il Verbo. Abbi pietà di me, o tu, il Solo, tu, mio Dio, che sopporti i malvagi. Che donò la peccatrice? Che presentò il ladrone? E il prodigo, o Cristo, che ricchezza ti portò? Parla così e udrai dirti: Sì, mi offrivano doni, sì mi offrivano una ricchezza: dopo avermi dato quello che avevano, ricevettero la perla che vale più del mondo intero. Anche tu, se la desideri, offrimi quei medesimi doni e certamente la riceverai.


Dall’ “Etica” di Simeone il nuovo teologo.
S Ch 122, 233-237. 241-243.

Cristo, donando sé stesso a noi in comunione, ci dà della sua propria carne e delle sue ossa che mostrò agli apostoli dopo la risurrezione, dicendo: Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho (Lc 24,39). Proprio per questo egli ci offre da mangiare; grazie a questa comunione ci rende una sola cosa con lui. Davvero, come dice san Paolo, questo mistero è grande (cf. Ef 5,32), e tale esso resterà, perché la comunione e l’unione, l’intimità e la parentela che attua la donna con l’uomo e l’uomo con la donna sono qui attuati in modo degno di Dio; essi trascendono pensiero e parola, perché autore ne è il padrone e il creatore dell’universo insieme con tutta la Chiesa. Dio si unisce a lei come alla sua unica sposa, in modo immacolato e più che ineffabile. Dimora inseparabile, indistaccabile da lei, vivendole insieme e avvolgendola di amore e di tenerezza. Dal canto suo, la Chiesa non può vivere la vita vera e incorruttibile se non è nutrita dal suo Signore ogni giorno con il pane sostanziale; grazie ad esso la vita e la crescita fino all’età dell’uomo perfetto, fino alla misura del completo compimento, sono garantiti a tutti quelli che lo amano.
Bisogna infatti che al di là del nostro mondo, la pienezza del mondo della Chiesa, della Gerusalemme celeste, sia raggiunta e la pienezza del corpo di Cristo possa realizzarsi in quelli che Dio ha predestinato a diventare conformi all’immagine del Figlio suo.

Dalle “Catechesi” di Simeone il nuovo teologo.Catech. IX, S Ch104,pp.115-117.
Per te Dio è diventato uomo, e povero. Anche tu devi divenire povero a tua volta come lui, tu che in lui credi. Povero è Dio secondo l’umanità, povero sei anche tu secondo la divinità.
Vedi un po’ ora come tu lo nutrirai, osserva da vicino. Egli si e impoverito, perché tu t’arricchissi, e potessi aver parte ai tesori della sua grazia. Per questo ha assunto una carne, perché tu fossi partecipe della sua divinità. Perciò quando disponi te stesso in vista di accoglierlo, si dice che egli sarà accolto da te. Quando a causa di ‘lui patisci la fame e la sete, ciò vale per lui come cibo e bevanda. Mi domandi come questo sia possibile? Perché con tali opere e azioni, e altre simili, purifichi il tuo cuore e ti sleghi dai ceppi delle passioni e dall’inedia; e colui che così ti raccoglie, applicando a sé tutto quello che ti riguarda, il Dio che desidera renderti dio così come lui si è fatto uomo, tutto quel che tu fai per lui, lo conta come fatto a sé e ti dice: ‘Ciò che fai a questa piccolina che è la tua anima, tu lo fai a me.’ Dimmi dunque: per che tipo di opere coloro che vissero nelle caverne e negli anfratti dei monti piacquero a Dio? Sicuramente soltanto per la carità, la penitenza e la fede; abbandonando il mondo intero per seguire lui solo, attraverso la penitenza e le lagrime l’hanno accolto e ospitato, hanno saputo nutrire la sua fame e spegnere la sua sete.


Dai “Trattati etici e teologici” di Simeone il nuovo teologo.
Etica II, cap.1. S Ch 122,323-325.

Attieniti alla convinzione che Dio ha mandato sulla terra il suo unico Figlio solamente per te e per la tua salvezza, conoscendoti prima di tutto e destinandoti a divenire erede e coerede di Cristo. Perché non ti affretti ad amarlo con tutta l’anima e con tutto il cuore, osservando i suoi comandamenti?
Credi con forza che il Verbo incarnato, dopo essersi immolato per te, non ti abbandonerà e non ti lascerà perire. Non lo intendi affermare: Anche se una donna si dimenticasse del figlio del suo seno, io non ti dimenticherò mai? (cf Is 49,15). Ma se ti giudichi indegno, se ti escludi volontariamente da te fuori del gregge di Cristo, prendine atto: nessun altro, ma proprio tu sarai motivo della tua perdizione.
Perciò, rigettiamo lungi dalla nostra anima ogni diffidenza, ogni svogliatezza; presentiamoci con cuore sincero, con fede certa e con zelo ardente, come nuovi servi acquistati dal sangue prezioso di Cristo. Amiamo il Maestro che l’ha versato per noi, accogliamo l’amore che ci porta e comprenderemo che se non avesse voluto salvarci a sue spese, non sarebbe disceso in terra, non si sarebbe immolato per noi. Invece, come sta scritto, ha fatto tutto questo per salvare l’umanità intera. Ascoltalo dire: Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo (Gv 12,47).


Dalle “Catechesi” di Simeone il nuovo teologo.
Catech. XIII. S Ch. 104,193.195.197.

Dobbiamo considerare con somma cura in che modo i1 mistero della risurrezione di Cristo, nostro Dio, si riproduca di continuo misticamente in noi, purché noi lo vogliamo. Cristo, celandosi in noi come in un sepolcro. si unisce alle nostre anime, e risuscitando fa risuscitare anche noi con lui.
Ancora adesso, quando noi usciamo dal mondo e assimilandoci al Signore nel patire, entriamo nel sepolcro della penitenza e dell’umiltà, lui stesso scende dal cielo per entrare nel nostro corpo quasi come per una sepoltura, e si unisce all’anima nostra. Questa da morta che era viene da lui risuscitata. E colui che così risorge con Cristo è reso capace di vedere la gloria della propria mistica risurrezione. Ora, la risurrezione dell’anima è l’unione con la vita. E come il corpo non può essere considerato vivente se non riceve in sé l’anima vivificatrice, che a lui si unisce senza mescolarsi, così l’anima non potrebbe vivere da sola, se non fosse, in modo ineffabile, unita a Dio, che è la vera ed eterna vita; infatti, prima di questa unione di conoscenza, di visione e di sentimento, essa è morta, pur essendo dotata di intelligenza e di natura immortale. Nelle realtà spirituali se l’intelligenza non perviene alla contemplazione di ciò che oltrepassa la riflessione, non avverte nulla dell’attività mistica.


Dagli “Inni” di Simeone il nuovo teologo.
Inno 13. Citato in P.M. DELFIEUX, Evangeìiques, Fayard, 1988, T. I. p. 219s.

Sono seduto sul mio giaciglio, pur essendo fuori del, mondo; e al centro della cella colui che è fuori del mondo, ecco vedo presente qui; lo vedo e gli parlo e - oso dunque dirlo - lo amo e lui dal canto suo mi ama. Mi cibo, mi nutro di questa sola contemplazione, e, divenuto una sol cosa con lui, varco i cieli.
So bene che ciò è vero e certo; eppure dove allora si trovi il mio corpo, lo ignoro. So che è sceso colui che dimora immobile, so che mi appare colui che resta invisibile; lo so: colui che è separato da tutta la creazione mi prende dentro di sé e mi nasconde nel suo seno, sicché io mi ritrovo fuori dell’universo. Ma, a mia volta, io mortale, piccolissimo nel mondo, contemplo in me stesso, tutto intero, il Creatore del mondo; e so che non morrò, poiché sono all’interno della vita e ho la vita tutta intera che zampilla dentro di me.
Egli è dentro il mio cuore, eppure dimora in cielo.
Qui e là, in ogni caso, sempre si mostra a me abbagliante. Ma in che modo tutto ciò capiti, come potrò comprenderlo esattamente? E come potrei esprimere quanto comprendo e vedo?
Sono realtà indicibili, davvero assolutamente ineffabili, che l’occhio non ha mai visto, l’orecchio mai udito e nessun cuore umano ha mai potuto comprendere.


Dalle “Catechesi” di Simeone il nuovo teologo.
Catech. V. S Ch 96,413-415.

Il Signore Gesù versò l’azione indicibile e vivificante della sua divinità e della sua carne nel veleno mortale del peccato: così ha riscattato interamente tutta la nostra stirpe dall’azione del nemico.
Mediante il santo battesimo e la comunione ai misteri immacolati del Signore, al suo corpo e al suo sangue prezioso, egli ci purifica e ci dà la vita, rendendoci santi e senza colpe. Anzi, ci procura di nuovo l’onore della libertà affinché non sembri che serviamo il nostro Signore per forza più che per moto volontario. Fin dalle origini, Adamo nel paradiso era libero, esente dal peccato e dalla violenza; per suo libero volere obbedì al nemico e, ingannato, trasgredì il comandamento di Dio. Allo stesso modo anche noi, rigenerati dal santo battesimo, siamo liberati e resi padroni di noi stessi; solo una scelta pienamente deliberata può indurci ad obbedire al nemico ché altrimenti questi in nessun modo può avere su di noi qualche influsso.
Se infatti prima della legge e dell’avvento di Cristo, privi di tutti questi soccorsi, un numero incalcolabile di uomini furono graditi a Dio e trovati irreprensibili, - pensiamo a Enoch, portato via e così onorato, o a Elia innalzato in cielo su un carro di fuoco - che scusa invocheremo noi? Dopo la grazia, dopo tanti benefici, dopo la soppressione della morte e del peccato, dopo la rigenerazione battesimale, e la protezione dei santi angeli persino, lo Spirito Santo è sceso a coprirci con la sua ombra; perciò corriamo il rischio di non essere neppure all’altezza di quelli che vissero prima della grazia, perché svogliati scherniamo e trasgrediamo i precetti divini. Sì, qualora perseverassimo nel male, il castigo sarebbe più severo per noi che per coloro che peccarono sotto la legge. Perciò ognuno di noi non accusi Adamo ma sé stesso se cade nel peccato, qualunque esso sia; invece, mostri come il primogrenitore un degno pentimento per poco che egli voglia ottenere la vita eterna nel Signore.


Dai “Capitoli pratici e teologici” di Simeone il nuovo teologo.
Nn.73.99 FG 3°,364.370-371.

Un cuore puro non è fatto tale né da una sola virtù, per sua natura, né da due, né da dieci; bensì tutte insieme lo rendono immacolato, quasi fossero una sola portata alla perfezione. Né le virtù possono da sole rendere così puro il cuore, senza l’operazione e la presenza dello Spirito Santo. E come il fabbro esercita la sua arte mediante i suoi strumenti, ma senza l’azione del fuoco non può attuare affatto qualche opera, anche l’uomo compie ogni cosa servendosi delle virtù come di strumenti; ma senza la presenza del fuoco spirituale, le opere rimangono incompiute e inutili, perché esse non distruggono la sozzura e il marcio dell’anima.
Se poi hai ricevuto la remissione di tutti i tuoi peccati sia attraverso la confessione sia attraverso la vestizione del santo abito angelico (cioè quello monastico), di quanta carità, rendimento di grazie e umiltà ciò ti sarà motivo! Perché, mentre eri degno di innumerevoli punizioni,sei fatto degno non solo di esserne libero, ma anche di ricevere la figliolanza, la gloria e il regno dei cieli. Volgendo queste cose nella mente e pensando ad esse di continuo, sii pronto e preparato a non disonorare Colui che ti ha fatto, ti ha onorato e ti ha perdonato le innumerevoli cadute; glorificalo e onoralo con tutte le tue opere; allora a te che ha onorato al di sopra di tutta la creazione visibile, egli potrà ricambiare una gloria ancora maggiore e chiamarti suo amico sincero.


