venerdì 28 gennaio 2011

Adoro Te devote 4

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La predicazione quaresimale prosegue la riflessione sull’Eucaristia alla luce dell’Adoro te devote. Nella terza strofa dell’inno l’autore ci ha portati sul Calvario per farci rivivere l’evento della morte di Cristo; nella quarta che è l’oggetto di questa meditazione, ci porta nel cenacolo per farci incontrare il Risorto. Vuole mostrare con ciò che l’Eucaristia è in stretto rapporto sia con la morte che con la risurrezione di Cristo, ma non lo fa in termini teorici e astratti. Con felice intuizione poetica, sceglie in entrambi i casi un episodio e un personaggio concreto con cui identificarsi: per la croce il buon ladrone, per la risurrezione l’apostolo Tommaso.

Come Tommaso apostolo le piaghe io non vedo
Eppur ti riconosco mio vero Dio e credo.
Che sempre più io creda, Signore Gesú Cristo,
che sempre più io speri e t’ami finch’esisto.

Spagnolo
Las llagas, como Tomás, no veo,
Dios mío, sin embargo, te confieso:
haz que yo en ti siempre más y más crea,
que en ti esperanza tenga, a ti te ame.

Inglese
God only on the Cross lay hid from view;
But here lies hid at once the Manhood too;
And I, in both professing my belief,
Make the same prayer as the repentant thief.

Tedesco
Kann ich nicht wie Tomas schaun die Wunden rot,
bet ich dennoch gl@ubig: „Du mein Herr und Gott!“
Tief und tiefer werde dieser Glaube mein,
fester laß die Hoffnung, treu die Liebe sein

L’autore dell’Adoro te devote ha voluto mettere in evidenza la profonda analogia che esiste tra la situazione di Tommaso e quella del credente. In ogni Eucaristia è come se Gesú entrasse di nuovo, “a porte chiuse” nel luogo della celebrazione (egli viene dal di dentro, non dall’esterno, sacramentalmente, non per moto locale!); nella comunione, non solo permette a noi di penetrare nel suo petto, ma penetra lui nel nostro.

Egli ci chiede di toccare le sue piaghe, ma anche noi possiamo chiedergli di toccare le nostre… Piaghe diverse dalle sue, prodotte dal peccato, non dall’amore. Toccarle per guarirle.

La verità teologica messa in luce in questa strofa è che nell’Eucaristia è presente non solo il crocifisso ma anche il risorto; che essa è il memoriale, come dice l’antico Canone romano, “sia della beata passione che della sua risurrezione dai morti”. In ogni Messa Gesú è, nello stesso tempo, la vittima e il sacerdote. Se in quanto vittima egli rende presente la sua morte, in quanto sacerdote rende presente la sua risurrezione. Chi celebra infatti, chi parla e dice: “Prendete, questo è il mio corpo”, non può essere un morto, ma un vivente.

Attraverso la risurrezione è Dio Padre che entra come protagonista nel mistero eucaristico. Se infatti la morte di Cristo è l’opera degli uomini, la risurrezione è l’opera del Padre. “Voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato” (Atti 2, 23 s.), grida Pietro il giorno di Pentecoste.

Il profondo legame teologico tra l’Eucaristia e la risurrezione crea il legame liturgico tra l’Eucaristia e la Domenica. È significativo che il giorno per eccellenza (e, all’inizio, l’unico) della celebrazione eucaristica non sia quello della morte di Cristo, il venerdì, ma il giorno della risurrezione, la domenica.
La prima apparizione di Cristo nel cenacolo avvenne lo stesso giorno della risurrezione, “il primo dopo il sabato”, e la seconda, quella in cui si colloca l’episodio di Tommaso, “otto giorni dopo”, cioè di nuovo il primo giorno dopo il sabato. L’insistenza sul dato cronologico di queste due apparizioni mostra l’intenzione dell’evangelista di presentare l’incontro di Gesù con i suoi nel cenacolo come il prototipo dell’assemblea domenicale della Chiesa: Gesù si fa presente tra i suoi discepoli nell’Eucaristia; dà ad essi la pace e lo Spirito Santo; nella comunione, essi toccano, anzi ricevono, il suo corpo ferito e risorto e, come Tommaso, proclamano la loro fede in lui. Ci sono quasi tutti gli elementi della Messa.

Ci sono ragioni pastorali urgenti che spingono a riscoprire la Domenica come “giorno della risurrezione”. Noi siamo tornati ad essere più vicini alla situazione dei primi secoli che non a quella del medioevo, quando l’aspetto più importante della domenica era il precetto del riposo festivo. Non c’è più una legislazione civile che “protegge” per così dire il giorno del Signore e ne fa un giorno speciale. La stessa legge del riposo festivo è soggetta, nell’organizzazione attuale del lavoro, a molti limiti ed eccezioni. Del resto, come giorno di riposo dal lavoro, c’è ormai, nella maggioranza dei paesi cristiani, anche il sabato…

Dobbiamo riscoprire quello che era la domenica nei primi secoli, quando essa era un giorno speciale non per supporti esterni, ma per forza interna propria. Nessun fedele dovrebbe tornare a casa dalla Messa domenicale senza sentirsi in qualche misura anche lui “rigenerato a una speranza viva dalla risurrezione di Gesú dai morti” (1 Pt 1,3). Basta poco per ottenere questo e mettere l’intera celebrazione domenicale sotto il segno pasquale della risurrezione: poche, vibranti parole al momento del saluto iniziale, scelta di una formula di congedo finale appropriata, come: “La gioia del Signore sia la nostra forza: andate in pace”, oppure: “Andate e portate a tutti la gioia del Signore risorto”

Come in ogni strofa anche questa termina con una invocazione orante. Dal ricordo di Tommaso e delle parole di Cristo: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (Gv 20,29), scaturisce l’invocazione: Fac me tibi semper magis crédere, in te spem habére, te dilígere, ”Che sempre più io creda, Signore Gesú Cristo, che sempre più io speri e t’ami finch’esisto”. In pratica si chiede un aumento delle tre virtù teologali di fede, speranza e carità. Queste non possono non riaccendersi al contatto con colui che ne è l’autore e l’oggetto, Gesú Figlio di Dio e Dio egli stesso.
Abbiamo già considerato l’Eucaristia in rapporto alla fede, commentando il grido “Credo quidquid dixit Dei filius” della seconda strofa e avremo modo di parlare dell’Eucaristia in rapporto alla speranza commentando l’ultima strofa. Soffermiamoci perciò sulla regina delle virtù teologali, la carità, l’amore. In linea con la pietà tutta interiore e personale dell’Adoro te devote, esso ci parla di un aspetto particolare dell’amore: l’amore dell’anima per Gesú. Fac me… te diligere: fa’ che io ti ami. È di questo amore di risposta che si chiede un aumento. Un richiamo quanto mai prezioso per noi oggi, per non “spersonalizzare” l’Eucaristia, riducendola alla sola dimensione comunitaria e oggettiva. Una vera comunione tra due persone libere non può realizzarsi che nell’amore.