Dall “Etica” di Simeone il nuovo teologo.
Etica III,515-533.557-565. S Ch122,427-431.
Io sono il pane vivo che discende dal cielo (cf. Gv 6,51). Cristo non ha detto ‘disceso’, ma ‘che discende’. Che significa ciò se non altro che egli scende senza posa e sempre, in quelli che ne sono degni? Egli si offre infatti anche adesso in ogni ora.
Poi il Signore stacca il nostro pensiero dalle realtà visibili, o meglio, attraverso di esse, ci eleva fino alla gloria invisibile della sua divinità sussistente personalmente. Infatti dice: Io sono il pane della vita (Gv 6,48). Il fatto poi che insista su quel ‘discende’, può avere questa spiegazione: perché non ti venga il sospetto che in questo pane ci sia qualcosa di corporeo, perché tu non concepisca nulla di terrestre. Hai da scorgere con gli occhi della mente che questo pane così minuscolo, questa particola è cambiata in Dio stesso e diventa tutta quanta pane che discende dal cielo ed è autenticamente Dio, pane e bevanda di vita immortale.
Venite voi tutti che vi siete cibati di questo pane celeste e lasciamoci rapire in spirito fino alla vera vita in sé stessa, al terzo cielo, o meglio fino al seno della santissima Trinità; così dopo aver visto perfettamente e udito ciò che resta indicibile, dopo averlo assaggiato e toccato con le mani dell’anima, possiamo rivolgere a Dio, l’amico degli uomini, l’inno di riconoscenza dicendo: Gloria a te che sei apparso e ti sei degnato di rivelarti e farti vedere da noi!



Dai “Precetti pratici e teologici” di Simeone il nuovo teologo.
I, 10-13. S Ch. 51,42-43.
Vera fede è la disposizione a morire per amore di Cristo, in conformità al suo comandamento, e con la convinzione che questa morte dona la vita. In tale disposizione spirituale, la povertà è stimata ricchezza. La vita nascosta e la condizione dimessa appaiono come vero onore e gloria autentica; nel niente possedere vi è la certezza di avere tutto.
Soprattutto la fede è il possesso dell’invisibile tesoro della conoscenza di Cristo: essa fa considerare le cose visibili come polvere e fumo. La fede in Cristo non è soltanto nella non valutazione dei piaceri della vita: crediamo nella sua risurrezione anche sopportando con paziente serenità le prove, affrontandole fino al momento in cui Dio rivolge a noi il suo sguardo paterno.
Ma c’è di più; chi in qualunque maniera antepone l’amore verso i parenti al comandamento di Dio, non ha fede in Cristo. Il segno dei veri credenti è nel rifiuto di trasgredire anche un solo precetto del Salvatore nostro Gesù Cristo.
La fede in Cristo è poi madre del desiderio dei beni eterni. Chi cerca diligentemente di conoscere le realtà future, occorre che si spogli di quelle presenti. Infatti chi è attaccato alla pur minima cosa delle realtà temporali non potrà mai conoscere quelle future.

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2 - La preghiera

Sui tre modi di preghiera
Esistono tre modi di attenzione e di preghiera, per essi l'anima può elevarsi e progredire, oppure cadere e perdersi. Chi usa di questi metodi nel modo e nel tempo giusto progredisce, chi invece li pratica inopportunamente e insipientemente si smarrisce.
L'attenzione e la preghiera sono unite inseparabilmente come il corpo è legato all'anima. L'attenzione procede e controlla i movimenti del nemico come un'avanguardia, è la prima ad ingaggiare la lotta col peccato, e ad opporsi ai pensieri malvagi che vorrebbero entrare nell'anima. La preghiera ne segue le orme, sterminando e distruggendo tutti i pensieri malvagi contro i quali l'attenzione è entrata in lotta, la sola attenzione non ha la forza di distruggerli.
Da questo combattimento contro i pensieri malvagi condotto con l'attenzione e la preghiera dipende la vita dell'anima. Servendosi dell'attenzione possiamo render pura la preghiera e compiere dei progressi; se non ci serviamo dell'attenzione per conservarla pura e la lasciamo incustodita, diventa inquinata dai pensieri malvagi e diveniamo degli inservibili falliti.

Sul primo modo dell'attenzione e della preghiera
Queste sono le caratteristiche del primo modo: uno si mette in orazione, solleva le mani, gli occhi e la mente verso il cielo, tiene fermi nella mente i pensieri di Dio, immagina i beni celesti, le schiere degli angeli e le dimore dei santi, riunisce, in una parola, nella mente quanto ha appreso dalle Sante Sctitture e durante la preghiera vi si sofferma, esortando l'anima ad essere desiderosa di Dio e del suo amore. Gli può capitare in questo stato di versare delle lacrime e di piangere. Può succedere, se uno segue soltanto questo modo, che poco a poco il suo cuore s'inorgoglisca senza che lui l'avverta, e pensi che ciò che esperimenta gli venga dalla grazia di Dio come consolazione, e comincia a domandare a Dio di poter rimanere sempre in quello stato. Ma questo è segno di smarrimento, il bene quando non è compiuto come si deve non è più bene.
Se quest'uomo s'impegna in una vita solitaria totale difficilmente potrà sfuggire alla follia. Se questo per un puro caso non avvenga, gli sarà impossibile raggiungere il possesso della virtù e il calmo pensiero. Questo modo contiene un altro rischio di deviazione: uno può vedere con gli occhi del corpo delle luci e dei fulgori, gustare dei profumi soavi, sentire dei suoni e altre simili cose. Alcuni ne sono rimasti del tutto invasati, nella loro insania hanno cominciato a vagolare da un luogo all'altro; altri, scambiando il diavolo per un angelo della luce, sono rimasti ingannati, fino a diventare incorreggibili rifiutando di accogliere l'ammonimento dei fratelli. Altri, istigati dal diavolo, si sono suicidati gettandosi chi da un precipizio, chi impiccandosi. . .
Da quanto abbiamo detto non è difficile, per chi ha buon senso, comprendere quale rischio sia incluso in questo primo modo di attenzione e di preghiera (quando venga considerato come l'unico nella via della preghiera). Anche se qualcuno evita questi pericoli nel praticarlo perché vive in una comunità, ai suoi rischi sono esposti particolarmente gli eremiti, sappia che non farà nessun passo avanti nella vita spirituale.

Sul secondo modo di attenzione e di preghiera
Questo è il secondo modo di attenzione e di preghiera: l’orante ritrae la mente dagli oggetti sensibili e la raccoglie nel suo intimo; vigila sui sensi e unifica i suoi pensieri in modo che interrompano il vagabondaggio tra le vanità mondane. A volte esamina i suoi pensieri, a volte si ferma a considerare le parole che le sue labbra pronunciano; a volte ferma il pensiero quando affascinato dal diavolo vola verso qualcosa di peccaminoso e di vano; a volte, vinto da qualche passione, con grande travaglio e sforzo lotta per rientrare in sé stesso. La nota specifica di questo modo è che si svolge nella testa, i pensieri combattono contro i pensieri.
In questo combattimento contro se stesso, non si può trovare la pace, né il tempo di praticare quelle virtù che sono il coronamento della verità. Questo stato è paragonabile ad uno che lotti con i nemici, nella notte, al buio, sente le loro voci, subisce i loro colpi, ma non vede chiaramente dove siano, da dove vengano e per qual motivo stiano aggredendolo; rimane dentro la testa, mentre i pensieri malvagi escono dal cuore. La tenebra che gli avvolge la mente, la tempesta che infuria nei suoi pensieri sono la causa che impedisce di vedere la origine di questa deviazione, non riesce a sfuggire dalla presa dei demoni, suoi nemici, e a riconoscere i loro colpi. Se poi insieme a tutto questo uno vien preso dalla vanità di ritenersi vigilante su se stesso come dovrebbe, lavora inutilmente e perderà per sempre ogni ricompensa. Orgoglioso disprezza e critica gli altri e loda se stesso, considerandosi atto ad essere un pastore di uomini e di guidare gli altri diventa simile ad un cieco che vuol condurre altri ciechi.
Questi sono i cararteri del secondo modo di attenzione e di preghiera. Chi vuol raggiungere la salvezza saprà riconoscere il danno che sta arrecando all'anima sua e aprirà con cura gli occhi su se stesso. Questo modo, ciò nonostante, è migliore del primo come una notte di plenilunio è meglio di una notte senza luna.

Sul terzo modo di attenzione e di preghiera
Il terzo modo è meraviglioso ma difficile a spiegare; è insieme difficile e incredibile per chi non lo abbia mai praticato, fino al punto da esser respinto come possibile attuazione. Nel nostro tempo infatti è difficile incontrare chi pratichi questo modo di attenzione e di preghiera; verrebbe da pensare che questo dono benedetto ci abbia abbandonato insieme all'obbedienza.
Se uno osserva l'obbedienza perfetta al suo padre spirituale, si libera da ogni perplessità, avendole poste sulle spalle della sua guida. Libero da ogni attaccamento sensibile, può dedicarsi con zelo e diligenza alla pratica del terzo modo di preghiera, supponendo però che si sia posto sotto la direzione di una guida non sottoposta a smarrimenti.
Se vuoi raggiungere la salvezza comincia in questo modo: stabilisci nel tuo cuore la perfetta obbedienza alla tua guida spirituale, compi qualunque cosa con coscienza pura, alla presenza di Dio; non è possibile avere la coscienza pura senza l'obbedienza. Conserva pura la coscienza in queste tre direzioni: di fronte a Dio, di fronte alla tua guida spirituale, di fronte agli uomini e alle cose e alla realtà del mondo.
Di fronte a Dio il dovere della tua coscienza consiste nel non fare azione che, secondo la tua coscienza, non sia gradita e accetta a Dio.
Di fronte al tuo padre spirituale fa soltanto quello che ti dirà, non voler fare niente di più o di meno di quanto ti suggerisce, cammina sotto la guida della sua volontà e della sua intenzione.
Di fronte agli uomini non fare alcuna cosa che non vorresti venisse fatta a te stesso.
Di fronte alle cose il tuo dovere è di mantenere pura la tua coscienza usandola in maniera giusta, per le cose intendo il cibo, le bevande e le vesti.
Procedendo in questo modo ti appronterai un sentiero solido e diretto verso il terzo modo di attenzione e di preghiera, esso consiste essenzialmente in questo: la mente scenda nel cuore. Mentre preghi ferma l'attenzione nel cuore, percorrilo in tutti i sensi, senza mai distaccartene, e dalle profondità del cuore fa' salire a Dio la tua preghiera. Quando la mente, dimorando nel cuore, comincia a gustare quanto è buono il Signore e si sente colma di grande diletto non vorrà più abbandonare quel luogo. Contemplerà le profondità del cuore e vi rimarrà cercando e allontanando quei pensieri che il demonio vi avrà disseminato. Chi non conosce e non ha provato questo modo, lo considererà difficile e opprimente. Chi invece avrà gustato la sua dolcezza e avrà goduto nelle profondità del cuore, grida con San Paolo: "Chi potrà distaccarsi dall'amore di Cristo?..".
Osserva prima di ogni altra cosa queste tre direttive: sii libero da ogni preoccupazione, non solo riguardo a ciò che è malefico e vano ma anche a ciò che è buono, in una parola sii morto a tutto; conserva la tua coscienza in modo che nulla possa rimproverarsi; abbi il perfetto distacco da ogni attaccamento passionale, in modo da non avere alcuna inclinazione verso ciò che appartiene al mondo. Mantieni la tua attenzione in te stesso, tieni ferma la mente nel cuore, con tutti i mezzi possibili cerca di scoprire il luogo dove è il cuore; se avrai il dono di trovarlo il tuo pensiero vi dimorerà per sempre. Impegnandoti in tal modo la mente scoprirà il luogo del cuore, quando l'avrà trovato la grazia renderà la preghiera soave e ardente. La mente acquisterà la capacità di allontanare i pensieri malvagi da qualunque parte si manifestino prima che abbiano preso consistenza, facendoli dissipare con l'invocazione: "Signore Gesù abbi pietà di me! ".
Il primo e il secondo modo di attenzione e di preghiera non conducono l'uomo alla perfezione. Volendo costruire una cosa non cominciamo dal tetto ma dalle fondamenta; prima gettiamo le fondamenta poi innalziamo i muri infine edifichiamo il tetto. Altrettanto ci è richiesto per l'edificio spirituale, innanzi tutto gettiamo il fondamento: vigilando sul cuore e purificandolo dalle passioni; quindi innalziamo le mura respingendo l'assalto dei nemici che si scagliano contro servendosi dei sensi, e addestrandoci a controbattere i loro assalti il più presto possibile; dopo aver fatto questo possiamo porre mano al tetto, alla totale rinuncia a tutto per offrirci completamente a Dio. In questo modo potremo ultimare la nostra casa in Gesù Cristo, a Lui sia lode per sempre. Amen.

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3 - La contemplazione della luce divina


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4 - Rendimento di grazie



RENDIMENTO DI GRAZIE


Ti rendo grazie, Padrone, Signore del cielo e della terra [Mat 11,25; Luc. 10,21], tu che prima della fondazione del mondo (Giov 17, 24; Ef 1, 4; 1 Pt 1, 20] hai predestinato che dal non essere io nascessi all'essere. Ti rendo grazie perché, prima che giungesse il giorno e l'ora [Mat 24, 36; 25, 13] in cui avevi ordinato che io fossi messo al mondo, tu stesso, il solo immortale [1 Tim. 1, 17; 6, 16], il solo onnipotente, il solo buono e amico dell'uomo, scendendo dalla tua santa altezza [Sal 102 (101), 20], pur senza uscire dal seno del Padre, e incarnandoti e nascendo dalla santa Vergine Maria, mi hai in anticipo riplasmato e rivivificato e liberato dalla caduta dei progenitori, e mi hai in anticipo preparato l'ascesa ai cieli. Poi, una volta nato e mentre a poco a poco crescevo, tu stesso mi hai rinnovato col santo battesimo della rigenerazione [Tit. 3, 5], mi hai ornato con il santo Spirito, mi hai posto come custode l'angelo di luce [2 Cor. 11, 14] e mi hai sempre custodito incolume, fino all'età adulta, dalle azioni ostili e dai tranelli del nemico.
Poiché hai ritenuto giusto che noi ci salvassimo non per forza, ma per libera decisione, hai lasciato che anch'io fossi onorato del libero arbitrio e che l'amore verso di te fosse dimostrato dalla libera osservanza dei tuoi comandamenti: ma io, insensato e sprezzante, considerando la dignità del libero arbitrio come un cavallo [Sal 32, 31, 9; Sir. 30, 8] sciolto dalla cavezza, mi sono gettato nel precipizio sottraendomi con un balzo alla tua signoria. Mentre io giacevo là e mi ci rivoltavo incoscientemente rovinandomi sempre più, non hai distolto con orrore il tuo sguardo da me, non hai permesso che giacessi e mi macchiassi nel fango, ma per le viscere della tua misericordia [Luc 1, 78] mi hai mandato a cercare, mi hai fatto risalire di là e mi hai onorato anche più splendidamente, e nei tuoi giudizi ineffabili mi hai liberato da re e potenti, che volevano usarmi come strumento spregevole [Rom 9, 21; 2 Tim 2, 20] a servizio della loro volontà; sebbene io fossi avido di ricchezze, non mi hai permesso di ricevere doni d'oro e d'argento, e la gloria e lo splendore della vita, che mi venivano offerti perché io vendessi la tua santificazione, mi hai fatto il dono di considerarli come un abominio. Ma tutte queste grazie te lo confesso, Signore Dio del cielo e della terra [Mat 11, 25; Luc. 10, 21] - le ho considerate ancora una volta come un niente e mi sono gettato, sciagurato, nella fossa e nella melma dell'abisso [Sal 69 (68), 3] dei pensieri e delle azioni vergognose, e, discesovi dentro, sono incappato nei nemici nascosti nelle tenebre, dai quali non io solo, ma neppure il mondo intero riunito insieme avrebbe potuto tirarmi su sottraendomi alle loro mani.
Tuttavia, mentre mi trovavo lì in una pietosa prigionia e venivo miseramente strapazzato, soffocato e deriso da loro, tu, Padrone misericordioso e amico dell'uomo, non mi hai trascurato, non mi hai serbato rancore, non hai distolto lo sguardo dal mio animo ingrato, non hai permesso che io fossi tiranneggiato a lungo volontariamente dai ladroni. Anche se io, nella mia incoscienza, ero contento di vagabondare insieme a loro, tu non hai sopportato di vedermi portare in giro e sballottare ignobilmente, Padrone, ma hai provato misericordia e pietà, e a me, miserabile peccatore, non hai inviato un angelo o un uomo, ma tu stesso [Is 63, 9], mosso dalle viscere della tua bontà, curvandoti su quell'abisso profondissimo, hai dispiegato la tua mano immacolata su di me, che giacevo immerso giù nel fango profondo; io non ti vedevo - e dove avrei potuto vederti, o come avrei avuto la forza di levare lo sguardo in alto, avvolto e soffocato com'ero dal fango? - ma tu mi hai afferrato per i capelli della testa [Dan 14, 36] e tirandomi con forza mi hai strappato via di là. Io percepivo la fatica e la continua attrazione verso l'alto e mi accorgevo di salire, ma ignoravo assolutamente da chi ero tirato, chi era mai che mi teneva e mi tirava in alto. Dopo avermi tirato su e rimesso sulla terra, mi hai consegnato al tuo servo e discepolo; io ero tutto insudiciato, con gli occhi, le orecchie e la bocca otturati dal fango, e nemmeno così vedevo chi sei, ma avevo capito soltanto quale grande bontà è mai la tua e come sei amico dell'uomo: eppure mi hai tratto fuori da quella fossa profondissima e dal fango. Tu mi dicesti: « Reggiti, attaccati a quest'uomo e seguilo: lui ti porterà via e ti laverà »; mi facesti la grazia di una salda fede in lui e ti ritirasti. Dove eri andato, lo ignoro.
Colui che mi era stato indicato da te, Santissimo Padrone, io lo seguii senza voltarmi, come mi avevi ordinato; egli mi conduceva con gran fatica alle sorgenti e alle fonti: io ero cieco e mi trascinavo dietro a lui grazie alla mano della fede da te concessami, costretto a seguirlo per una strada dove egli, che ci vedeva bene, alzava i piedi e saltando passava attraverso tutti i sassi, le buche e le pietre d'inciampo, ma a me capitava di andarci a sbattere contro e di cadere. Sopportai parecchie fatiche, parecchie molestie e afflizioni. Egli, per conto suo, si bagnava e si lavava al momento opportuno ad ogni sorgente, mentre io, non vedendo, ne oltrepassavo la maggior parte. Infatti, se egli non mi avesse tenuto per la mano e non mi avesse fatto fermare alla fonte guidando le mani della mia mente, non sarei mai riuscito a trovare la sorgente d'acqua. Egli me la indicava e mi permetteva spesso di bagnarmici, ma insieme all'acqua pura prendevo con le mani anche la melma e il fango che si trovavano intorno alla fonte e mi sporcavo il viso; spesso, cercando a tastoni di trovare la sorgente dell'acqua, afferravo insieme anche il terriccio, rimescolavo il fango e, non vedendoci affatto, mi sporcavo il viso col fango come se fosse acqua, credendo di lavarmi per bene.
Come potrò raccontare la condizione di pena e di violenza in cui mi trovavo per questo motivo? Non solo, ma alcuni spesso mi scongiuravano, mi davano consigli, e ogni giorno mi dicevano: « Perché stai a faticare inutilmente, agendo da stolto? Perché vai dietro a questo ingannatore e imbroglione, aspettandoti invano e inutilmente di poter recuperare la vista? Adesso è impossibile! Perché lo segui inciampando con i piedi e insanguinandoti? Perché invece non te ne vai da persone più pietose, che ti inviterebbero a riposarti, a nutrirti e a curarti bene? Non ti è permesso liberarti dalla lebbra dell'anima, e nemmeno recuperare la vista, adesso. Da dove è uscito fuori questo imbroglione miracolista, che ti promette cose che sono impossibili a tutti gli uomini dell'attuale generazione? Poveretto te! Perderai la cura che ti offrono uomini compassionevoli, che amano Cristo e i fratelli, e invece patirai le molestie e le afflizioni cui ti sottoponi per le tue vane speranze, e resterai certamente deluso dalle promesse che ti fa questo seduttore imbroglione. Insomma, che cosa è capace di fare? E anche a prescindere da quel che ti diciamo noi, non ci rifletti tu stesso per conto tuo, non ci pensi? Come! Tutti quanti noi non ci vediamo!? Siamo ciechi, come ti dice questo sbandato? Ci vediamo tutti, invece, e come! Non si può vedere meglio di così, non lasciarti abbindolare! » [Giov 9, 40-41]. Ma da tutti costoro, i veri seduttori e imbroglioni, che mescono al prossimo bevande intorbidate [Aba 2, 13], mi liberasti tu, pietoso e misericordioso, grazie alla fede e alla speranza da te donatemi, per mezzo delle quali mi rendesti capace di sopportare queste parole e molte altre ancora.
In tutte queste difficoltà, dunque, tenevo duro senza disertare, bagnandomi ogni giorno nell'acqua torbida e credendo di lavarmi, come mi insegnava a fare il tuo apostolo e discepolo; finché una volta, mentre camminavo correndo verso la fonte, tu stesso, che già prima mi avevi tratto fuori dal fango, mi sei venuto incontro sulla strada. Allora per la prima volta folgorasti i miei deboli occhi con l'immacolato splendore del tuo volto, e persi anche quella luce che credevo di avere [Luc 8, 18], non riuscendo a riconoscerti. E come avrei potuto vedere o conoscere te stesso, chi mai tu eri, tu di cui non ero stato capace di vedere, comprendere, capire nemmeno lo splendore del volto?
Da quel momento mi recavo più di frequente alla fonte stessa e tu, privo come sei di ogni superbia, non disdegnavi di scendere, anzi, venendomi accanto e prendendomi prima la testa, me la immergevi nelle acque e mi facevi vedere più pura la luce del tuo volto [Sal 4, 7; 89 (88), 16]. Ma subito volavi via, non permettendomi di capire chi eri, tu che facevi ciò, da dove venivi, dove te ne andavi: neppure questo mi concedevi. E così mentre tu andavi e venivi per un certo periodo, a poco a poco mi apparivi sempre più, mi inondavi con le acque e mi facevi la grazia di vedere una luce più pura e più grande.
Dopo aver fatto ciò per un certo tempo, mi rendesti degno di vedere una cosa terribile, un mistero. Mentre tu mi venivi accanto e, come mi sembrava, mi lavavi e inondavi con l'acqua e spesso mi immergevi completamente in essa, contemplai, mescolati alle acque, i bagliori che mi avvolgevano di luce e i raggi del tuo volto, vedendomi lavato con un'acqua luminosa. E dove era, da dove veniva, chi era colui che me la dava, non lo sapevo; soltanto, lavandomi ero felice, e intanto crescevo nella fede, venivo reso alato dalla speranza e salivo fino al cielo.
Quegli imbroglioni che mi suggerivano parole di inganno e di menzogna, li odiavo profondamente, e insieme provavo pietà per il loro errore e non m'incontravo più con loro nemmeno per una visita o una conversazione, anzi, fuggivo a tutta forza anche il danno che poteva provenirmi dalla loro vista; invece il mio collaboratore e soccorritore, il tuo santo discepolo e apostolo, lo veneravo, lo onoravo, lo amavo come te stesso, mio creatore; cadevo ai suoi piedi notte e giorno e lo supplicavo: « Se lo puoi, vieni in mio aiuto! » [Mar 9,22], e avevo fiducia piena che quel che voleva, lo poteva presso di te.
Continuando così, dunque, per un discreto periodo per merito della tua grazia, vidi di nuovo un altro tremendo mistero. Mentre risalivi verso i cieli, mi prendesti e mi portasti con te, se nel corpo, non lo so, se fuori del corpo [2 Cor. 12, 2], lo sai solo tu, che hai compiuto tutto questo. Dopo aver passato là un'ora con te, sbigottito per la grandezza della gloria - di chi fosse e di che specie, non so - e stupefatto per la smisurata altezza, fui tutto preso dal tremore. Poi di nuovo mi lasciasti solo sulla terra, dove stavo prima, e mi ritrovai a piangere e a meravigliarmi della mia miseria.
Quindi, non molto tempo dopo, mentre io ero giù in basso, i cieli si aprirono in alto [Atti 7, 56] e tu ti degnasti di mostrarmi il tuo volto, come un sole senza forma. Chi mai tu fossi, neppure così mi concedesti di conoscere - e come avrei potuto, giacché tu non mi parlasti? -, ma ti nascondesti subito, e io andavo attorno cercando te, che non conoscevo, e bramavo vedere la tua forma e conoscere consapevolmente chi eri. Perciò, per la grande violenza infuocata del tuo amore piangevo continuamente, non conoscendo chi sei tu, che dal non essere mi hai tratto all'essere, mi hai tolto dal fango e ti sei fatto per me tutto quello che ho detto.
Così dunque spesso mi ti sei mostrato e ancora spesso ti sei nascosto senza aver parlato, sottraendoti alla mia vista: e io, vedendomi spesso ancora circondato dai bagliori e dallo splendore del tuo volto, come prima nell'acqua, e non potendo assolutamente afferrarli, cercavo di ricordarmi dove mai ti avevo visto in alto, e, pensando scioccamente che tu fossi un altro, cercavo ancora, tra le lacrime, di vederti. Mi tormentavo dunque in questo modo in grande tristezza, afflizione e angustia [Rom 2, 9; 8, 33], dimentico di me stesso, di tutto quanto il mondo e delle cose del mondo [1 Giov 2, 13], e non pensavo nemmeno a un'ombra né ad alcun' altra cosa che mai possa essere visibile, quando tu, che sei a tutti invisibile, impalpabile e inafferrabile, mi apparisti; mi sembrava che tu mi purificassi la mente, mi dilatassi lo sguardo dell'anima e mi facessi vedere ancor di più la tua gloria, e che tu stesso crescessi e, risplendendo, ti dilatassi, e mentre le tenebre si ritiravano, capivo che eri tu che avanzavi e ti avvicinavi, come spesso ci capita di sperimentare con le cose sensibili. Quando la luna brilla e le nuvole, per così dire, camminano, la luna si vede e sembra correre velocissima, mentre non accelera affatto la corsa solita e non muta il suo percorso iniziale. Così, dunque, Padrone, mi sembrava che tu, l'immobile, ti avvicinassi e, immutabile, diventassi più grande e, senza forma, prendessi forma.
Mi accadde quel che accade a un cieco che recuperi la vista a poco a poco e si renda conto della figura tipica dell'uomo esaminando un po' alla volta come è fatto [Mar. 8, 24-23]; non è la figura che cambia o muta rispetto alla capacità visiva, ma piuttosto la vista dei suoi occhi; purificandosi, vede come è fatta la figura: tutta la sua forma somigliante, per così dire, s'imprime nella sua vista e, attraverso di essa, giunge, si plasma e s'incide come su un quadro nella facoltà razionale e nella memoria dell'anima. Così mi apparisti anche tu, purificando completamente con la limpida luce dello Spirito Santo la mia mente. E mentre essa vedeva in modo più limpido e più puro, mi sembrava che tu stesso uscissi da qualche parte e apparissi più splendente; allora mi facesti anche vedere la figura di una forma senza forma e mi portasti fuori del mondo - crederei di dire anche: fuori del corpo, ma di questo non mi concedesti di rendermi conto con precisione [2 Cor. 12, 2-3]. Risplendesti dunque straordinariamente e, a mio parere, ti lasciasti vedere interamente da me che tutto intero ti vedevo distintamente. Ti dissi: « Signore, chi sei mai? », e allora per la prima volta degnasti della tua voce me, figliol prodigo, e mi rivolgesti dolcemente la parola, mentre ero fuori di me, stupefatto e tremante, e cercavo di riflettere dicendomi: « Che vuol mai dire questa gloria e la grandezza di questo splendore? »

« Io sono il Dio che per te si è fatto uomo, e poiché mi hai cercato con tutta l'anima, ecco, d'ora in poi sarai mio fratello [Mat 12, 49-50; Mar 3, 34-35; Luc 8, 21], mio coerede [Rom 8, 17] e mio amico [Giov. 15, 14-15] .

Colpito da queste parole e prostrato nell'anima, con tutte le mie forze disperse, ti risposi: « Chi sono io, Padrone, che cosa ho fatto, misero e sventurato che sono, perché tu mi rendessi degno di tali beni e mi facessi compartecipe e coerede di una tale gloria? » Pensavo che questa gloria e questa gioia fossero al di sopra della mente; ma tu, il Padrone, come un amico a colloquio con l'amico [Es 33, li], per mezzo del tuo Spirito che parla in me, mi dicesti: « Questi doni te li ho fatti solo per il tuo proponimento e la tua buona volontà e fede, e ancora te li farò. Che altro hai, infatti, o che altro hai mai avuto, creato nudo da me [Giob 1, 21], perché io potessi prendere quel che avevi e darti in cambio questo? Se non ti sciogli dalla carne, non vedrai la perfezione e non sarai capace di goderne adeguatamente ». « E che cosa c'è - dissi - che sia più grande o più splendido di questo? Mi basta intanto essere così, anche dopo la morte ». « Come è grande la tua pusillanimità - mi dicesti - nell'accontentarti di questo! Questi doni, in confronto a quelli futuri, sono uguali a un cielo raffigurato sulla carta, che si può prendere in mano: quanto esso è inferiore al cielo vero, tanto più incomparabilmente la gloria futura ti si rivelerà superiore a quella che vedi adesso [Rom. 8, 18] ».
Dopo queste parole tacesti e a poco a poco, dolce e buon Padrone, ti nascondesti ai miei occhi. Ero io che mi allontanavo da te? Eri tu che te ne andavi via da me? Non so. Allora ritornai tutto di nuovo in me stesso, credendo di venire da qualche parte, e rientrai nella mia prima tenda. Sicché, nel ricordo della bellezza della tua gloria e delle tue parole, mentre camminavo, sedevo, mangiavo, bevevo, pregavo, io piangevo e vivevo in una gioia inesprimibile, perché avevo riconosciuto te, creatore di tutto. E come avrei potuto non essere felice? Ma cadevo di nuovo nella tristezza e bramavo rivederti così.
Una volta mi recai a baciare l'immacolata icona della tua Genitrice e mi prostrai davanti ad essa; ma prima che mi rialzassi, tu ti mostrasti a me all'interno del mio misero cuore, rendendomelo come di luce, e allora conobbi di possederti in me coscientemente. Da allora ti amavo non per il ricordo di tali grazie, ricordandomi di te e di quanto è intorno a te, ma credevo di avere in me veramente te stesso, l'amore personificato. Tu sei davvero l'amore sussistente, o Dio! [1 Giov 4,8.16].
La speranza dunque, piantata nella fede e innaffiata in essa dalla penitenza e dalle lacrime, e poi illuminata dalla tua luce, mise radici e cresceva bene. Poi sei venuto tu stesso, l'esperto artista e creatore, con la spada delle prove, cioè l'umiltà, potando i rami superflui dei pensieri che si erano levati verso l'alto, ed hai innestato il tuo santo amore nella sola speranza, come nell'unica radice di un albero [Giov 15, 1-2; Rom 11, 17-24]. Adesso la vedo crescere ogni giorno, e sempre essa mi parla, anzi, attraverso di essa sei tu che mi ammaestri e mi illumini: come se già mi trovassi oltre ogni fede e speranza, sono pieno di quella felicità di cui parla Paolo proclamando: « Quello che si vede, che bisogno c'è di sperarlo? » [Rom. 8, 24]. Se ho te, che cosa posso sperare di più?
Mi dicesti poi ancora: « Ascolta! Il sole tu lo vedi nelle acque, ma non lo vedi come è in sé e per sé, tanto più se guardi in basso: allo stesso modo, considera anche quanto avviene dentro di te. Rassicurati, e cerca sempre di scorgere me dentro di te in modo puro e limpido, come il sole nelle acque pure; e allora poi, come ti ho detto, sarai reso degno di vedermi così anche dopo la morte. Se no, tutto il giro di queste tue opere, fatiche e parole non ti gioverà a niente, anzi, ti condanneranno ancora di più e ti procureranno maggiore afflizione, perché, come senti dire, "i potenti saranno esaminati potentemente " [Sap 6, 6]. Infatti, per chi è povero fin dalla nascita la povertà non è causa di vergogna e non lo rattrista tanto come accade invece a chi è stato ricco, glorificato, in elevata posizione [Sal 37 (36), 20] e in intimità con l'imperatore terreno e poi è decaduto da tutti questi privilegi e si è visto ridotto in completa miseria - sebbene le cose non stiano allo stesso modo nelle condizioni terrene e visibili e in quelle spirituali e invisibili. Infatti, a coloro che per qualche motivo decadono dall'amicizia e dal servizio dell'imperatore terreno è pur sempre possibile rimanere padroni delle loro sostanze, goderne e vivere; invece se uno decade dal mio amore e dalla mia amicizia, non può più assolutamente vivere - la sua vita sono io! [Giov. 11, 25; 14, 6], ma è denudato subito di tutto e viene consegnato prigioniero ai miei e suoi nemici: essi lo prendono e, in cambio dell'affetto e dell'amore che prima nutriva verso di me, lo attaccano con rabbia tanto più folle, punendolo, deridendolo e schernendolo ».
Sì, santissimo Re, è proprio così! Anch'io credo a te, mio Dio; mi prostro a te e ti supplico: custodisci me, peccatore indegno di cui hai avuto pietà, e rafforza con la tua potenza il germoglio del tuo amore, che hai innestato nell'albero della mia speranza. Che esso non sia scosso dai venti, non sia spezzato dalla tempesta, non sia sradicato da qualche nemico, non sia bruciato dall'ardore della negligenza, non sia disseccato dalla pigrizia e dall'incostanza, non sia distrutto dalla vanità. Tu, che mi hai fatto questo dono e lo hai prodotto in me, lo sai: per causa sua sono privo di aiuto da parte di ogni uomo; il mio collaboratore e soccorritore, il tuo apostolo, lo hai separato fisicamente da me, come tu hai voluto. Tu conosci la mia debolezza, tu sai la mia miseria e la mia totale impotenza. Perciò d'ora in poi abbi ancor più misericordia di me, Signore dalla grande misericordia. Mi prostro a te con tutto il cuore, non lasciarmi in balia della mia volontà, tu che mi hai fatto tante grazie, ma conferma la mia anima nel tuo amore; fà sì che il tuo amore ponga in essa salde radici, perché secondo la tua promessa immacolata, santa e verace Tu possa essere in me e io in te [Giov 14, 20]. Possa io essere protetto dal tuo amore e a mia volta proteggerlo e custodirlo dentro di me; possa tu, Padrone, vedermi in esso, e io essere fatto degno di vederti attraverso di esso, ora come in uno specchio e in enigma, come hai detto [1 Cor. 13, 12], e poi allora in tutto il tuo amore e interamente, tu che sei l'Amore e così ti sei degnato di essere chiamato [1 Giov 4, 8.16], perché a te si addice ogni rendimento di grazie, potenza, onore e adorazione, al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, ora e sempre e per gli infiniti secoli dei secoli. Amen.

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5 - Inno XV




INNO XV


Quando tu ti riveli, Padrone di tutte le cose, e mostri più distintamente la gloria del tuo volto, nel guardarti sono tutto afferrato da un tremore dall'alto, per quanto è possibile a me, nella mia misera natura, e afferrato dal timore resto stupefatto e dico: « Oltre la mia comprensione è tutto quanto è tuo, Dio mio, perché sono impuro, indegno assolutamente di vederti, Padrone puro e santo: gli angeli ti venerano e ti servono con tremore, e dal tuo volto è scossa tutta la creazione ».
Ma quando dico così e socchiudo gli occhi, cioè rivolgo in basso la mia mente, perché non sono in grado di guardare e contemplare la tua vista dalla quale non c'è riparo, allora, privato della tua bellezza, Dio mio, mi lamento, perché non sopporto di essere separato da te, tu che solo sei l'amico dell'uomo. Ma mentre mi lamento e piango, tutto mi circondi di luce, ohimè!, e cado nello sbigottimento e ancor più piango, meravigliandomi della tua misericordia verso di me, figliol prodigo.
Allora guardo la grande vergogna del corpo e l'indegnità della mia misera anima, e riflettendo su di esse grido fuori di me: « Chi sono dunque io, Dio e creatore di tutto, e che cosa ho mai fatto di bene nella vita, o quale tuo comandamento ho mai praticato perché, nella mia miseria, mi glorifichi con una tale gloria? Come mai, perché ti sei degnato di circondare così della tua luce me misero, di notte e di giorno? Mai ti ho cercato assetato, mio Re, mai ho sofferto faticando a praticare i tuoi comandamenti, mai ho subito tentazioni e frustate, come tutti i santi, che da sempre hanno sopportato tutto questo, perché tu mi salvassi, Cristo, annoverandomi con loro! Certo tu non mi salverai, nella mia indolenza, senza le Opere, anche nel tuo ardente amore per l'uomo, creatore degli uomini. Ascolto Paolo, che dice che la fede senza le opere è morta (Giac 2,26) (e non Paolo!)], e tremo per le pene che mi attendono laggiù, negligente come sono. Come dunque potrei avere l'ardire, io, di essere annoverato come un fedele con coloro che hanno faticato, Padrone, io che non ho mai osservato nemmeno uno dei tuoi comandamenti? Ma lo so: tutto tu puoi, tutto tu compi come vuoi, e agli ultimi, Padrone, ti dai come ai primi, e meraviglia! agli ultimi anche prima dei primi ».
Quando rivolgo tutte queste parole a te, creatore del mondo, tu che prima mi apparisti in alto e poi un tempo ti sei nascosto e infine mi circondi tutto quanto di raggi, d'improvviso ti scorgo tutto intero dentro di me, tu che prima mi apparivi in alto, ma poi ti sei nascosto in una nube, come il sole, del tutto senza raggi. Come il sole, per chi lo guarda, proprio allora è accessibile e, per così dire, è più visibile per tutti, così anche tu ti rendi accessibile a me nascondendoti dentro di me, tu l'inaccessibile, lasciandoti vedere, come sai, agli occhi della mia mente, crescendo a poco a poco, mostrandoti più luminoso, più luminoso brillando; e ancora, di nuovo, mi appari del tutto inaccessibile. Per questo io magnifico la tua incomprensibilità e, facendomi araldo della tua bontà, grido a te: «Gloria a colui che ha così glorificato la nostra natura; gloria alla tua smisurata condiscendenza, o Salvatore; gloria alla tua misericordia, gloria alla potenza, gloria a te perché, rimanendo immutabile, invariabile, sei tutto immobile, pur essendo in perenne movimento; tutto intero fuori della creazione, e tutto intero in ogni creatura; tutto intero riempi Ogni cosa, pur essendo tutto intero al di fuori di tutto, sopra tutto, Padrone, sopra ogni principio, sopra ogni essenza, sopra la natura della natura, sopra tutti i secoli, sopra Ogni luce, Salvatore, sopra le essenze (angeliche) intellegibili - opera tua sono anch'esse, anzi, sono opera del tuo pensiero ».
Tu non sei nessuno di tutti gli esseri, ma al di sopra di tutti: degli esseri tu sei causa, come creatore di tutto, e per questo da tutto sei separato, elevato in alto per il pensiero, sopra tutti gli esseri, invisibile, inaccessibile, incomprensibile, intoccabile, ed essendo intellegibile rimani immutabile; pur essendo semplice, sei tutto varietà, e la mente è assolutamente incapace di comprendere la varietà della tua gloria e il fascino della tua bellezza.
Tu dunque, che non sei nessuna delle cose che sono, perché sei al di sopra di tutto, tu che sei al di fuori di tutto come Dio di tutto, invisibile, inaccessibile, incomprensibile, intoccabile, tu stesso sei diventato mortale, sei entrato nel mondo e ti sei mostrato accessibile a tutti assumendo la carne. Ti sei fatto conoscere anche ai fedeli nella gloria della divinità e per essi sei diventato afferrabile, tu del tutto inafferrabile, e tutto quanto visibile, tu invisibile a tutti. La gloria tua, della tua divina divinità, l'hanno vista e la contemplano solo i fedeli, mentre tutti gli infedeli sono rimasti ciechi, pur avendo visto te, la luce del mondo (Giov. 8, 12).
I fedeli, allora come adesso, ti vedono sempre ed hanno te, il creatore di tutte le cose, che vivi ed abiti con loro nella tenebra della vita, te, come sole che non tramonta, come lampada inestinguibile, te che le tenebre non possono assolutamente vincere (Giov 1, 3) mentre illumini sempre quelli che ti vedono. Poiché tu, come ho detto, sussisti al di fuori di tutto, anche quelli che tu illumini li trai fuori dal mondo visibile; e come tu, mentre sei lassù con il Padre tuo, sei anche tutto intero incessantemente con noi, e viceversa, essendo nel mondo sei incomprensibile al mondo - giacchè mentre sei in tutto, sei al di sopra di tutto - così porti fuori noi, tuoi servi, che viviamo in mezzo alle cose sensibili e all'interno di quelle visibili, e ci sollevi in alto interamente con te, splendenti della tua luce, e da mortali ci fai immortali; rimanendo quel che siamo, diventiamo, per la tua grazia, figli simili a te, dèi che vedono Dio (1 Giov 3, 2). Chi non correrà verso di te, solo amico dell'uomo, chi non ti seguirà, chi non dirà, mosso dall'amore: « Ecco, abbiamo gettato via tutto e abbiamo seguito te (Mat 19, 27), il padrone compassionevole, mite, misericordioso, che sempre aspetti il nostro ritorno a te, che non vuoi la morte di quelli che ti hanno offeso, che compi ora in noi gli stessi prodigi tremendi che ci riempiono di meraviglia quando sentiamo che un tempo accaddero nella casa di David »!
Ecco quali sono quei prodigi: casa di David siamo noi, in quanto parenti suoi; e infatti tu stesso, il creatore di tutto, sei diventato figlio suo, e noi figli tuoi secondo la grazia: tu parente a noi nella carne, noi a te nella divinità. Hai ricevuto la carne e ci hai dato il tuo Spirito divino, e siamo diventati una sola casa di David, tutti insieme, grazie alla tua proprietà individuale, alla parentela con te. Tu sei signore di David nello Spirito (Mat 22, 43), e noi figli di David, tutti tuo seme divino: e quando noi ci raduniamo, diventiamo una sola casa, cioè tutti parenti, tutti tuoi fratelli. Come non è meraviglia tremenda, come non tremerà chiunque consideri e comprenda fino in fondo che tu sei con noi ora e nei secoli (Mat 28, 20), rendi ciascuno tua casa e dimori in tutti, per tutti diventi casa ed in te dimoriamo, ciascuno di noi, Salvatore, tutto intero con te tutto intero, e mentre ti trovi solo con ciascuno solo, al di sopra di noi sei tutto intero solo!
Tu dunque operi in noi ora tutti i terribili prodigi. Quali prodigi terribili? Ascoltatene alcuni tra i tanti: anche se ciò che abbiamo detto è già oltre ogni possibilità di stupore, tuttavia ascolta adesso cose ancora più terribili di quelle! Membra di Cristo diventiamo - indivisibile, pensaci!, è la divina divinità -; muovo il piede, ed ecco, sfolgora come lui. Non dire che bestemmio, ma accogli queste parole e adora Cristo che ti rende tale! Se anche tu lo vorrai, diventerai membro suo, e così tutte le membra di ciascuno di noi diventeranno membra di Cristo, e Cristo membra nostre, e tutte quelle sconvenienti le renderà decorose (1 Cor 12, 23) ornandole con la bellezza e la gloria della divinità; contemporaneamente, vivendo con Dio, diventeremo dèi, non vedendo affatto la sconvenienza del corpo, ma saremo resi simili a Cristo tutti interi in tutto il corpo, e ciascun membro nostro sarà Cristo tutto intero. Egli infatti, pur divenendo molti, rimane uno e indivisibile, e ciascuna parte è Cristo stesso intero: assolutamente, dunque, hai riconosciuto così il Cristo nel mio dito, nel glande - non hai forse tremato, non hai provato vergogna? Ma Dio non si è vergognato di diventare simile a te, e tu ti vergogni di diventare simile a lui? « No, non mi vergogno di diventare simile a lui, ma quando lo hai chiamato simile al membro sconveniente, ho pensato che tu bestemmiassi! Male hai pensato! Non Sono sconvenienti queste cose! Sono membra nascoste di Cristo tanto è vero che vengono coperte, e in questo sono più degne di venerazione delle altre (1 Cor. 12, 23), come membra nascoste, invisibili a tutti, di colui che è nascosto, dal quale nell'unione divina viene dato il seme divino, formato con tremendo arcano nella forma divina, proveniente da tutta intera la divinità stessa: è tutto intero Dio, infatti, che si unisce a noi. O tremendo mistero! Avviene realmente un matrimonio, ineffabile e divino: egli si unisce a ciascuno - sì, voglio dirlo ancora, per il piacere! - e ciascuno si unisce al Padrone.(1 Cor. 6, 13), e Cristo membra nostre; di me sventurato Cristo è mano, Cristo è piede, e io miserabile mano di Cristo e piede di Cristo. Muovo la mano, e la mia mano è Cristo intero
Se dunque ti sei rivestito di Cristo intero (Rom. 13, 14) con l'intera tua carne, capirai senza vergogna tutto ciò che sto dicendo. Se invece hai messo sulla tua anima solo una piccola parte del manto immacolato, cioè di Cristo, sul tuo abito vecchio (Mat 9, 16), quella parte si trova su un posto soltanto, e tu ti vergogni di tutte le altre membra, anzi, hai il corpo tutto quanto insozzato. Rivestito di abiti sporchi, come non arrossirai? Mentre io dico queste cose tremende riguardo alle membra sante e contemplo la grande gloria e, con la mente illuminata e gioiosa, non penso a niente di carnale, tu guardi le tue carni insudiciate e con la mente scorri le tue stolte azioni e in esse la tua mente continua a contorcersi come un verme. Per questo rovesci su Cristo e su di me la tua vergogna e dici: « Non ti vergogni di parlare di cose sconvenienti, anzi, di abbassare Cristo a membra sconvenienti? » Ma io a mia volta ti dico: contempla Cristo nell'utero, pensa a ciò che è nell'utero, e a lui che ne esce, e per dove è passato, uscendone, il mio Dio! Oltre quel che ho detto, troveresti ancora di più, cose che egli ha accettato per la nostra gloria, perché nessuno si vergogni di imitarlo o di parlare di ciò che egli ha subito o di patirlo personalmente. Egli si è fatto completamente uomo, essendo realmente interamente Dio, ed è uno, non diviso (1 Cor. 1, 13), uomo assolutamente perfetto; egli è insieme Dio e tutto intero nelle membra tutte intere. Così è avvenuto anche ora negli ultimi tempi: Simeone il Santo, il Pio studita, lui non si vergognava di vedere le membra di qualsiasi uomo o persone nude, né di essere visto nudo. Aveva infatti tutto intero il Cristo, lui stesso era tutto intero Cristo, e tutte le membra sue e quelle di chiunque altro, singolarmente e tutte insieme le considerava sempre come Cristo e rimaneva immobile, indenne, impassibile, essendo egli stesso tutto Cristo e considerando come Cristo tutti i battezzati rivestiti del Cristo intero (Gal 3, 27). E se tu, quando sei nudo e la carne tocca la carne diventi pazzo per la femmina come un asino o uno stallone, perché osi calunniare anche il santo o bestemmi Cristo, che si è unito a noi ed ha donato l'impassibilità ai suoi santi servi? Egli infatti diventa sposo - intendi? - ogni giorno, e spose sono tutte le anime alle quali il creatore si unisce, e a loro volta esse a lui, e si compiono le nozze spiritualmente, quando egli si unisce a loro in modo degno della divinità. Egli non le viola affatto, non sia mai!; anzi, anche se le prende violate, unendosi a loro le rende subito incorrotte: quello che prima era macchiato dalla corruzione, lo vedono reso di nuovo tutto santo, incorrotto, perfettamente cicatrizzato. Glorificano il misericordioso, bramano il Bello e si stringono tutte al suo totale amore, anzi, ricevendo il seme santo, come abbiamo detto, posseggono Dio intero formato dentro di loro.
Tutto questo non è dunque la verità, padri? Non abbiamo parlato rettamente delle cose divine? Non ho forse detto cose fedeli alla Scrittura? Se tu sei rivestito della vergogna della tua carne non hai denudato la mente; non hai spogliato l'anima e, avvolto di tenebre, non sei stato capace di vedere la luce, che cosa posso farti io? Come potrò mostrarti i tremendi misteri? Come introdurti, ohimè, nella casa di David? Essa infatti è inaccessibile ai negligenti come me, è del tutto invisibile ai ciechi simili a me, è lontanissima dagli infedeli e dai pigri, distante da tutti i cattivi, da tutti gli amici del mondo; dai vanagloriosi poi dista così incomparabilmente come oltre l'altezza del cielo, oltre la profondità dell'abisso. E chi, o come, salirà mai in cielo o potrebbe scendere sotto terra per scrutare gli abissi? (Rom 10, 6-7). E cercando la perla, che è piccolissima, come un granello di senape (Mat 13, 31.45), come riuscirà a trovarla? Ma radunatevi, giovani, venite qui, donne, correte, padri (Gioel 2, 16), prima che arrivi la fine, e insieme a me lamentatevi e piangete tutti (Gioel 1,5) perché, avendo ricevuto da piccoli Dio nel battesimo, anzi, essendo diventati figli di Dio da bambini, col peccato fummo subito cacciati fuori dalla casa di David, e questo lo abbiamo subito senza rendercene conto.
Corriamo attraverso la penitenza! Di li entrano tutti coloro che sono stati cacciati fuori. Non lasciatevi ingannare! Non c'è altra via per entrare e in altro modo è impossibile vedere i prodigi che in essa sono stati compiuti e che si compiono ora e nei secoli infiniti nel Cristo mio Dio, al quale sì addice ogni gloria, onore e adorazione ora e nei secoli. Amen.

* * *
6 - La via delle lacrime

"Le lacrime sono il segno che ti stai avvicinando ai confini della regione misteriosa"
Isacco il Siro, Prima collezione 14
"Non c'è altra via [che le lacrime] ... per vedere i misteri"
Simeone, Inni 15,259-260


Quando i tuoi occhi sono purificati dalle lacrime e tu vedi Colui che nessuno mai ha visto, quando la tua anima è morsa dal suo amore e tu componi un cantico mescolato con lacrime, per favore ricordati di me e prega per la mia umile persona. Poiché, allora, tu hai conseguito l'unione con Dio e una fidu­cia in lui che non sarà mai confusa.
Le lacrime sono silenziose, e tuttavia dense di suoni. Sono la nostra voce vera, la nostra lingua madre.
Il silenzio delle lacrime è il nostro modo di esplorare le celle in­teriori e inaccessibili del cuore.
“O lacrime che scaturite dalla divina illuminazione e aprite il cielo stesso e a me procurate una divina consolazione”.
Quando vidi i brillanti bagliori di luce attorno a me e i raggi provenienti dal tuo volto mescolati con acqua, rimasi stupito, vedendomi asperso di un'acqua luminosa. Dov'era, donde proveniva Colui che mi stava aspergendo con acqua? Non lo sapevo. Semplicemente, mentre ero immerso nell'acqua, ero sopraffatto dalla gioia, crescevo nella fede, volavo sulle ali della speranza, ascendevo al cielo.

Simeone il Nuovo Teologo emerge come il testimone più eminente e l'interprete più ricco della via delle lacrime. Se da un lato le radici di questo tema affondano saldamente nel NT (cf. Mt 5,4), dall'altro è nel IV secolo che la via delle lacrime si affer­mò in tutta la sua ricchezza nelle espressioni ascetiche e mistiche. I padri del deserto e i Cappadoci sono tra i primi a sottoli­neare il valore delle lacrime, mentre altre pietre miliari sono co­stituite da Evagrio Pontico e da Isaia di Scete, che dedica un in­tero discorso all'afflizione spirituale, da Diadoco di Fotica e dalle Omelie dello Pseudo-Macario, da Giovanni Climaco e da Isacco il Siro e, in occidente, da Giovanni Cassiano e da Agosti­no di Ippona. Questo dono spirituale non è sconosciuto in occi­dente, ma sembra che l’oriente lo abbia coltivato in maniera più continua e consapevole. Non esistono peraltro resoconti or­ganici sull'argomento. Giovanni Climaco, che dedica un gradi­no/capitolo specifico (il settimo) alla "gioiosa tristezza", non si esprime in modo coerente. Persino Simeone, per il quale le la­crime costituiscono la via maestra del pentimento e l'elemento indispensabile della purificazione spirituale, non presenta ciò nonostante alcuna esposizione sistematica della "teologia delle lacrime".
Ho presentato altrove un abbozzo di alcune delle fasi stori­che, teologiche e spirituali che caratterizzano la via delle lacrime nella tradizione ascetica antica e - segnatamente - in Gio­vanni Climaco. Questo saggio cercherà di individuare gli ele­menti fondamentali di questa via in Simeone il Nuovo Teologo (949-1022) e più specificamente di demitizzare il simbolismo che sta alla base della terminologia. Il mio compito è in certo senso facilitato dallo stesso Simeone, che alla luce della "criti­ca" teologica o dell' "analisi" psicologica risulta di estrema tra­sparenza. Gli scritti di Simeone il Nuovo Teologo - le sue Catechesi e i suoi Inni, i suoi Trattati etici e pratici, i suoi Trattati teo­logici e le sue Preghiere di ringraziamento - si presentano a noi come una confessione di tale limpidezza, quale nessuno sarebbe disposto a fare, nemmeno dinanzi alla propria guida spirituale. Simeone invece offre una confessione pubblica, personale, pro­fonda; ogni riga reca il segno inconfondibile della sua identità peculiare. Questa spontaneità è un contrassegno della sua autenticità. La sua vita e i suoi scritti sono limpidi come un bic­chiere d'acqua; egli non dà adito a punti interrogativi di sorta. Il suo è più di un modo di scrivere nuovo e rinfrescante; è il ricor­dare la realtà di una nuova luce e di una nuova vita.
Simeone ha sentito parlare per la prima volta delle lacrime nella Scala, che ha letto prima di abbracciare la vita monastica. Ma la sua comprensione delle lacrime deriva direttamente dal suo maestro spirituale, Simeone Studita, e viene da lui trasmes­sa fedelmente al proprio discepolo spirituale, Niceta Stetha­tos. Si tratta di una teologia nutrita dall'esperienza di una tradizione viva delle lacrime. In verità questa esperienza personale e profonda della via delle lacrime caratterizza l'inizio stesso del suo percorso spirituale, quando - dopo la visione della luce divi­na avuta da ragazzo, quando ancora si chiamava Giorgio - Si­meone ci dice che piangeva di cuore e le sue lacrime erano accompagnate da dolcezza.

Il contesto delle lacrime
Il pentimento ( “metànoia” )
Simeone il Nuovo Teologo rifiuta radicalmente qualsiasi scusa da parte di chi intenda motivare la mancanza di lacrime, rigettando tale condizione come eretica. Per Simeone tutti possono piangere, purché lo vogliano. Ogni percorso spirituale deve im­boccare questa strada:
Chi dunque è stato fatto un giorno degno di sperimentare la­crime siffatte capirà ciò che si dice, e insieme con me renderà testimonianza della verità di ciò, come anche mi renderà te­stimonianza la voce del Teologo quando dice: "Tutti le lacri­me, tutti la purificazione, tutti l'ascesa e tutti il protendersi verso ciò che sta davanti".
Tutta la quarta Catechesi costituisce una risposta di Simeone ai fratelli del suo monastero che protestavano contro l'insegnamento di Simeone Studita secondo cui "non si dovrebbe mai ri­cevere la santa comunione senza lacrime". Altrove Simeone insi­ste sul fatto che chiunque è capace, per sua natura, di versare lacrime:
Come per natura sia dato a tutti di piangere, te lo possono insegnare gli stessi bambini quando nascono. Infatti all'uscire dal grembo e al cadere sulla terra essi piangono, e questo ap­pare come un segno di vita per le levatrici e per le madri. Per­ché se il bimbo non piange, esse non lo ritengono neppure vivo ma, piangendo, mostra con ciò stesso come la natura com­porti fin dalla nascita l'afflizione e le lacrime. Ma, come dice­va anche il nostro santo padre Simeone Studita, bisogna che l'uomo trascorra la vita presente in questo stesso pianto e con questo deve morire, se solo vuole essere salvato ed entrare nella vita beata, poiché il pianto della nascita è come il simbo­lo delle lacrime della vita presente di quaggiù. Come infatti il cibo e la bevanda sono necessari al corpo, così anche le lacri­me lo sono all'anima, di modo che chi non piange ogni giorno - esito a dire ogni ora, per non sembrare eccessivo - consuma la sua anima con la fame e la manda in rovina.
Inoltre Simeone è decisamente contrario a ogni comprensio­ne delle lacrime come fenomeno temporaneo o passeggero. Le lacrime accompagnano ogni azione: la preghiera, il mangiare, il bere. Attraverso le lacrime, il pentimento diventa un atteggiamento che impregna di sé l'intera esistenza, e per acquisir­lo si è disposti a uno sforzo continuo. Dopo tutto, come scrive Simeone,
anche solo per un semplice sguardo o un pensiero o una paro­la si sentono come decaduti dall'amore di Dio.
Il pentimento dunque è una via, non un episodio. Non è né un gesto isolato né un luogo di sosta, ma un viaggio continuo, quanto meno in questa vita. E’ una condizione, non una tappa:
È dunque possibile a tutti, fratelli, e non solo ai monaci ma anche ai laici, sempre e continuamente fare penitenza e pian­gere e supplicare Dio e così facendo acquistare anche tutte le altre virtù.
Sussiste uno stretto legame fra il pentimento e le lacrime. Di fatto queste ultime sono considerate una prova del primo, quasi come "le sue ali":
Questa è la penitenza che - attuata così in modo compiuto, come abbiamo detto, fino alla morte, con fatiche e tribolazio­ni - farà sì che versiamo lacrime amare.
In effetti Simeone è estremamente preciso nel segnalare una connessione stretta - persino un'identità - fra il pentimento, le lacrime e la salvezza:
È in proporzione al nostro pentimento, alla confessione e alle lacrime, che riceviamo la remissione dei nostri peccati precedenti e riceviamo anche la santificazione e la grazia dall'alto.
Togli le lacrime, e assieme a quelle avrai soppresso anche la purificazione: ma senza purificazione nessuno può salvarsi.
Questo perché le lacrime sono il risultato del desiderio di Dio che tutti possano essere salvati. Per Simeone, se l'anima acqui­sta la conoscenza dell'amore di Dio - o la consapevolezza del proprio estraniamento dall'amore di Dio -, allora “le lacrime sgorgheranno immediatamente dal suo intimo". Le lacrime sono una modalità di conoscenza; piangiamo o perché siamo con­sapevoli della nostra identità paradisiaca, oppure perché abbia­mo nostalgia di un "paradiso perduto". Nella condizione delle lacrime è presente, allo stesso tempo, un elemento intenso di nostalgia e un elemento intenso di desiderio.

L'afflizione (“pénthos”)
Il termine pénthos ha la medesima radice del vocabolo pathos: sul piano etimologico derivano entrambi dal verbo pathein, che significa "soffrire". Orbene la sofferenza, o il patire, possono as­sumere varie forme; e per l'asceta cristiano, che riconosce che ogni sofferenza è assunta nella croce, le ferite della compunzio­ne sono anch'esse varie, e una di esse trova espressione nelle la­crime. Per Simeone la sofferenza trasforma l'anima in una fonte di lacrime. Nella sofferenza non c'è spazio per misure alternative che possono risultare più attraenti a quanti sono meno pro­pensi a piangere o incapaci di farlo, o forse sono persino abbat­tuti dalla disperazione totale o dalla malattia:
E la tua anima, oggi terreno pietroso, diverrà per te una fonte di lacrime.
Diversamente da Giovanni Climaco, dunque, Simeone appa­re inflessibile e irremovibile nell'accento che pone sulla necessità assoluta delle lacrime, ma forse la stretta connessione tra le la­crime e il pénthos, e la corrispondente accentuazione da parte sua del patire e della sofferenza, aprono uno spiraglio. Il pénthos consiste nell'afflizione per una perdita subita. E la tristezza e la sofferenza per l'assenza di Dio, è sete inestinguibile della pre­senza di Dio. Gregorio di Nissa osserva che le lacrime sono cau­sate dalla privazione di qualcosa di desiderabile (il pathos come risultato del pénthos), mentre Teodoreto di Ciro conclude:
È la passione (pathos) per Dio a suscitare le lacrime (pénthos).
Perciò le lacrime e l'amore sono interconnessi; non conoscia­mo mai l'uno senza le altre. Le lacrime e l'amore - o il pentimento e la passione - sono le due facce di una stessa medaglia che possiamo chiamare vita. Quando piangiamo condividiamo; le nostre lacrime si uniscono alla litania delle lacrime sparse da tutti gli uomini e ai gemiti della creazione (cf. Rm 8,22). E’ que­sto pentimento appassionato che, secondo Simeone, conduce a sua volta a un desiderio crescente e sempre più intenso di Dio:
Il pentimento opera in una duplice maniera: è come acqua perché estingue la fiamma delle passioni con le lacrime e pu­rifica l'anima dalle sue macchie; ed è anche come fuoco gra­zie alla presenza dello Spirito santo che vivifica, accende, in­fiamma e riscalda il cuore, accendendolo d'amore e di deside­rio appassionato di Dio.
Nella via delle lacrime questa dialettica fra ritorno e revivi­scenza, tra il pentimento che guarda indietro e il desiderio che guarda in avanti, tra passato e futuro, è critico. Per Isacco il Siro le lacrime costituiscono un punto cruciale di transizione, la frontiera fra l'era presente e quella futura. Come abbiamo visto, Simeone prende a prestito l'immagine formulata da Isacco, del neonato che piange appena viene alla luce, che riflette il cristia­no che piange al momento della rigenerazione nell'era venien­te. Per rinascere nel presente e nel futuro siamo obbligati a ri­cordare il passato. Se non ci pentiamo del passato alla luce del futuro, siamo condannati a ripetere il passato nel presente.
Ogni aspetto della vita quotidiana assume in tal modo una di­mensione escatologica, anche - paradossalmente - nei termini di un ritorno alla condizione originale della natura umana; ogni cosa tende verso la "fine" (éschaton) e l'attende, anche se appar­tiene al qui e ora. È il rovescio della nostra esperienza decaduta e un'attesa intensa della grazia di Dio. C'è gioia nell'essere in cammino e gioia nell'arrivare. E tuttavia, la nostra gioia è com­pleta solo in patria, in paradiso. La gioia (charà) e la grazia (chàris) hanno una radice comune e condividono lo stesso significa­to, sul piano etimologico, teologico e spirituale. In ultima anali­si, tramite la teologia delle lacrime, e nella teologia delle lacri­me, Simeone diventa un teologo dell'estasi gioiosa e dell'eb­brezza spirituale. Le lacrime di compunzione sono trasformate in lacrime di gioia. Così la ferita - o l'afflizione - diventa il se­no - o una situazione di gravidanza - in cui la sofferenza e la morte sono unite alla grazia e portano nuova vita. Quando pian­giamo cresciamo.

La via delle lacrime
Il sacramento delle lacrime
Vi sono lacrime di compunzione che producono virtù; vi sono lacrime di dolore e di afflizione che sono prodotte entrambe dal pentimento e dal desiderio e che a loro volta producono esse stesse il pentimento e la brama ; e vi sono lacrime che sono for­zate, accanto alle lacrime che sgorgano spontaneamente. Indi­pendentemente dalla qualità delle lacrime, Simeone non cambia mai idea sulla loro importanza univoca:
Non fatevi ingannare.
Non c'è altro modo di entrare all'interno
o di vedere [i misteri] che vi sono stati compiuti
e che tuttora vi si compiono

Le lacrime e il battesimo
Radunatevi, figli; venite, donne;
affrettatevi, padri; la fine s'avvicina.
Unitevi a me nel pianto e nel lamento.
Poiché, dopo aver ricevuto Dio nel battesimo da bambini,
o piuttosto dopo essere diventati bambini, figli di Dio, presto siamo diventati peccatori
e siamo stati espulsi dalla casa di David
senza che neppure ce ne rendessimo conto.
Le lacrime sono un altro battesimo, un secondo battesimo:
Nel primo battesimo l'acqua è simbolo delle lacrime, e l'olio dell'unzione prefigura l'unzione interiore dello Spirito. Ma il secondo battesimo non è più un semplice tipo della verità; è la verità stessa.
Non c'è nulla di particolarmente innovativo nelle affermazio­ni di Simeone sui due battesimi. Diadoco di Fotica nel V secolo e Giovanni Climaco nel VII secolo avevano già descritto in modo similare la spiritualità e la sacramentalità del pianto. Le lacri­me lavano via i peccati interni ed esterni, i vizi sia noti sia na­scosti. Al pari di Giovanni Climaco, Simeone gioca col verbo pìptein (cadere) e nìptein (lavare). Lavare significa ripulire le feri­te del corpo e dell'anima. La purificazione conduce alla reden­zione. Chiaramente influenzato dal suo predecessore, il Sinaita, Simeone il Nuovo Teologo scrive:
Come un vestito raccolto da qualche parte tra il fango e il le­tame e intriso di sudiciume non può essere lavato se non con acqua abbondante e battendolo molto con i piedi, così anche la tunica dell'anima, imbrattata dal fango e dal letame delle passioni peccaminose, non può essere pulita se non per mez­zo di molte lacrime.
Ma nonostante la loro importanza, le lacrime non si sostitui­scono mai al battesimo; piuttosto, lo rinnovano in maniera tangibile. Le lacrime non concedono la grazia divina; invece, porta­no alla nostra consapevolezza attiva la grazia già concessa nel battesimo. Simeone non mette mai in questione la supremazia e l'efficacia del sacramento. Piuttosto, afferma la necessità di una ricezione consapevole e di una risposta continua alla grazia bat­tesimale. Il potere delle lacrime sta proprio nel ringiovanire la persona, quasi una continuazione della funzione purificatrice del battesimo. Le lacrime segnano la tensione tra l'essere (uma­no) e il divenire (divino).

Una teologia della spontaneità
Il silenzio delle lacrime
L'indagine sulla fenomenologia delle lacrime, ogni traduzione della teologia delle lacrime, valica inevitabilmente i confini del­le generazioni e delle culture. I classici della mistica cristiana non possono essere recepiti alla lettera né li si può liquidare alla leggera. Essi richiedono l'adeguato apprezzamento dello sfondo storico in cui sono vissuti e dell'ambiente culturale in cui è av­venuto il loro cammino spirituale. Torniamo perciò ad analizzare le lacrime ponendole sotto la luce contemporanea di un micro­scopio dell'anima.
Ovviamente è più importante spargere lacrime che definirle; subirle piuttosto che limitarsi a capirle. Lo stesso Simeone lotta per articolare quella che è essenzialmente una realtà inesprimi­bile, un'esperienza estatica. Com'è possibile descrivere con pre­cisione l'effetto della grazia divina, dell'essere toccati da Dio? Come si può comunicare adeguatamente l'impatto della ferita dell'amore divino, dell'anima colpita - Simeone preferisce il ver­bo "mordere" - dall'amore di Dio? Egli dice:
Quando i tuoi occhi sono purificati dalle lacrime e tu vedi Colui che nessuno mai ha visto, quando la tua anima è morsa dal suo amore e tu componi un cantico mescolato con lacrime, per favore ricordati di me e prega per la mia umile persona. Poiché, allora, tu hai conseguito l'unione con Dio e una fidu­cia in lui che non sarà mai confusa.
Le lacrime fanno la loro comparsa quando le parole o sono insufficienti oppure sono esaurite. Esse si lasciano dietro il linguaggio umano convenzionale. Oppure - più precisamente - le lacrime trasformano e consacrano le parole; creano un linguag­gio nuovo, un altro modo di comunicare. Forse "cantico" e "fi­ducia" sono gli unici modi adeguati di esprimere la via delle la­crime. Forse nella nostra teologia e nella nostra vita ecclesiale c’è troppo poco canto e troppo poca poesia. Forse nella nostra vita personale e sociale c'è troppo poco coraggio e troppo po­ca fiducia. Le lacrime producono un senso di fedeltà nel nostro rapporto con Dio e tra di noi. Esse rivelano una dimensione di interiorità e di intensità. Sono una via di spontaneità e di auten­ticità. Più che limitarsi a rovesciare l'accento, posto di solito sul­la razionalizzazione, e integrare la rigidità dell'intellettualismo, le lacrime simboleggiano pienezza e integrità. Più che limitarsi a dare spazio a ogni forma di sentimentalismo o a mettere in que­stione la diffidenza verso l'emotività, le lacrime affermano iden­tità e vividezza. Le lacrime sono silenziose, e tuttavia dense di suoni. Sono la nostra voce vera, la nostra lingua madre.Una lacrima silenziosa ci farà procedere lungo il cammino spi­rituale più che innumerevoli imprese ascetiche "più eclatanti", o gesta virtuose più "visibili". In verità, la connessione tra le la­crime e il silenzio è importante. Le parole sono, per sé, un modo di affermare la propria esistenza e di giustificare le proprie azio­ni ed emozioni. Il silenzio invece, che può essere avvertito come morte, come un lasciare che la vita se ne vada, è un modo di rinunciare a ogni nostra autogiustificazione. Così spesso noi cer­chiamo di ingannare la morte o di sfuggire alla morte con spie­gazioni o scuse. Le lacrime ci insegnano ad attendere in silenzio e a professare la potenza divina. Attraverso le lacrime confessia­mo la nostra personale impotenza e la divina potenza. Rinuncia­mo alle nostre immagini infantili di Dio e cediamo all'immagine vivente di Dio. Le lacrime confermano la nostra disponibilità a consentire alla nostra vita di dissolversi nella notte oscura dell'a­nima, e la nostra disponibilità ad assumere una nuova vita nella risurrezione dei morti.

Le pazienza delle lacrime

Per Simeone le lacrime sono al contempo un dono e un modo di essere, sono sia una concessione che uno sforzo. Sono il fuoco della presenza di Dio che riscalda il cuore e sono l'acqua della preghiera ascetica che estingue i peccati. Quando piangiamo ci fermiamo; le lacrime sono un'opportunità di rallentare e fermar­ci, di stare in silenzio e di essere semplicemente. Sono una ma­nifestazione tangibile - o un incarnazione - del nostro contatto consapevole con Dio. Non puoi muoverti fino a quando non ti fermi, a meno che non ti sia già fermato; non puoi ricevere lo Spirito fino a quando non ti arrendi e se non ti arrendi; non puoi trovare la tua anima se prima non la perdi (cf. Mt 10,39). In quello che perdiamo e troviamo, scopriamo il mistero; i no­stri occhi pieni di lacrime sono aperti al volto di Dio. In verità, Simeone confronta le lacrime all'acqua e alla pioggia che porta un giardino a produrre frutti: senza la gratuità delle lacrime - il dono della chàris divina -, oltre che lo sforzo di irrigare - la lotta della àskesìs umana -, i fiori non sbocceranno e i frutti non matureranno. Come accade con il giardiniere o il contadino, la virtù della pazienza è di importanza fondamentale. Attendere vuol dire piangere; piangere vuoi dire essere umili. Attendere è il modo più sicuro per ottenere i doni divini, anziché presumerli o cercarli prematuramente. E la pazienza è critica perché l'avvento delle lacrime è graduale: letteralmente, goccia dopo goc­cia. Piango, e quindi sono.


L'essenza delle lacrime

E tuttavia le lacrime non sono affatto espressione di semplice passività; sono una manifestazione attiva dalla volontà dell'ani­ma di progredire o, in realtà, di subire il processo di ritorno. Le lacrime sono un riconoscimento della realtà che noi stiamo "vivendo, e vivendo parzialmente" e un'espressione del no­stro desiderio di avere vita, e vita in abbondanza (cf. Gv 10,10). Il silenzio delle lacrime è il nostro modo di esplorare le celle in­teriori e inaccessibili del cuore. Sondare le acque del cuore è l'i­nizio della vita nello Spirito. Forse è questo il motivo per cui in­tercorre una connessione stretta fra le lacrime e il battesimo. Le lacrime non sono una reazione sentimentale, bensì una rigenera­zione sincera, un momento di risurrezione. In ultima analisi, le lacrime sono un modo di vedere più chiaramente, un pulire gli occhi e un aguzzare lo sguardo:
Come infatti accade a un cieco che a poco a poco ricupera la vista e discerne la fisionomia dell'uomo, e quale essa sia, da ciò che a poco a poco viene esaminando e non è la fisiono­mia che si trasforma o muta nella visione, bensì, piuttosto, è la capacità visiva dei suoi occhi che, purificata, vede quale egli è, come se l'immagine di lui si imprimesse tutta nella sua facoltà visiva - ... così anche tu ti sei fatto vedere.
Potrebbe sembrare che le lacrime siano espresse esternamen­te, ma di fatto sono prodotte dall'interno e mirano precisamente a volgerci verso l'interno. Dice Simeone:
Ma non è così: Dio infatti non guarda all'apparenza né alla sola correttezza esterna del comportamento né alle nostre gri­da, fratelli, ma a un cuore contrito e umiliato.
Le lacrime non riguardano affatto il "fare" ma piuttosto l' "es­sere". Lo scopo della vita spirituale, per Simeone, è diventare "tutto Cristo", un figlio di Dio, erede diretto del Dio vivente. Dio non ha nipoti; egli genera soltanto:
Anch'io divento dio inconsapevolmente;
è permesso, è naturale supporlo;
ma se è consapevolmente, realmente e coscientemente
che Dio ha assunto la piena condizione umana
io sono diventato dio tutto intero,
mediante la comunione con Dio
sensibilmente e consapevolmente,
non per essenza, ma per partecipazione.
Sono interamente rinnovato,
sono reso del tutto immortale,
divinizzato completamente
e trasformato in Cristo.
Le lacrime sono il risultato diretto del soffrire le doglie del parto fino a che Cristo non sia formato in noi (cf. Gal 4,19):
Come la donna incinta sa che il bambino si muove dentro il suo seno e non può dimenticare la sua presenza, così anche colui nel quale Cristo viene formato, conosce i suoi movimen­ti, cioè le sue illuminazioni.
Dunque, al pari di Giovanni Climaco, anche Simeone parla di una visita di Dio. Noi attendiamo il divino Visitatore. Dove abbondano le lacrime, fiorisce la grazia di Dio:
O lacrime che scaturite dalla divina illuminazione e aprite il cielo stesso e a me procurate una divina consolazione.
Tale vista o illuminazione divina, dove una nuova luce irrom­pe nel cuore, implica una conoscenza particolare. Attraverso le lacrime riceviamo la luce di Cristo all'interno; siamo illuminati; attraverso le lacrime riceviamo la vita dello Spirito all'interno; siamo ispirati. Le lacrime abilitano il cuore a conoscere sia la presenza sia l'assenza di Dio. Possiamo solo piangere per colui o quello che di fatto sappiamo, e non semplicemente immaginiamo. Questa conoscenza è l'unico criterio del nostro progredire spirituale. La virtù e il peccato sono misurati esclusivamente dal grado di tale conoscenza, non dall'accumulo di meriti o di man­canze. Quando la conoscenza di Dio - della sua presenza o an­che della sua assenza - assume importanza maggiore di qualsiasi virtù o vizio specifico, allora l'uomo esteriore cresce in sintonia con l'uomo interiore. Allora le radici amare e oscure del cuore sono colte come parte e porzione dei fiori dolci e che appaio­no in superficie. Allora sì sa che "il regno di Dio è dentro" (Lc 17,21). Allora le lacrime - come il cielo stesso - sgorgano dall'interno come la sorpresa di una vita nuova, e costituiscono an­che l'alba di una luce nuova.
Nulla di esterno potrà mai misurarci, predirci, o esaurirci. Siamo opera di una bellezza in progresso, sempre gli stessi e tuttavia sempre in sviluppo e mutamento. E’ questo il motivo per cui guadagniamo - o perdiamo - il paradiso a un dato momento, in realtà all'ultimo minuto. Forse più di ogni altro scrittore della chiesa antica, Simeone è ben consapevole di questa verità: che i perduti possono essere ritrovati, i malati guariti, i morti riportati in vita. I mutamenti sono reali; nella storia della spiritualità essi sono detti conversioni. Una perdita può diventare un trion­fo in seme, una maledizione, una benedizione nascosta, un po­polo nella tenebra può vedere una grande luce; "e su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte, una luce si è levata" (Mt 4, 16). Il dolore può essere trasformato in vero piacere, la morte può dare la vita, e una lacrima diventare consolazione, se solo desideriamo, se solo possiamo metterci a cercare quello che è autentico.
Quando il cuore è affranto, "la santa umiltà, pietra spirituale leggerissima e soave" permette al liquido di scorrere e
fa innaffiare [l'anima] da un fiume di lacrime, e le fa incon­trare l'acqua viva, ne sana le ferite prodotte dal peccato, il marciume e le ferite, e rende tutto quell'uomo più splendente della neve.
Le lacrime riflettono la nostra resa a nuovi modem di appren­dimento autentico e dì vita genuina. Questa "novità" o "integrità" aggiunge una dimensione di stupore e di estasi all'espe­rienza della visione di Cristo:
Quando vidi i brillanti bagliori di luce attorno a me e i rag­gi provenienti dal tuo volto mescolati con acqua, rimasi stupi­to, vedendomi asperso di un'acqua luminosa. Dov'era, don­de proveniva Colui che mi stava aspergendo con acqua? Non lo sapevo. Semplicemente, mentre ero immerso nell'acqua, ero sopraffatto dalla gioia, crescevo nella fede, volavo sulle ali della speranza, ascendevo al cielo.
Quando ci dedichiamo totalmente a Dio, quando riconoscia­mo la nostra totale disperazione, confessando che abbiamo "toccato il fondo" nel nostro rapporto con il prossimo e con Dio, scopriamo anche la compassione di un Dio che ha assunto volontariamente la vulnerabilità della crocifissione. Per Simeone tutte le nostre lacrime sono raccolte infine ai piedi della croce. Non cercheremmo la guarigione divina se non dovessimo farlo per sopravvivere, se non dovessimo ammettere che non c'è altro modo di uscire dal vicolo cieco. I nostri cuori sono i luoghi in cui Dio abita, ma sono fatti tutti di vetro. La lacrime significano proprio questa fragilità, vulnerabilità e frantumabilità. Dio en­tra nella ferita aperta - la finestra infranta, la lacrima - del no­stro cuore, portando guarigione all'anima e al mondo, non per confortare ma per soffrire con noi, per identificarsi con noi in un atto di compassione infinita. Dio capisce, avendo subito la vulnerabilità nell'assunzione di una forma simile a un bambino e nella morte di croce. Tale vulnerabilità è il risultato inevitabile della spontaneità. Può essere anche un tratto distintivo della santità. La théosis è cadere e rialzarsi, è ricominciare. Se i nostri occhi godono della visione di Dio (il mistero di diventare Dio), allora le nostre lacrime esprimono la bellezza dell'umanità (il mistero di essere umano). Le lacrime sono le compagne intime della théosis, la nostra via di scampo dalla morte alla vita.

Conclusione
Come è vero anche per altri argomenti trattati nei suoi scritti, quello che Simeone dice sul dono delle lacrime è una testimonianza, non un trattato. Egli ci propone una serie di omelie, di confessioni e di ringraziamenti, non un discorso dottrinale basa­to su un complesso ben strutturato di asserzioni e norme. Ciò nonostante, al pari di Giovanni Climaco prima di lui, Simeone mostra una capacità straordinariamente sottile di penetrare nel mistero della perdita, in "quella misteriosa terra delle lacrime", nella complessità delle lacrime, nella loro condizione e impor­tanza per la vita spirituale. Per Simeone la luce vera di Cristo può risplendere soltanto in chi sa versare lacrime autentiche, frutto del desiderio insaziabile, oltreché della propria inevitabi­le indegnità, di contenere lo splendore e la pienezza di Dio:
Non potendo trattenersi, ma versando lacrime abbondanti che lo rinfrescano, attizza il fuoco del suo desiderio. Allora le lacrime scorrono più abbondanti e, purificato dal loro flusso, risplende con luminosità maggiore. Allora, quando è completamente infiammato, diventa come luce e quindi si compie ciò che è detto: "Dio si è unito agli dèi ed è stato da loro conosciuto".

Come descrivere, Maestro, la visione del tuo volto,
come esprimere l'indicibile contemplazione della tua bellezza?
Colui che il mondo non può contenere, come lo potrà
rinserrare il suono di una parola,

come si potrebbe esprimere la tua benevolenza per gli uomini.
Ero seduto alla luce di una fiaccola che brillava su di me
e illuminava l'oscurità e le tenebre della notte
e credevo, in questa luce, di essere occupato a leggere

come se scrutassi parole ed esaminassi propositi.
Dunque mentre meditavo, Maestro, su questi temi,
tu apparisti d'improvviso dall'alto, tanto più grande del sole,
e brillasti dai cieli nel mio cuore.
E tutto il resto, lo vedevo come un'oscurità profonda.
E in mezzo una colonna di luce fendette l'aria intera
e passò dai cieli fino a me, il povero.
Immediatamente, dimenticai la luce della lampada,
persi il ricordo di trovarmi all'interno della casa.
Stavo seduto in quella che mi sembrava essere
un'atmosfera oscura.
Dimenticai del resto il mio stesso corpo;

ti dicevo (e adesso te lo dico dal fondo del mio cuore):
“Abbi pietà di me, Maestro, abbia pietà di me, Unico!”
Di me che non ti ho mai servito, Salvatore,
che ho provocato la tua collera dalla più giovane età.
Ho praticato tutti i vizi dell'anima e del corpo,

ho commesso colpe innumerevoli, orripilanti,
più di tutti gli uomini, più di tutte le bestie,
ho superati tutti i rettili e tutte le belve.
Devi dunque provare per me misericordia,
per me che ho peccato più follemente di tutti;
perché sei tu stesso che hai detto che non sono i sani
ad avere bisogno di medici, Oh Cristo!, ma i malati.
Così, poiché sono un grave malato, gravemente negligente,versa

abbondantemente su di me la tua misericordia,
oh Verbo!».
Oh ebbrezza di luce! oh slanci del fuoco!
oh movimenti della fiamma che si operavano
in me, misero, che venivano da te e dalla tua gloria!
Gloria, io lo so e lo proclamo, è il tuo Spirito,
il tuo Spirito che divide con te, oh Verbo, la natura e l'onore.
È della stessa stirpe, della stessa gloria, della stessa essenza,
esso solo con tuo Padre e con te, Cristo, Dio dell'Universo.
Io ti adoro, e ti rendo grazie perché mi hai concesso di scoprire,
per quanto poco, la potenza della tua divinità.
Ti rendo grazie perché, mentre stavo seduto nell'oscurità,
tu ti sei rivelato a me, mi hai illuminato,
mi hai concesso di vedere
la luce del tuo volto che nessuno può reggere.
Io sono rimasto seduto nell'oscurità, lo so, ma mentre
restavo immerso, vestito di oscurità, tu sei apparso come una luce,
mi hai illuminato interamente della tua luce
e io sono diventato luce nella notte,
io che mi trovavo in mezzo all'oscurità.
E l'oscurità non ha soffocato interamente la tua luce,
né la tua luce ha cacciato l'oscurità visibile,
ma (esse sono) insieme, del tutto separate, non confuse,
lontane l'una dall'altra, naturalmente, niente affatto mescolate,
tranne che per il fatto che nello stesso luogo esse riempiono
tutto come io credo.
Così io sono nella luce, pur essendo immerso nell'oscurità
e sono anche nell'oscurità vivendo in mezzo alla luce,
eccomi nella luce, eccomi nell'oscurità
e dico: Chi mi consentirà di trovare, in seno all'oscurità, la luce
che essa non può accogliere?
Perché, come potrà l'oscurità ricevere
in sé la luce e, senza essere messa in fuga, resterà
in mezzo alla luce? Che temibile portento sto vedendo:
lo sdoppiamento dei miei due occhi, quelli del corpo
e quelli dell'anima.
Adesso ascolta: ti esporrò i misteri temibili di un Dio doppio,
che mi sono occorsi in quanto uomo doppio.

Egli ha preso la mia carne e mi ha dato il suo spirito
e sono diventato io stesso dio per grazia divina,
figlio di Dio ma per adozione, oh dignità, oh gloria!
(Inni, XXV, 1-66)